Gli Appunti Del Fango- delta
- Milky
- 30 set 2022
- Tempo di lettura: 20 min
Aggiornamento: 3 ott 2022
(((nota: questo sarebbe il seguito ideale di un vecchio episodio degli appunti, intitolato "battaglie")))
Comparve un percorso di terra che emergendo s’appiattiva e compattava, guscio di testuggine. L’avevano visto dalla distanza, più alto delle piane d’acqua e melma. Come un’isola nella palude, che dei pionieri individuino attraverso la nebbia e i miraggi generati dai miasmi, per poterci costruire un accampamento. Ma non c’erano posti da abitare nella ricerca senza meta di chi non aveva tempo da far scorrere.
-l’acqua e le cose torbide non arrivano, qui?
-sono ovunque, sotto di noi, nella corteccia intorno.
-almeno non si vede, non sporca le caviglie, non fa ammalare…
-sono già ammalato e non posso ammalarmi di nuovo.
L’uomo alto e nuvoloso scostò, agitando l’avambraccio ricoperto di guanto nero, le braccia deformi di una palla intricata di sterpaglie legnose e scure, cresciuta impervia in mezzo al sentiero della selva quasi asciutta. Come aveva detto, l’acqua era sotto, invisibile. L’odore della palude viaggiava sfumato, simile a un falò lontano, sugli umidi riverberi di richiami d’uccelli nascosti da qualche parte.
La dama, nata nelle paludi, inghiottì saliva e allarmi nati da se stessi nelle incubatrici del suo istinto. Nel groppo che le si formò scivoloso come una sfera di lumache nel torace, percepì nettamente la verità delle presenze che numerose esistevano in quel paesaggio, senza farsi vedere.
Si vedevano la selva e gli spazi di crepuscolo tra i tronchi, e l’acqua sempre più nera che attraverso quei buchi filtrava come una cinta di mare attorno a tutta la terraferma.
-non vedi, stupida? Non vedi che la palude, con noi sopra, si estende fino alla fine del mondo?
-e allora?-, sospirò la dama, accogliendo nel modo in cui avrebbe accolto e accudito un animale ferito anche le parole di lui, nate per far male, le parole che avevano scoperto la dolcezza all’inizio della loro fuga, e che a ogni passo attraverso le selve pontine erano tornate ad assomigliare a ruggiti, e bronchi anneriti, e minacce. Lui l’aveva presa, specchiando nel nero del suo volto coperto la stessa insofferenza, dicendole: siamo uguali, e lei era stata restia, e lei gli aveva detto di scegliere cosa fare. E insieme erano fuggiti, perché da lui si era lasciata rapire, e insieme si erano spaventati delle cose strane che si vedevano sulla strada, quando passo dopo passo nelle ombre e nel Fango si erano lasciati dietro il mondo che lui per primo aveva ripudiato. Era solo un brigante e un demonio delle immaginazioni dei selvaggi del posto, era solo un mito locale pieno di diffidenza. Era il suo amante fuggitivo e assieme correvano in un sogno delirante fuori dal tempo, e attraverso tutto il tempo. Vedeva crescergli aculei d’ombra attorno, ogni respiro, ogni parola. Ogni guizzo di furia e timidezza nei tizzoni degli occhi dentro il velo che portava per maschera.
-e allora,-, digrignò lui i denti nel combattere i rovi, nell’esercitare la sua logica ferina -non c’è motivo di credere di essere in salvo. Ma dalla palude, dico, e non dalla guerra.
Sulle colline a una periferia del pantano, una periferia tra le infinite, la civiltà cercava di cancellare i barbari vestiti di nutria e tanfo di bufali. Scavavano sotto i tumuli, trovando schiume che soffiavano nel fuoriuscire, battezzargli le caviglie nude insensibili al freddo. Si riparavano, da spade o bombe che fossero, nei buchi e ci morivano anche dentro, pregando un dio sotterraneo affinché li assorbisse. Nulla si cancella. Sotto gli stivali da guerra degli armati. Incombono in tutto il paesaggio ossa bucate da occhi selvatici, che osservano, continuano a essere presenti nelle coscienze terrorizzate dei soldati in piedi sulla terraferma, convinti d’averli sterminati. Tumulati con le bufale che in vita li avevano seguiti e trascinati fuori dai pantani.
-chissà se è finita la battaglia…
-scema! Non capisci? Non conta più. È come se non fosse iniziata.
-e allora potremmo anche tornare indietro. Vivere in quella baracca marcia, io e te. Nel puzzo delle pareti che si sgretolano, che si fanno invadere da muffe. Cresceranno funghi di veleno commestibile. Avremo insieme crampi di dissenteria, ma sdraiati insieme sul pavimento fradicio guarderemo la pioggia. Cadrà su un mondo disabitato.
-sogni imbecilli.
Stupida, scema, imbecilli. La dama annuiva al suo “principe rude”, così chiamato negli aneddoti rozzi e laconici di quella gente a cui un tempo era appartenuta, prima d’esser individuata in mezzo alle lestre dall’occhio concupiscente e umidiccio di un nobile di campagna, prima di imparare a leggere e scrivere e parlare e soprattutto ammutolire in una villa, dentro un cuore di rampicanti e pilastri bianchi, freddi.
-se torniamo indietro…-, sussurrò facendo sollevare appena il panno sul volto, e le sembrò che cercasse goffamente di rabbonirsi -, non c’è niente, oppure, c’è qualcosa che non conosciamo… è cominciato da quando siamo scappati. Il paesaggio si è mischiato. Non chiedermi come. Non sono religioso, non m’intendo di miracoli.
-non chiedo come. Capisco.
La guardò, a farle capire che non s’aspettava quella risposta, un istante di rotondità nelle braci che scintillavano nel volto di cenere, camino che fa tana a un demone. Ruggì dopo una tosse scettica, senza chiederle cos’era che capisse. Ma anche lui lo capiva.
Tornando indietro non avrebbero trovato i resti della battaglia, la sua fine o la sua assenza. Né un tempo precedente al suo scoppio. Fuggendo, si erano avventurati in un’infinità immutabile di alberi, di acque nere fischianti, legname morto affiorante da cerchi concentrici di limaccioso movimento. Zanzare, giorno e notte, ronzii. Non c’era avanti e non c’era indietro. In una tavola distesa su un tempo scardinato dalle illusioni, privo di linee e poggiato invece su mulinelli fangosi, proseguivano al suo interno senza più poter tornare o approdare da qualche parte. In un sogno delirante, il principe rude in rossonero e la dama rapita proseguivano nel nucleo senza contorni della storia della palude. Potendo solo camminare, e veder avanzare nell’orizzonte i confini che mai si sarebbero fatti raggiungere, mai concretizzandosi in questa esistenza. Il fazzoletto di terra piatta e asciutta era una passerella, a ogni passo traballante e solida al tempo stesso.
(Enorme territorio per estensione nel Lazio. Enorme nube d’acqua limacciosa che soffia e si irrita. Estensione?)
Ti racconto il mio sogno imbecille, disse la dama a se stessa. Forse lui mi sente, mi capisce. Forse dopo gli insulti, la ferocia, comincerà il mutismo, e saremo come i tronchi morti. E ci capiremo, ci trasmetteremo a vicenda senza usar niente i risentimenti strani che custodiamo dentro, risentimenti delusi. Ma io racconto a te, me stessa, come sarebbe stato, ricostruisco per noi con mattoni di idealismi effimeri il capanno marcio degli attrezzi in cui lui si rifugiava nei suoi giorni da brigante. Il pavimento pieno di cianfrusaglie: vuote, morte, reperti archeologici della gente ammazzata, o nascosta sotto i buchi dei colli, o scappata in intrichi inaccessibili della selva palustre dove nessuno può raggiungerli, e non si faranno vedere per secoli. Ma noi nel capanno ci abitiamo, noi soli abitiamo in un mondo di battaglie, di ville costruite dove un tempo i selvaggi cantavano alla luna riflessa nell’acquitrino, credendola una madre. Vivremo lì, a bere quest’acqua insalubre che ci uccide. Io gli insegno a pregare, è un diavolo eppure non crede negli spiriti, eccetto quegli spettri di gas che abbiamo visto nelle nostre vite, lui sempre, io solo da bambina. Il mondo prima del primo rapimento, lo ricordo, ho fin dentro le narici la putrefazione e l’umidità, non mi lasciarono. Nemmeno quando mi presero, mi toccarono, e fecero complimenti alla mia pelle, e mi toccarono ancora, e insegnarono a leggere e parlare per poi tacere. E le pareti e le rampicanti della villa, e il vestito soffice con cui mi ricoprirono nel momento in cui stracciarono i miei mantelli color dell’autunno e li gettarono nel pozzo del giardino, tutto questo mi versava gelo nelle braccia e la schiena, peggio di qualsiasi inverno avessi vissuto allora nella melma, vedendo ansimare e morire i selvaggi miei parenti. E poi lui, un brigante con nome di principe, rosso e nero come ciò che gli umani hanno dentro, mi rapì una seconda volta, lontano dalla battaglia, dei nobili, dei selvaggi, delle due parti della mia vita. Una vita di rapimenti. E io rapisco lui in un sogno. Ti prego, preghiamo, principe, preghiamo mentre ci nutriamo di muschio in decomposizione, e ci sveglia all’alba un grido strozzato di trampolieri, coi gozzi di serpe grassa e lunga e occhi d’anelli d’orrore. Mi chiedo, i pollai abbandonati, di quei fazzoletti di terra galleggiante… mi chiedo, i bufali che tenevano vicino alle lestre, come fanno a portarseli dentro l’intrico, quando scappano dalle spade? Saranno rimasti là, allo scoperto, vittime degli attacchi della gente armata. Sacrifici.
La dama immaginò distese di bufale della sua lontana infanzia. I corpi deturpati, stramazzati al suolo di paglia e vegetazione idrofila. Sole e zanzare li sorvolavano con indifferenza.
Il principe immaginò il prolungarsi filamentoso del proprio terrore, inghiottito e radiante di veleno nel petto. Filamento a sostituzione di una concezione obsoleta, ma irrinunciabile, del tempo. Vide se stesso che marciava con lei, fuggito dalla battaglia e da una vita che avrebbero trascorso se fossero rimasti là, ad assistere al compiersi della storia toccata loro in sorte. Si vide schiacciato senza poter morire, affogato e riemergente dai flutti putridi. Gridò dentro sé e il grido spaccò le pareti, iniettò un tremore d’ossa che nei muscoli, fuori, non si vedeva. Imperturbabile fece sedere la dama su un giaciglio, sotto gli abbracci a mezz’aria della foresta, e i primi occhi nella notte. Accese un fuoco.
.
Flussi d’aria viola s’abbarbicavano alle gambe seminude di lei e gli strascichi ormai strappati della gonna, pelle morta degna dei percorsi selvaggi -una sensazione familiare sulla pelle: inutile campana di tessuto color crema, bagnandosi e insudiciandosi e strappandosi tornava ad assomigliare agli stracci della sua nascita. Lui l’aveva condotta sulla terraferma, era la loro isola, dove però non potevano conoscer quiete. Nell’immobilità, nell’infinito ripetuto uguale a se stesso, potevano vedere solo le cose cambiare ogni giorno, e gli uccelli alzarsi in volo, le zanzare morire e rinascere in nuvole, danze d’amore gelido sempre diverse -ma non era immutabile, la palude? O quei fenomeni erano i trascurabili mutamenti del giorno, che le immaginazioni impaurite della gente semplice e pagana delle lestre aveva trasformato in divinità da temere? Flussi d’aria viola si infiltravano nei loro passi come aveva fatto la corrente fredda che spirava di tanto in tanto da un fondale della palude quando marciavano al suo interno, nella sua bocca spalancata piena di patogeni. Qualcosa frusciava nel fitto mentre costeggiavano un sottobosco tranquillo, in cerca di lingue del legno e altri funghi sulle cortecce.
I gracidii riempirono lentamente l’aria. E dal folto d’un crepuscolo interminabile, durato giorni di marcia sull’isola compatta, arrancò con passo congelato una bestia, una carne come una singola rigonfia squama, d’appendici flaccide e pori spaccati, flosce liane attorno alle aperture. Il principe brigante esalò un lamento. Estrasse una lama dalla cinta, fermò la dama dietro lei che setacciava con gli occhi i bitorzoli di quell’apparizione, con le orecchie i solchi tracciati nell’aria dalla musica. La cosa gonfia respirava, mandando gemiti: era un enorme rospo, dalle cui narici strisciava una musica. Pori della pelle, simili a ultimi respiri forzatamente rigurgitati da polmoni affossati in malattia, schiumavano rivoli di fogliame frantumato in acqua densa e nera. La putrefazione vegetale e di muffa sovrastò gli odori del sottobosco, dei funghi, delle coste palustri di là dal colonnato d’alberi. La mistura di foglie e melma, ribollendo in superficie intermittenti globi di tossine dai riflessi giallastri, lambì la punta degli stivali neri del principe. Attorno ai loro piedi, come materializzandosi da sotto ogni foglia e pietra, cominciavano a correre e saltare rospi e rane, in adunata.
Restarono, si forzarono a esser lenti e immobili. Qualcosa prendeva forma. Tesi, la lama in fondo alle dita, le braccia incrociate al petto dove aveva sigillato i suoi allarmi, che ora danzavano in aurore gelide, brividi glaciali sotto i seni. Guardare la manifestazione, il più grosso cambiamento di quel loro tempo senza tempo.
Il rospo spalancò la bocca grande come una spelonca e la musica s’alzò in volo, sopra loro e sopra gli alberi, s’iniettò nell’atmosfera, diventando la palude stessa.
Un uomo, quasi scheletrico e unto di grasso, vestito di pelle rospo simile a spugna marrone, suonava con impugnatura mancina uno strano cordofono, seduto sulla lingua bianca dell’animale. Una luce biancoverde l’ammantava colando dalle pareti di quella caverna, scolorita come alberi fossili privi di linfa.
-ah, c’è gente.
L’uomo tamburellò le lunghe sottili dita in cima alla testa priva di capelli e in uno scatto repentino ritrasse subito il braccio, facendo oscillare un piccolo e scuro pendaglio d’una collana che sembrava essere apparsa in quel momento, attorno al collo sgusciante dalla pelle floscia di quella veste orripilante. In rapidità borbottava sillabe gutturali verso il suolo. Pareva proprio che ripetesse la frase agli anfibi giunti, forse, ad ascoltare le note.
-allora, avete richieste?-, disse con voce fumosa, accordando lo strumento. -Muddy Waters, Howlin’ Wolf. Posso arrivare a Clapton e Hendrix se proprio volete, ma lascio a voi decidere chi dei due è il diavolo e chi l’angelo, chi il sole e la luna, l’uomo e la donna e il bianco e il nero e insomma ci siamo capiti.
-aspetta un momento…
-ah, e se proprio è necessario, certo, posso anche sfoderare tutti e 29 i recordings del mio più famoso seguace. Buffo numero.
-ma questa musica non esiste. È presto, è… sbagliato.
Il principe interruppe il monologo del demone, e interruppe l’ininterrotta logica dei suoi pensieri. Non sapeva cosa avesse detto o perché. Seppe che gli occhi della dama erano scattati a guardarlo. E l’essere dentro il rospo sembrava rallegrarsi, e mescolare quell’allegria a una malinconia congenita, creando ironia e cinismo. Come il principe era stato capace di fare un tempo, nella solitudine del brigantaggio.
-però! Allora il famoso principe rossonero, perso nella vecchia palude, è finalmente riuscito a guardare nel futuro, a vedere come sarà questa terra, sapere tutta la musica che esisterà. Come quando un personaggio di un sogno si accorge di non essere niente. E che sparirà la mattina seguente. Tragico e sublime, no? Quel tipo d’emozione che un diopadre spietato non tollera, e il figlio ribelle, solitario per sempre nella palude della sua condanna, canta accompagnato solo da rane e rospi e grilli e rimpianti… anche questo, cari miei rospi- e si interruppe per gracidare al suo pubblico, -anche questo può diventare molto blues. Avete da accendere?
Avete da accendere, ripeté calando dalla mano sinistra sulle corde un mi settima che tremolò attraverso gli strati bluscuro dell’umidità che avviluppava il crepuscolo, sopra quell’incrocio di strade di paglia e miscanti, sopra i grilli e i gracidii e strani luccichii intermittenti che, come palpebre di fantasmi, ammiccavano impercettibilmente negli interstizi del buio. Il principe trasse un fiammifero dalla cinta nera e lo lanciò in una parabola perfetta dentro la bocca spalancata del rospone.
-bravo. Solo un personaggio di fantasia riesce a fare una cosa così.- fece quello sbuffando fumo di sigaretta indiana.
-io non vedo il futuro. Vedo quello che ho davanti. Solo che quello che ho davanti è un gran casino.
Lei lo guardava, il suo bel volto perennemente nascosto, il suo bel principe brigante fuggito con lei dalla guerra, dall’orrore, il suo principe dell’indipendenza. Non l’aveva mai sentito parlare così, e le pareva che, nel momento stesso in cui rispondeva a quel demone signore di rospi, comprendesse qualcosa, e cambiasse idea su tante cose. E la voce gli si rasserenasse, e gli scorpioni scintillanti nella sua lingua rimpicciolissero, e i tizzoni negli occhi brucianti attraverso il velo nero si affievolissero, e si ritraessero gli aculei d’ombra, che a ogni strattone della sua muscolatura schiva lei aveva visto disegnarsi attorno all’alto corpo di lui, facendole credere d’essere una pazza o una mistica che vede le aure, o d’essere pazza per averlo scelto, lasciando che la rapisse. Non era pazza. Disse dentro sé, parlando ai groppi di saliva annaspante in inverni di preoccupazione e virus dentro al suo torace, nessuna scelta è pazza, nessuna fuga anche se infinita e a precipizio nella follia e nell’assenza di tempo è da odiare quanto sono da odiare lo sterminio e la malaria che fanno vittime, che sono l’unica comunicazione di cui sono capaci i due mondi che m’hanno fatta così.
-o, in altre parole-, disse il demone inforcando uno strano cilindro di vetro al dito medio della destra e facendolo scivolare sulla tastiera nera del cordofono -non ti è difficile riconoscere che questo tipo di musica non si è mai sentita nei vostri giorni.
-…sì.
-però ti ricorda qualcosa.
-…anche.
-questa è una musica di schiavi!
Sorrise, e per un po’ stette in silenzio, concentrato a suonare. Le dita scivolavano e frustavano, e il vetro, traballando contro le corde strozzate dalla pressione, sembrava filtrare come un prisma con la luce le note che da quelle frustate scaturivano, trasformandole in liquidi, in raggi di sole disciolti nell’acqua palustre, o sulla paglia sterzata dalla calura, o in raggi di luna annacquati da grilli uggiosi in ogni cespuglio e tronco. Una musica di schiavi di palude, che nessuno aveva mai ascoltato laggiù, scale che volevano disarcionare dal cervello le armonie conosciute. E il silenzio nella concentrazione del musicista pareva eterno, pareva cancellare l’impressione che avesse mai parlato, o che si fosse spiegato in parole diverse da quelle scale mai sentite.
La dama di palude applaudì brevemente. In mezzo al grasso fangoso impiastricciato nel volto, una ragnatela di rughe e biancheggiare di denti. Il musicista sorridente s’inchinò più volte in omaggio teatrale e ostentato alla parte femminile del pubblico. Tornando nell’istante successivo a una quiete di segno opposto a quell’atteggiamento.
-posso fare una domanda, signor… demonio?-, respirò più forte del normale, fino a farsi sentire, la dama. Occhi persi in un sogno: se stessa mistica, se stessa madonna degli acquitrini.
Sorrise, il demone, a quell’autocensura di un altro termine, troppo sinistro per le superstizioni dell’epoca.
-richiesta di canzone?
-no, ecco, una domanda. Tu ti mostri a noi per mostrarci qualcosa?
-mmh….
(-che stai facendo…)-, fece il principe in un rimprovero ormai poco convinto. Non distoglieva lo sguardo dal demone dentro il rospo. Faceva soltanto scivolare lateralmente le braci quasi spente degli occhi, il tanto per dare un segnale alla sua compagna di eterno vagabondare. Sotto la maschera una striscia ammutolita di labbra, forse, e a lei piaceva immaginarselo impaurito, così che potesse accarezzargli metaforicamente il braccio, e chiedergli di fidarsi, e rilassare la muscolatura sotto le sue vesti rosse e nere, sotto il suo camuffamento.
-è il problema di voi altri cosi bipedi.-, disse il demone. -e dire che siete entrambi nati nella palude… dovreste capire. Che senso può avere cercare senso nei fenomeni, quando da un momento all’altro sprofondano, inghiottiti dal Fango? Che messaggi? Che risposte?
Rabbrividirono a una brezza, lanciata suicida verso il suolo ormai velato di ombre notturne. Aveva ragione, in qualche modo, ma in un altro modo mentiva di continuo.
-quindi non ha senso chiederti cosa sei.
-a che scopo?
-personale. Solo personale.-, disse in un fiato la dama, quasi solenne. Nella postura che le avevano insegnato.
-mmh. Allora sì, posso rispondere.
(-che stai facendo…)
(-tranquillo. Uno scopo personale. Voglio solo sapere, se è di quegli spettri di palude. Che uscivano fuori nelle notti delle feste dei campi e della pioggia… mi ricordo vagamente. Ero piccola, e sporca, e ogni corpo era un santuarietto di carne, in cui lottavano malattie e anticorpi. Guardavamo le luci sui campi di festa, e quei globi di fuoco incorporeo.)
-se sono uno di quei cosi? Sì, diciamo di sì. Sono imparentato a tutti gli spettri e i demoni. Ma non di quelli di cui, diciamo, sentite la presenza da quando siete nati. Sono nella vostra palude soltanto di passaggio. Passo in tutte le paludi, a cercare punti buoni per esercitarmi.
-quindi non sei tu, a simboleggiare la Storia di questa zona.-, disse il principe, di nuovo sfuggendo alle briglie della ragione, riempendosi di nuova calma, come ignorasse tutto quanto lo circondava e credesse di trovarsi solo con il demone in una camera vuota, echeggiante, della sua mente. Come a estorcere qualcosa a una parte antagonistica di sé, attraverso un lungo torchio, sottoponendola al suo sguardo di braci e scorpioni.
-principe, anche tu ti sei fatto contagiare dall’anima inquisitiva di questa tua sposa? Anime interessanti le vostre, nutrienti. Come quelle di tutti i personaggi di sogno. Non è che volete imparare le basi della chitarra? Posso insegnarvele, se facciamo un patto.
-insegnami dandomi una risposta. Hai parlato di schiavi. Ci saranno schiavi in futuro, su questa terra?
-ah, che ti importa adesso della Storia? Della terra che hai abbandonato, le sue battaglie e le sue nefandezze… no, ecco, gli schiavi, come posso spiegare… sono dei musicisti di palude, come me. Ho insegnato loro questa musica che sentite.
Le dita continuavano a ondeggiare su dodici battute ripetute, circolarmente, mentre parlava, e pareva raccontasse la propria giornata posizionando sillabe negli incastri di un sottofondo, ubriacando impercettibilmente la voce fumosa in corrispondenza delle settime minori.
-gli schiavi sono miti, leggende di tutte le paludi. Quanto a questa palude… sì, anche. Rinascerà con un nuovo nome, sotto nuovi comandanti. E guerreggiando cercheranno vittime e schiavi in un altro continente a sud, e porteranno in quella terra arida i miasmi di palude. Soffocheranno uomini, schiavizzeranno donne. Lo stesso continente degli schiavi che suonano queste pentatoniche. In fondo schiavi del piacere, come tutti, come i loro carnefici avidi e opulenti.
Il cielo creava mulinelli di umidità e stelle nel punto in cui si scontravano le correnti del crepuscolo e quelle della notte, in una compenetrazione incerta. Il mutamento delle cose era sempre incerto: farsi vedere dai due vagabondi, o far vincere l’altro impulso del Fango, allo sprofondo immutabile? I due, ora seduti in silenzio, ad ascoltare la fine del concerto. La lama nella mano del principe era debole, dormiente, pareva esser là solo perché le dita potessero attorcigliarsi su qualcosa di caldo, il calore del suo stesso palmo guantato trasmesso al manico. E quell’isola, figlia della palude, dove nella Storia sarebbe sorta una città, non sapeva se far veder loro cambiamenti a ogni passo del vagare disperato in un mulinello temporale, a significare l’assenza di pace che avevano ottenuto fuggendo dalla guerra; o se mostrare invece una sola, unica cosa immobile, a significare la fuga dal tempo, che avevano scelto.
-ho un’altra domanda.
-una richiesta?
-no, una domanda.
-mph, ancora. Nonostante le apparenze, sono più bravo a spiegarmi con la musica.
-non morirai mica, dentro la gola di quel rospo? Tra acidi e veleni.
Il musicista, demone, storico, parve sorpreso. Poi si guardò intorno, facendo oscillare fastidiosamente il pendaglio. Una recita o forse no, a far intendere che solo in quel momento aveva capito.
-questo? Dici questo? Ma questo mica è vivo.
-eh?
-è morto! Si sente al tatto, anche.- picchiettò il palato. -è una vecchia carcassa sempre più secca! Hahahah. Soltanto all’esterno, dalla pelle, butta fuori tutta quella merda. Ma anche quella, è solo putrefazione. Mica è la merda dei vivi. Con quella non ci voglio avere a che fare. Ci intendiamo, noi tre.
Seduti affianco si guardarono, stupiti. Lo vide stupirsi così di qualcosa per la prima volta, lo vide anche attraverso il velo, attraverso la maschera, come sempre riusciva a fare. Sapeva che la domanda era un ultimo tentativo di tornare com’era stato, quand’era un personaggio. Tentativo di dissacrare, allontanare, respingere, con ironie che capiva lui soltanto. Mise una mano sulla sua schiena rossa, assorbita indistinguibile dalla notte. Lui non la respinse, lui forse non se ne accorse. Non chiese allo strano demone o agli enigmi di malinconia nascosti nella sua musica come facesse il cadavere enorme a muoversi. E a sembrare così vivo, negli occhietti chiusi a ogni profondo sospiro della pelle forata.
Il rospo cominciò a indietreggiare, per scomparire nel folto ormai buio da cui era uscito fuori, tonfante, tra rami caduti, e un canto d’accoglienza -gli anfibi usciti dal suolo a frotte si sparpagliavano ancora caoticamente, alcuni seguendolo, altri andandosene per i quattro punti cardinali verso le coste dell’isola pianeggiante e boscosa, dentro gole di bisce, dentro buchi di letargo, dentro un unico suono.
Il principe e la dama in silenzio lo seguirono. Dal posteriore palpitante e rotondo si disegnava anche nella notte un’ombra più scura, o forse più bluastra, rispetto al suolo.
Lei conosceva quel folto, di rametti crepitanti, e passi scattosi di mammiferi coi musi umidi aguzzati nel fitto cunicolare. Aveva visto sparire esploratori, osservatori, in quella boscaglia, nemmeno fosse la giungla di cui avrebbe poi sentito parlare, guardando atlanti su carte sbiadite. Mondi lontani. Paludi lontane, chissà se ce n’erano, simili a quella. Avanti e indietro nello spazio e nel tempo, rispetto a quella che era un punto umido sulle coste laziali, rispetto alla palude che era il cuore di loro due che ci si erano persi per sempre.
Prima che il rospo si voltasse, prima che si infiltrassero tra i tronchi e le ragnatele, aveva detto qualcosa, senza nessun motivo. Forse rivolgendosi a lui. Uno sbadiglio verbale prima del silenzio che avrebbero stipulato, in cui si sarebbero abbracciati e avrebbero fatto finta di scaldarsi i corpi insensibili al freddo e alle malattie. Gli aveva detto: “quel pendaglio che porta al collo deve essere un arcangelo. Ma non ricordo quale.”-, e il principe aveva mugugnato, assorto; e il demone, prima che non si vedesse più, prima che il capoccione del rospo si voltasse e la bocca chiudesse il coperchio, aveva sorriso, senza dir niente. Aveva fatto molte pause nella sua musica, molte pause nelle sue risposte sibilline. Echeggiava ancora nella mente uno dei suoi discorsi.
-certo, da una parte capisco perché siate scappati. La gente che ha infilzato l’altra gente, gli aggressori di città, hanno commesso un peccato che perfino io condanno: hanno portato zoccoli di cavallo in una terra che non conosceva quelle bestie. È sempre un pessimo segno. Se porti cavalli dove non ci sono, in una terra di bufali, vengono sterminati gli indigeni e i loro totem. E quando gli assassini cominciano a sentire la mancanza degli assassinati, vengono portati gli schiavi di palude per sostituirli. Ma tutta questa sofferenza è forse il prezzo di una buona musica che sia uguale alla palude, al sole e alla luna.
Non avevano capito cosa volesse dire, ripensandoci. Ma avevano capito l’intenzione. E quella sera avevano assistito a un concerto, l’unica scansione che sarebbe mai apparsa nel loro tempo, unico festival. La dama procedeva guardando in basso, facendosi luce nel sentiero tenebroso con la sua stessa pelle bianca, ricoperta di cicatrici, e con la mente si sforzava di ricordare le braci simili agli occhi di lui, le mille braci accese confuse con le lucciole sul pantano enorme e sconfinato, un’unica piana di luci, di fantocci accesi in onore dell’autunno, e l’odore di fumo che s’amalgamava ai vapori, e le stelle che s’amalgamavano ai ciuffi di paglia in fiamme, e all’acqua, che le rifrangeva, che le disegnava davanti a occhi sbalorditi, quando non conosceva un solo nome da attribuire a una qualsiasi di quelle cose, nessuna domanda da porre, eppure sentiva tutto palpitare all’unisono fuori e dentro sé. Sentiva ancora l’intenzione del demone, nella bocca dell’essere che spianava il sottobosco davanti ai loro passi. Intenzione di dormire, nuotare addormentato forse, su un fondale. Incontro a un Fango, una divinità profonda. Per riemergere in altre paludi.
(era una statuetta alata, nera, con una consistenza ruvida e spigolosa d’escrescenze che parevano calcaree. Come un escremento d’uccello incrostato su un davanzale. E alcune croste sporgendosi facevano una spada, e delle ali d’uccello, e la testa mozzata d’un diavolo coccodrillo. Dio acquatico che avevano pregato nei festival di fine estate.)
.
Il rospo li aveva condotti a una costa, di quell’isola sopraelevata, del centro di Aprilia. Davanti a loro, a forma di lago, si estendeva la pianura d’acqua, regolare, senza onde e correnti in una quiete notturna che pareva essersi scavata un buco nel caos dei suoi monotoni giorni del Fango, e riempirlo d’inchiostro primordiale, singola lacrima d’un titano. Le zanzare li aggredivano, li ricoprivano mentre di nuovo si sedevano, per un’ultima volta, come ascoltassero un altro concerto, e invece non stavano facendo altro che guardare il rospo arrancare sulla spiaggia fangosa, e inabissarsi, e sollevare innumerevoli bolle attorno al corpaccione mentre come un isolotto tinto di riflessi bianchi dalla luna alta nel cielo se ne andava lontano, al largo nell’uniformità nera. E i riflessi mescolandosi alle tossine, alla melma sanguinante dal rospo, diventavano scene e allucinazioni luminose, diventavano qualcosa che il demone, addormentato in un grembo anfibio, stava sognando, stava mostrandogli a mo’ di saluto. Tutt’attorno Il tintinnio di luna e lucciole, stelle e spettri gassosi, infilzò le miriadi di particelle dell’acqua. Le zanzare penetravano attraverso i tessuti rossi e neri. Gli occhi di lei, sostituendo al ricordo dei falò quell’immensa acqua di buio e luce del presente, ne facevano una mistica, una vera madonna palustre.
Dal suo ventre, passando per una ferita, caddero uova bianche tra le spighe e il morbido limo della spiaggia. Sarebbero spariti da lì, per continuare una fuga incessante, lasciando incustodito il nido inconsapevole. Erano sue uova, uscite dal grembo di rimorsi e paure.
…
Sulla superficie dell’acqua scintillavano fantasmi dorati di Storia. Nient’altro che tossine di un anfibio già morto, d’una carcassa che conserva soltanto l’istinto di allontanare i predatori.
Una città era sorta in quel buco.
Un torrente di sbuffi, corridoi d’onde per far gridare l’acqua, sorvolato da arcate di lucciole. Le acque si squarciano in maniera indolore, la fangosità finalmente scivola via dalle superfici, finalmente liquide e trasparenti nel momento della morte. Da uno scroscio, che è come una nebbia, che è cumuli di granelli rumorosi infiltrantisi in sottofondo a ogni cosa che esiste, appare traballante il miraggio di Via dei Lauri lì dove soffiava il torrente, sormontata da luminarie. Zanne di riflessi giocosi, e sinistri, si sparpagliano e cambiano posto sulle spalle coperte di claustrofobici banchi di passanti usciti per San Michele, stretti tra loro a scaldare con il pretesto della ricorrenza festiva i loro muscoli tremanti ai primi venti freddi degli ultimi giorni d’autunno, a riempire fosse sconosciute scavate dentro se stessi sempre più numerose ogni anno. Pannocchie e castagne e noccioline e carni recise e fuochi e musiche sovrapposte diventano un’onda rivolta al cielo, che è una notte sporca d’aloni, grigia come fanghiglia secca.
Un cormorano, freccia avvelenata, precipita, volo di nervi neri sopra le luminarie, in un istante è tra la piazza e la stazione, in un istante non esiste più, diventa un piccione e spariscono i pantani e gli arbusti che osserva dall’alto. Bancarelle e tendoni sollevano musi parassitati dalle acque, muggiscono lamenti di bufale e il loro afrore di cuoio. Dalla piazza, stagno circolare che è come uno specchio distante, li guarda un riflesso, gocciolante dal muso di coccodrillo decapitato, appeso alla muscolarità celeste e dittatrice dell’arcangelo. Sono scappati via dalla notte di festa gli uccelli che becchettavano le squame rugose e i denti del rettile. Dai musi delle bancarelle fuoriescono eccessi di caramelle vermicolari, leccornie multicolori parassitiche. Scarpe fameliche, stivali, schiacciano robe mollicce indistinguibili che maculano l’asfalto, sbavano olezzi appiccicosi che continueranno a imprimersi nell’aria attorno alla fontana futurista nei giorni seguenti.
In Via Marconi il diavolo, incarnato in occhiali rettangolari e radi capelli e un cappellino verde scuro e sopracciglia concentrate e giacchetto nero e bianco Adidas, se ne sta con la schiena appoggiata alla parete gialla della scuola, un ginocchio caprino puntato ai giardinetti, il polpaccio sorregge una stratocaster, le mani veloci svisano melodie d’Acque Fangose fino a Clapton che in un gracidio d’elettricità spezzettata riverberano da un amplificatorino portatile. Seduti sui graffiti delle panchine, adolescenti con anime acquose e ormonali di batraci lo ascoltano o lo ignorano, omaggiano il concerto del diavolo con la loro presenza. Spariranno presto in fiumane di passi e grida e luci e odori riconosciuti, marchiati nelle profondità delle narici di festa. Chiamano caos il dio del territorio in cui vivono. Ma hanno dimenticato la forma che aveva quando era dei selvaggi, quando era gelido e sporco. Sulla sua superficie cresce e si insudicia Aprilia, e si ripulisce il giorno dopo, e rigetta nuove esalazioni. Andrà in macerie e il mutamento sarà incerto se farsi vedere o no da quelli che vivono sulla superficie immobile, costante. Si stanno godendo la festa patronale e uccideranno prole di coccodrilli e draghi d’acqua, con spade di pannocchia rivendicheranno il bene contro l’inverno imminente e davanti ai resti morti dell’estate.
In un delta d’acque e melma, l’isola centrale è cristallizzata, un carapace vuoto di testuggine che fa da pupilla a uno sprofondo integro, identico.

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