Gli Appunti Del Fango- case anni '70 di un principe rude (pt.2)
- Milky
- 29 mag 2020
- Tempo di lettura: 11 min
(segue alla parte precedente)
Quello che scrivo in queste pagine è quello che so. E in questo caso mi è stato in parte riferito. Non ho mai visto gli anni che lasciarono un segno davvero singolare in questo luogo, come fossero una fase cruciale della sua crescita. E i frammenti di quel tempo si trovano in quantità e intensità eccezionali in particolare in molte aree del cosiddetto “centro”. Un grosso parco, come un occhio verde scuro, si circonda di fosfeni ancora intrisi di un’altra epoca, che continua a respirare attraverso vecchi ascensori dalle pareti di legno chiaro, pavimenti di marmo rossiccio, decorazioni di carta da parati, rampe di scale scarsamente illuminate, ombre trasparenti per strada di gente che c’era stata, con ai piedi le scarpe e in testa i capelli di allora; un televisore acceso ad alto volume da una coppia di anziani, lo senti provenire da un balcone spalancato in una sera d’estate, fa sapere fin giù a Piazza Sturzo che i concorrenti di “Reazione a Catena” hanno deciso di dimezzare il budget, e, ci scommetteresti, è lo stesso esemplare di televisore sul quale comparivano il Carosello, il Rischiatutto, le piazze infuocate e quelle fiabe troppo inquietanti e reali, con mostri sanguinari troppo sfuggenti e i buoni massacrati e lasciati a marcire nel portabagagli.
Dal balcone la osservava riemergere dal sottosuolo. Lì era stata scavata una “botola”, non gli riusciva per ora di trovare un nome migliore. Sentiva che in quella “botola” era contenuta l’anima di qualcosa. Non sapeva come dire, lo trovava un pensiero strano e, vergognandosene un po’, non voleva confidarlo a nessuno. Però gli piaceva, e passava volentieri tra simili fantasticherie quei minuti in balcone. Forse, se può esistere una cosa del genere, era “l’anima del quartiere”. O, se non del quartiere, di quel preciso enorme rettangolo recintato entro cui si era deciso di piantare degli alberi e farci un parco. Qualcuno aveva setacciato, aveva detto :“ecco, cominciamo da qui”, e scavando, aveva esposto quel buio mondo segreto, che ora aveva un varco di accesso. Avviati i lavori di costruzione -di industriosità così affascinante per un osservatore di quell’età-, erano bastate poche settimane ed ecco che delle semplicissime scalette da piscina permettono di calarsi dentro l’anima del quartiere. Lei scendeva spesso in quel pozzo, un po’ effimero o incantato, come se esistesse da un’altra parte e allo stesso tempo lì, pochi metri sotto di lui che guardava. Giù, “là sotto”, diceva, era pieno di rospi, lumaconi neri grossi così, goffi e cupi come pensieri di giganti sepolti, e poi blatte vigliacche e insicure che non hanno mai visto gli umani e il sole. Tutto questo viveva e pulsava, incredibilmente, tra un’alternanza di terriccio fradicio e sudicia acqua stagnante che stava ad appena un dito dal lastricato ogni giorno calpestato dalle scarpe, ritmicamente, sonoramente, tac toc, e sopra le scarpe delle gambe e sopra le gambe un torso e infine una testa che fin troppo spesso ignora cosa c’è proprio là sotto. A pochissima distanza, oh testa, come fa a sfuggirti, come fai a essere così poco attenta? Se ne sarebbe ricordato, nei prossimi giorni durante le passeggiate? Quel mondo sotto le suole nascosto dal cemento era quello dove andava a impegnarsi lei, a sbrigare chissà che affari. A parlare con quelle creature umide, a recuperare chissà quali incredibili reliquie o a ricevere una saggezza di certo unica, perché unico era quel varco in tutta la città. Ma il più delle volte, semplicemente, la vedeva uscire con secchi pieni di acqua e melma, da svuotare in uno scarico più in là. Consegnava la sporcizia della terra a un condotto che l’avrebbe fatta scivolare fino al mare, paesaggio ricordato opacamente in quei giorni di scuola, confinato in un ruolo diverso e distante, come una promessa ancora lontana. Lo svuotamento nello scarico era la mansione più impellente perché lì potessero crescerci degli alberi non autoctoni, quelli adatti per i cittadini per bene che nel weekend vogliono passeggiare all’ombra, quelli che preferiscono ricordare di essere molto vicini a Roma piuttosto che pensare al fatto che lì pochi decenni prima, in verità un tempo spaventosamente breve, c’era stato un immenso pantano fetente e pieno di malaria. Così il terreno originario andava svuotato delle sue proprietà, via l’acqua marcia coi suoi umori nauseabondi, via le sostanze invisibili ricolme di magia paludosa, e con queste via i diavoli che in tali luoghi amano attendere le prede. In parte dispiaceva, poiché quel mondo a suo modo unico ed eccezionale doveva scomparire se si voleva vedere la propria città un po’ più bella esteriormente, ma era pur sempre stata la necessità di farlo scomparire ad aver dato il pretesto per il suo svelamento, che lo aveva consegnato in tutta la sua gloria agli occhi di chi sapeva apprezzarlo. C’era da sperare che anche nel giorno in cui lì ci sarebbero stati solo alti pini marittimi, qualcuno sarebbe comunque rimasto in grado di cogliere ciò che non si vedeva. Eccola risalire ancora, stavolta con un solo secchio pieno di melma nera sotto un braccio, sembra pesantissimo. L’altro secchio ce l’ha un suo amico, un collaboratore, uno del “partito” o come diavolo si dice. Però tra tutti quelli che fanno questa cosa stramba, pensava, non so quanti sono in grado di parlare con i rospi là sotto. A lui sarebbe piaciuto, pensava, scendere lì soltanto per chiedere delle cose a quei rospi. Come andava, come non andava, che si diceva, che vita facevano là sotto. Se erano consapevoli di essere rospi “apriliani”, e se conoscevano altri rospi che non lo erano e come questi ultimi vedevano questa loro appartenenza, e se a loro questa consapevolezza dava un qualche tipo di orgoglio, o se non gliene fregava niente ed erano tutti contenti finché c’era abbondanza di larve e frescura.
In fondo non era altro che una palude. Il destino di quella città, pensava, sembrava indissolubilmente legato a qualcosa di simile al fango, a dei liquami, a poltiglie viscide dal cattivo odore. E come poteva essere altrimenti? Lo si vedeva anche scavando in un qualsiasi punto della città, giù fino a spogliare l’anima: si trovavano proprio quelle sostanze limacciose e quella sabbia, che dicevano essere una protezione miracolosa contro i terremoti. Gettò lo sguardo più a sinistra, verso Via Dei Mille, che costeggiava l’opera in corso.
Mentalmente la proseguì, inventandosi la prossima passeggiata o quelle precedenti. Proseguendo diritti fino in fondo, per poi girare a destra e di nuovo a sinistra, si arrivava alla stazione. Dicevano tutti, “questa è una città ben collegata”, “la sua vicinanza a Roma e gli altri centri del Lazio è la sua forza”, “qui ci vivono molti pendolari”; ma, ne era sicuro, uno “straniero” che si fosse trovato a scendere in quella stazione, per quanto ben collegata potesse essere, avrebbe comunque pensato di trovarsi in un luogo un po’ sperduto, un po’ anonimo, senza niente di notevole. L’individuo di passaggio alza gli occhi allo schermo delle partenze: “Aprilia?”, si chiede: è un nome che in quegli anni ancora non dice niente, e chissà se mai dirà alcunché. (Sul pavimento di quel misero quadrilatero che è la sala d’attesa della stazione, ancora oggi in particolarissime circostanze, si possono vedere due deboli banchi di fumo che fluttuano verso il basso, contrariamente a ogni legge fisica, perché troppo indeboliti. Non ci sono segni lasciati dagli attrezzi una volta lì sparpagliati, nessun orma fangosa di passi disseminati da fuorilegge o anime sperdute. Le pareti di legno nero marcirono e scomparvero del tutto molti anni prima che lì si decidesse di costruire la stazione, un posto in cui non era rimasto alcun segno di presenza umana, un posto desolato dove, perché questa fiorisse, si dovevano creare determinate condizioni -ah, ignari, osservatori pessimi! Marcirono e scomparvero anche i pochi e imprecisi cartelli di indicazioni che spiccavano tra i canneti senza nome di una località senza nome, proprio in quei paraggi. E sempre là fuori, lungo le rotaie, pochissimo rimane di un fitto boschetto. Assurdo pensare che qualcuno, nei secoli precedenti, si sia smarrito dove ora non si apre altro che un monotono prato scarno il cui unico compito è di allontanare i polmoni dei passeggeri dalle fabbriche incombenti sull’orizzonte. E addirittura a volte ti sembra di scorgere, incombente alle spalle dell’impiegato di stazione lì seduto dietro la sua lastra di vetro piena di ditate e condensa, uno sguardo scarlatto. C’è un qualche spirito in pena che si lamenta, perché gli è stato fregato il posto.)
..
È una città industriale, questa. Di pendolari, in espansione, in crescita, la provincia, la palude, una città di fascisti, una città poco importante, ci sono un sacco di fabbriche. Queste sono le varie cose che si dicono sul suo conto, e lui, che sta camminando e pensando proprio a questo, qui ci è nato. Torna dal liceo (sede vecchia), oppure indugia nella sua zona, a piedi chissà per dove in quelle zone poco vitali, terreno da cielo nuvoloso e spettri diurni che non sfigurerebbero assumendo la forma di avvoltoi. Guarda il paesaggio intorno e ripensa alla zona di casa sua, la strada che la separa dalla stazione, che gli sembra di aver già percorso nel futuro, negli anni universitari, e in un futuro ancora più lontano, attraverso i nuovi osservatori delle successive generazioni. Le zone sono uguali nello spirito: è una città industriale. Il cielo è grigio, le nuvole si addensano di emissioni lugubri provenienti dalle ciminiere, guglie sullo sfondo. Simmenthal, residui gelatinosi di bovini macellati, puzza di carne in decomposizione; case farmaceutiche, altra poltiglia scaricata in un canale; canali: ce ne sono molti, quell’acqua è la stessa buttata lì dai coloni, eh sì, c’è ancora un po’ di palude. Poi, scarti di pesce, scarti industriali di ogni tipo che uno inesperto non può classificare. Liquami, il destino di questa città è nei liquami. Le bufale allevate in questa zona nell’epoca d’oro della campagna devono essere tutte morte, stramazzate al suolo per l’intollerabilità dell’odore che arriva come un’ondata.
(Io, personalmente, ho scarsa tolleranza dell’odore proveniente dalla tostatura del caffè, sempre in stazione, a volte eccessivo nelle mattinate in cui si aspetta il treno.)
Passano altri anni, se ci si affaccia sullo stesso balcone del salotto non si vedono più né la botola né lei che ne esce fuori. Il terzo dei quattro numeri della data (il più quotidiano) è cambiato, ma la casa è rimasta ovviamente impregnata del decennio precedente. Sdraiato sul pavimento nella stanza bianca, ascolta attentamente le parole che provengono dal giradischi, e i lamenti di quella chitarra ivasata. I fischi e riverberi prolungati sembrano bagliori di un sole spietato condensati in suono, sembra la calura che investe un camminatore tormentato da zanzare. Come il soldato della giungla sulla copertina dell’altro disco, “Meat Is Murder”. Titolo che fa pensare alla famosa prima fabbrica qui edificata. A Manchester, opaca e sporca come Aprilia, delle mani sono state capaci di produrre quel suono. Distende le sue verso il soffitto, le guarda: anche quelle sono state in grado di riprodurlo. Si sente orgoglioso e potente. Nel seminterrato del palazzo, con una chitarra di seconda o terza mano. Le prove del gruppo sono la cosa più importante che esiste. Questo pensa l’osservatore di allora. È solo con sé stesso, con una parte di sé stesso che sta bene e sopravvivrà a ogni catastrofe che dovesse abbattersi su questa città. Nessun altro in casa, quando è vuota a volte fa paura. Fantasmi. Ma è uno di quei pomeriggi caldi, ed è una casa in cui il sole penetra magniloquente (almeno su quel lato). E la camera è candida, non è quella in cui è cresciuto (lato opposto del corridoio), quella in cui si moltiplicavano pensieri d’ombra e chiusura. Chi stava un tempo tra le bianche pareti era stato anche tra le pareti della botola, le pareti dell’anima. Dov’è lei adesso? Lui, per il momento, non se lo chiede, e ascolta il singolo degli Smiths.
“i am the son
and the heir
of a shyness that is criminally vulgar…”
Io, osservatore, accetto e assorbo l’eredità lasciatami da queste parole.
…
Un versante della casa dà sul Parco Dei Mille, luminosissimo, il riflettente marmo rosso del salotto piccolo rimanda come un’eco, una canzone a squarciagola: l’ondata gialla mandata dal sole e quella verde delle enormi chiome vive, proprio di fronte alla finestra. L’altro versante, invece, è cupo e quasi soffocante. La finestra del corridoio dà su una porzione di cortiletto interno dalle pareti grigiastre, malaticce, dove non sembra poter cadere mai alcuna luce dal cielo. È quasi inspiegabile, anche nel giorno più solare, basta affacciarsi lì è sembrerà che il mondo sia stato soggiogato da una foschia perenne. Qualcosa ostacola i colori caldi. Un’ombra, una silhouette fantasmatica di quell’osservatore ora impegnato nella camera bianca -un suo sé passato o futuro- indugia davanti a quella finestra (anziché il balcone degli anni passati. È uno a cui piace guardare fuori, in cerca di qualcosa, forse una cosa che ha perso). Quella vista, l’odore di detersivo da ospedale proveniente dal bagno lì vicino, le tubature gorgoglianti come un infastidito e gigantesco organismo gonfio di fluidi; e ancora un altro odore, di straccio impregnato lasciato a smaltire la sua stagnante umidità sul bordo della bagnarola. Tutto rivestito della patina di un argento privato delle proprietà brillanti. Il vetro è sfocato come una foto decrepita. Una canzone dal primo album dei Cure in testa -ancora non suonavano “Dark”, ma certo alcuni brani possedevano un’incredibile carica decadente, “perché mi ricordano così tanto questa parte di casa mia?”. Io che scrivo ho visto moltissime volte lo stesso fantasma, quel “sé passato o futuro” di un osservatore che non sono io, ma che molte volte ha voluto contattarmi, mandandomi segnali di là dalla voragine separante le nostre esistenze. A volte, le nostre sensazioni ed emozioni si sono sovrapposte; e mi sembra di aver visto molte delle cose che egli ha visto, e aver pensato molte delle cose che ha pensato in questi posti che ora io vedo e attraverso col mio corpo solido (deve essere un fenomeno comune a quelli che come noi amano stare appoggiati a un balcone o una finestra, immobili anche per ore). Esperienze spettrali: devono coesistere in questo palazzo due opposte visioni del mondo. Ma non importa quale sia a prevalere, di volta in volta, su chi le esperisce: la forma in cui si presenteranno rimarrà la stessa. È una casa degli anni ’70, e non c’è modo di eludere questo. Noi esseri umani, poi, siamo provvisti di “morale”, e non possiamo fare a meno di cercare il bene o il male. Abbiamo la strana idea di poterne trovare in quantità enormi in quegli anni, del piombo o del fango che fossero, a seconda dei punti di vista. Come ogni altra epoca, tutte con la stessa quantità di bene e male. Ma forse il conflitto si fa molto più evidente per quegli anni, poiché esistono queste case, con le loro forme e i loro incantesimi, a testimoniarcelo così intensamente. Imprigionano sospiri, ci si ficcano dentro. Forse è questo che mancava ai tempi del pellegrino e del principe rossonero, forse era questo che avrebbe dovuto attendere lo smarrito, prima di poter comprendere l’essenza del posto fuori dalla mappa in cui era finito esiliato da Dio. Non era protetto e la malaria lo colse.
Rivivo sempre tutto questo, in ogni casa di questa zona. Quartiere grattacieli. Grattacieli, industria, progresso. Skyline dotata di guglie. Palazzi, alti, belli, e fabbriche, ciminiere, cupe. Sole e parco verde, cortiletto grigio. Anni ’70, secoli fa in una palude dove stanno poche capanne di bifolchi bufalari. Città industriale: liquami e fango, botola. Rivivo tutto ogni volta che vedo un pavimento come quello, tipico degli anni ’70, marmo dal colore focoso. Lo rivivo ogni volta che un ascensore ha il colore di una cabina telefonica vista in qualche serie televisiva. La sottile linea che separa il bordo suo da quello del corridoio, un segmento più nero del vuoto cosmico che da piccolo mi faceva immaginare l’inferno, e l’inferno altro non era che una fantastica miniera in attesa di un esploratore. Bisognava stare attenti a non farci cadere dentro piccoli oggetti. Lo rivivo negli odori diversi da quelli del mio secolo. Entrando in un androne, anch’esso su quel cortiletto chiuso, salendo le scale sento la mia testa sovrapporsi e confondersi con quella di altre persone che le hanno percorse. Nessun lavoro è stato fatto in cinquant’anni, gradini immutati. E sento i loro pensieri su Craxi e la D.C., due parole ancor più ricorrenti di quel che si crede (e già lo crediamo abbastanza). E i loro pensieri pieni di paura, questa invece così tanta che mai l’avremmo creduta così. Lo rivivo quando, affacciato alla finestra di una casa che dà su piazza Sturzo, vedo affacciarsi su un balcone di fronte un fantasma a me speculare. Pensieri in sintonia, attraverso le epoche. E mi si marchia tutto a fuoco, definitivamente, quando fisso lo sguardo e mi ipnotizzo su di un motivo geometrico disegnato su una parete lucente del bagno, o su carta da parati un po’ sfatta, dall’odore indefinibile che mi sembra un curioso conflitto tra la polvere e il miele. Mandala disegnati negli anni ’70. Li guardo e so che una città intera sa benissimo (senza saperlo veramente) di cosa sto parlando.
“non troverai, nei paraggi, nessun oggetto che possa contenere le informazioni che cerchi. Non puoi apprendere nulla, qui, da qualcosa che abbia consistenza fisica, e una forma e un peso tangibili sono fondamentali anche per dare supporto alla memoria…” -passati più di duecento anni, come ho già detto, sono comparsi moltissimi diagrammi e disegni che hanno dato in parte vita ai concetti segreti custoditi sotto il fango geloso. Un principe vestito di rosso e nero, senza volto, ne aveva sentito l’odore quando questa era terra di fuorilegge e ancora non c’erano le case con le pareti decorate.
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