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Gli Appunti Del Fango- case anni '70 di un principe rude (pt.1)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 29 mag 2020
  • Tempo di lettura: 19 min

Quello che scrivo in queste pagine è quello che so. E “quello che so” significa quello che nella mia esperienza ha avuto un peso, quello che in veglia si impone nella mia testa, riempiendola, e in sonno scivola all’interno di forme sconosciute e imprevedibili, mutandosi, comunicando. Chi legge, invece, può giustamente dubitare di tutto: non mi importa. E come faccio a sapere cose che non riguardano la mia esperienza, si potrebbe chiedere? La riguardano, invece, se la scrivo qua: solo che a volte mi è stata riferita dai miei occhi, i miei sensi, le mie impressioni e così via; altre ancora mi sono state riferite dalle parole che risultano da altri occhi, altri sensi e così via; e in altre invece, come in questo caso, non mi sono state riferite proprio da nulla. Tutte e tre hanno la stessa identica capacità di esercitare un peso. Per intenderci, nessuna “conta di meno”. E questo è quanto.

Io che lo racconto non so dire “quando”, colui che l’ha vissuto non sa dire “dove”: questi erano, e sono stati per lungo tempo, luoghi a cui non corrispondevano scritte né sulle mappe, né sui cartelli di legno posti a sorvegliare i sentieri, di oscurità così densa e umidità gravosa in quei giorni dove non comparivano lumi di periferia. Per i viaggiatori, ciò equivaleva ad appartenere a una terra di nessuno, a viaggiare all’interno del nulla: posti dove temere i diavoli. Sulla cartina questo ha l’aspetto di uno spazio lasciato in bianco, quei numerosissimi spazi che per tutta la geografia lì rimpicciolita separano spesso un nome, piccolo o importante, dal prossimo più vicino. O in altri casi, in mano ad altri cartografi, appaiono qui disegni ripetuti sempre uguali, generici, che in virtù di ciò finiscono per assumere lo stesso identico significato dello spazio bianco (soltanto un po’ più colorato, magari); quindi, boschetti stilizzati in pochi alberi, curvature di inchiostro a simulare colline, tratti paralleli come ciuffi d’erba… tanti modi di riempire la pergamena nei vuoti rappresentati dai luoghi esclusi al controllo antropico -o almeno, a quello degno di memoria. Così chi qui cammina, chi cammina nel nulla che non è né città né paese né feudo, ma soltanto una palude immensa variegata di stagni, boschi fangosi e dune di argilla- chi per qualche imperscrutabile concatenazione di casi forse infausti si è perso quaggiù, non si preoccupa più di tanto di non trovare alcuna presenza umana: semmai, è ansioso su che tipo di presenza essa possa essere, qualora ci fosse. Non solo dove sorge Aprilia, ma ne era pieno anche fino a tempi piuttosto recenti in tutta la penisola, di queste località che sebbene fossero prive di nome non erano prive di uomini (e altre presenze), territori di briganti, crocevia dove sostano fuggitivi, società che non si fanno conoscere a chi non ne fa parte. Anche loro hanno certamente regole e nomi di cui non viene riferito ai funzionari regionali. Un nome, un nome: a volte basta sentire un nome, anche colloquiale, anche dell’uso di gente malnata, per decidere o darsi l’illusione di decidere dove dirigersi, o per capire dov’è che occorre darsela a gambe. A ogni passo, sollevare gli stivali in fuori dal fango vorace di ginocchia produceva un gustoso e tonante “stunf!”, per la liberazione dell’aria schiacciata tra la melma densissima e il cuoio che l’aveva penetrata spernacchiando. Rimanevano, a testimoniare l’avanzata del pellegrino, le file di spessi fori che subito si riempivano d’acqua piovana. Le correnti che si generavano in superficie sparpagliavano qua e là lunghe strisce di legname marcio, corteccia sottile attorcigliata, detriti, grumi di humus e carogne irriconoscibili; galleggiandogli incontro e intorno come natanti, lo salutavano, prima di sparire in un mulinello o andarsene via. E intanto egli sperava di veder discendere, per posarsi su uno di quegli scarni e uggiosi arbusti foranti l’acqua, una cornacchia desiderosa di sfotterlo, qualcuno al quale potesse sfuggire un’informazione. Ma le cornacchie o restavano in su, oppure erano già andate a ripararsi. E sebbene l’estate fosse lontana, erano soltanto le zanzare a vivere nei suoi paraggi. Vivere e portare morte, malaria nel viso scoperto. A meno di trovare un qualche dottore del luogo, o meglio un fattucchiere nell’eremo sperduto. Tuoni e ronzii intollerabili, ruggiti dell’acqua e del fango, scrosciare senza sosta, l’orchestra in cui sembrava di udire i lamenti insoddisfatti degli affogati là sotto, dei mille altri teschi dispersi, soffocati da metri di pantano indistricabile. Miasmi, miasmi stagnanti e di vita marcita che corrodono le pareti del naso, mentre nella bocca l’intenso e nauseabondo sapore ferroso sembra significare che il sangue infetto sia andato a rifugiarsi in gola, per fuggire l’aria malsana intrusa dei condotti respiratori. Possibile un simile inferno non lontano da Roma? Oppure il vagare indefinito tra gli spazi dell’ignoto, per evitare certe strade, lo aveva condotto fuori da ogni via d’uscita, in un tempo isolato da ogni civiltà? Il paesaggio sarebbe potuto essere lo stesso di un milione di anni prima. Eppure ne era sicuro, Roma davvero non doveva essere lontana, ma come…?

Più tardi, la civiltà esisteva ancora. Da un po’ era entrato in quella specie di baracca dismessa, di legno nero, travi ben visibili, tetto gocciante ma non troppo. Fuori cominciava a far buio. Doveva esser stato un emporio improvvisato per quei poveri paria che si aggiravano nei pressi delle zone paludose, arrangiandosi tra bufali e misere capanne di fango. Non ne aveva vista nemmeno una, nemmeno un fumo lontano, da quando la terra asciutta aveva cominciato a mutare in una strana sabbia fradicia, sempre più pallida e sinistra man mano che si allontanava dai paesaggi differenti a cui dava le spalle. Sapeva però che gente di quel tipo era distribuita a casaccio per tutta quell’area in cui sembrava che una pozzanghera senziente attanagliasse la costa tirrenica e le aree limitrofe, una molle ameba parassita appiccicata alla regione. E poi, come si poteva temere, non c’era dubbio che i briganti battessero qualche sentiero conosciuto solo a loro proprio per quella zona, per giungere indisturbati ai loro ritrovi. Quanti dovevano essersene fermati in quella stessa baracca, e quanta altra povera gente avrebbe potuto scambiare proprio lui per uno di loro, vedendolo lì di passaggio! Ma c’era soltanto un uomo là dentro e non se ne curava. Seduto come in trono o in poltrona su di una grossa sediaccia in fondo alla baracca, dove tra le fessure del tetto penetrava soltanto la penombra crescente nel cielo, non lo si vedeva neanche in volto. Ma era strano, non sembrava un brigante, ma certo era un tipo losco. Di una loschezza non facilmente spiegabile. Alto, di corporatura media, ma le gambe ben piantate a terra, piegate con ginocchia in su come picchi rocciosi, parevano muscolose. Anche al buio passava come fili taglienti la sensazione di un volto privo di barba e circondato da capelli corti (in quel tempo ai delinquenti e vagabondi della periferia erano sempre associate la chioma portata lunga e una barba folta). Ma ancora più insolito il modo di vestire: gli stivali di un nero lucentissimo, come ci si aspetterebbe tra le calzature più costose e d’alta moda di un nobile ereditiero; stessa foggia per guanti che coprono fino ai gomiti, poggiati spavaldamente sui braccioli; un grande mantello, anch’esso nero; mentre i pantaloni e l’abito erano seta rosso acceso, di nuovo soltanto il nero a macchiarlo tra bottoni, cintura e altre piccolezze. Sembrava un principe, ma la sua voce aveva qualcosa di volgare. L’aveva udita subito entrando, “è permesso?”, “chi è là?”, il che risparmiò lo spavento che ci sarebbe stato. Una voce un po’ roca, dal tono sbrigativo e orgoglioso del fatto suo, come ci si aspetta di incontrare in uno sconosciuto di campagna. “Sono solo un pellegrino, questo è il primo tetto che trovo da quando è cominciato il temporale”, aveva spiegato spingendo dietro di sé la rinsecchita porta sbatacchiata dal vento. Ormai si era già avviato ad entrare senza attendere permesso, e dal fondo della baracca non arrivò opposizione. In quel momento se ne stava in piedi, passeggiando qua e là con le spalle all’ingresso, come fosse pensieroso davanti a una finestra che non c’era. E si era andato a sedere, “fai con comodo, ma non aspettarti l’ostello accogliente per le poverette anime pie.”, e sedendosi fece scricchiolare le pareti e il vento là fuori. Scosse in un paio di manate la polvere dai pantaloni, e con un calcio allontanò con clangore metallico un attrezzo che giaceva alla base della sedia. Diversi utensili erano sparpagliati e ammassati in più punti del pavimento -zappe, falcetti, recipienti, e persino delle armi-, e il girovago dedusse che doveva trattarsi di una sorta di magazzino dove quelli che lo conoscevano potevano andare a procurarsi l’attrezzo che gli serviva. Non poteva certo essere una casa, no, nessun angolo cottura e nessun tavolo, praticamente nessun mobile a parte la sedia, un’altra più piccola gettata in un angolo vicino, e dalla parte opposta una bassa credenza mezza rotta con qualche sportello dissestato, senza niente all’interno. Che quell’uomo fosse il “guardiano” o addirittura il proprietario del magazzino?

“è suo questo posto?”, provò a chiedere, scaricando a terra la soggezione mediante lo strascico dei piedi zuppi. E quello rise. La risata aveva il timbro sporco e graffiato come di un ratto tabagista, un po’ beffardo a esprimere che gli era bastata un’occhiata di sbieco al tipo appena entrato per anticiparlo tutto e tenersi pronto all’arrivo di una domanda del genere. Dunque, quel “magazzino” era ad accesso libero e senza regole, probabilmente spesso incustodito, soltanto le intenzioni di chi ci passava a determinare la comparsa o la scomparsa di un oggetto (quanto a quelli che ritornavano, doveva essere perché questa ipotetica gente aveva troppe altre cose da spostare in fretta, per poter ritenere pensabile il trascinarsi dietro ogni strumento utile, e quella doveva essere come una spelonca sicura per le refurtive la cui collocazione era facile ritracciare sulla strada). “No, non appartiene a nessuno questa baracca”, aggiunse dopo un tempo notevole, molto successivo al momento in cui il viaggiatore aveva già creduto di capire che la risata avesse concluso lo scambio. Invece lo aveva stupito in questo modo, forse sovrappensiero nel frattempo, o a soppesare la domanda, assaporandola nell’attesa di un momento “giusto” per rispondere secondo il suo criterio; o forse ostentando che non aveva proprio fretta, per comunicare una visione della vita in cui non c’è ragione da parte di nessuno al mondo di pretendere che una domanda trovi risposta negli istanti successivi al suo enunciarsi. “lei conosce bene questa zona, quindi?”, chiese il viaggiatore, già tornato scettico e titubante per credere di aver constatato una certa inospitalità nel suo interlocutore, quella della gente rozza dei posti incolti che finisce ad assomigliare ai rovi lì abbondanti. Ma non aveva finito di stupirlo perché stavolta la risposta arrivò subito: “più o meno…”, disse enigmaticamente, tamburellando le dita guantate sul bracciolo di legno. Che aveva da fare un principe rossonero in un posto così? “So che pensi adesso”, lo interpellò con lo stessa strana ironia che sembrava essersi insidiata nella conversazione già a partire dalla risata, “stai pensando che io e te rappresentiamo due diversi tipi di uomo. Quello che si muove, e quello che sta fermo in un certo posto e lo conosce per bene. Ebbene, ti sbagli: anche io sono del tipo girovago. Non sto solo qua, giro un sacco di posti, molto di frequente. E infatti si può benissimo girare dappertutto e allo stesso tempo conoscere ognuno dei posti che si sono visti come ci si vivesse da sempre. Basta saper girare per bene.”; e detto ciò tacque. C’era una sensazione strana di poter vedere il suo volto nel buio indistinguibile, come se quest’ultimo fosse solo un modo in cui abitualmente la faccia prendeva forma. E così, anche se al di sopra del petto tutto appariva uguale e uniforme, nero e impenetrabile, a uno pareva di poter vedere che la bocca si era serrata in una linea diritta, decisa nell’intenzione di non riaprirsi, o che gli occhi luccicassero una moderata presunzione non priva di carisma. Dovevano esser rossi, stando alla logica della sua alternanza manichea, e rossi sembravano nel loro non vedersi -il pellegrino credeva che avanzando ancora avrebbe cominciato a scorgerne il bagliore, sempre più ardente, simili a due scorpioni di cui ci si accorge soltanto procedendo verso il fondo della caverna.

“Eppure”, azzardò dopo un po’ l’ospite inatteso, “credo che nonostante ciò, rappresentiamo pur sempre due diversi tipi di uomo”. Sentì muoversi il principe rossonero, una sorta di scrollata di spalla, un irrigidimento che viene trasferito da un lato a l’altro; scrutava e valutava, forse incuriosito o forse infastidito, comunque fremendo la lunga e muscolosa coda -se gliene fosse in effetti spuntata una nel frattempo (strano e inquietante pensiero che si scoprì a elaborare in automatico e che si rifiutò di tornare a contemplare successivamente).

“siamo fondamentalmente diversi, mi sembra, perché lei ha il coraggio di frequentare un posto che non ha nome. Di passarci nel corso dei suoi variegati spostamenti, e di tornarci pure, più volte. Non soffre la prolungata permanenza inglobata tra i malfermi terreni creati dal dubbio, l’eterno avversario di ogni lume. Io, al contrario, ho gran timore di scomparire per sempre dalla memoria di Dio. E voglio uscire da qui. Presto.”, sentenziò, sembrandogli che gli girasse la testa per il fiato buttato fuori, per il contenuto che ne aveva addensato le nuvolette vaporose. Finora, per comodità, l’ho descritto come un viaggiatore, un girovago o viandante, un pellegrino, insomma volendo restituire lo spostamento come fondamento dei giorni che viveva; ma per come aveva parlato in quel momento, non poteva certo dirsi una di queste cose, eccetto forse l’ultima, poiché tra i pellegrini almeno ce ne sono molti (quelli di poca esperienza) che hanno l’illusione di poter andare avanti soltanto perché posseggono ferma nella mente l’immagine di una meta certa, che sembra lucente e incorruttibile, un locus dove espiare qualcosa o godere di qualcos’altro, o mortificarsi, e godere mortificandosi, e così via; tale immagine, come poi apprendono, se non irreparabilmente danneggiata o rovesciata, finisce sempre per modificarsi in qualche sua parte: il viaggio è come il vento impetuoso che così spesso lo accompagna, dunque un agente atmosferico che non lascia immutate le cose che investe. Stava scoprendo, tutto imbrattato di fango, che era ancora dopo tanti anni un pellegrino inesperto.

“uhuhuh!”, una risatina diversa da quella di prima, “presto, dici tu! E allora vedi che lo sai?”

“so cosa?”, disse meravigliato il pellegrino.

“lo sai dove ti trovi: è una palude! E quindi è perché sai questa cosa, che è una palude, che vuoi fuggire, giacché è noto a tutti che la palude si prende e si tiene tutto per sé. Lo hai mai visto un sasso che sprofonda nel fango e che dopo riaffiora? No! Una volta sotto, te lo puoi scordare, mai esistito, arrivederci. Se ti inghiotte mica ti vomita o ti caca fuori la palude, e nemmeno ti piscia quando piove. Ti dico io, è l’unica cosa in questo intero mondo che fa così.”

Un inatteso sgomento cinse la gola del pellegrino con valve pressanti. Non se lo aspettava: era questo che temeva veramente? Finir dimenticati dalle mappe e da Dio che le ha disegnate significava “sprofondare”. Dimenticati da Dio significa che non ci sono né paradiso né inferno, e il limbo nemmeno. Solo melma.

“eh già, una palude…”- continuò a bassa voce il principe, parlottando tra sé -“l’hanno sempre chiamata tutti così, e così sempre sarà nota nei secoli”; si percepiva il capo chino a fissare il pavimento, magari cercando di trapassare il terreno con lo sguardo per scoprire un tesoro nascosto. Chissà se si era accorto di aver parlato. E ancora pensava: “una pozzanghera senza fine sei, e pure se la gente del futuro avrà un’assurda scienza di prosciugare tutte le cose umide e mettere le case al loro posto, sempre pantano ti ricorderanno, disgraziata terra. Frega un cazzo che qua sia pure pieno di boscaglia e prati aperti e pendii. Sarai sempre la stessa cloaca agli occhi del mondo, in tutti i linguaggi conosciuti.”

“sì, è vero quello che dice, ma…”, diceva il pellegrino un po’ agitato, rimbalzando lo sguardo tra gli attrezzi accumulati (piccozza, falce, falcetto, bure, verga, accetta…) e grumi scuri di sporcizia bavosa diversa dalla polvere che si forma nelle case abitate, lunga e invadente su certe linee delle travi. Con o senza nome, con o senza palude, che razza di posto era quello, che baracca era? Già un po’ annaspando tentava di ricomporsi: “…insomma, sarà pur vero ciò che dice ma ci sono anche altre paludi, che invece sono indicate dalle mappe e hanno persino un nome, come fossero una città o un cristiano…”, e il principe prontamente interruppe, “e ci stanno pure dei cristiani bastardi che nascono senza battesimo, e quelli che anche se ce l’hanno non saprai mai come si chiamano.”

Sparava considerazioni che lo coglievano smarrito perché non ci aveva mai pensato. E di nuovo stette un lungo silenzio, finché come prima il principe rossonero riprese il discorso quando già sembrava averlo chiuso, non si può dire se si divertisse semplicemente a far delle finte. Intanto avevano parlato solo la pioggia e i tuoni, così accordati a tutto quanto e ammalianti l’orecchio interno da far credere di essere il rumore alla base del tutto, che mai si era arrestato dal giorno della creazione. Era difficile immaginarsi a sentire altri suoni, una volta “usciti” da là.

“come succede a tutti quando attraversano la terra argillosa, ti viene l’istinto di scappare via al più presto. E invece non funziona così, più ti agiti e te ne vuoi andare, più forte ti trascina giù!”

All’improvviso al pellegrino tornò in mente che aveva ancora con sé la sua vecchia pipa, e che forse il tabacco custodito in una tasca interna schiacciata sull’addome poteva esser stato risparmiato dal diluvio. La tastò tutto nervoso, si riscosse di fretta e disse: “si può fumare qua dentro?”, ma a questo il principe rossonero non rispose. Era strano, non c’era proprio modo di prevedere il suo discorrere. L’unica stanza che costituiva la casaccia era praticamente chiusa in ogni sua parete, ma se gli spifferi entravano con quella facilità, pur composti di aria densa e infinitamente umida, con facilità dovevano uscirsene anche gli spiragli di fumo, credeva. Se l’accese, cercando di meditare a fondo, nonostante qualcosa lo bloccasse. doveva fermarsi a tastare, studiare magari. Se non era consentito cavarsi d’impaccio semplicemente trovando una svelta via d’uscita, almeno la soluzione opposta doveva essere possibile. E stavolta, il principe sembrò leggerlo nel pensiero; tanto si sorprese il pellegrino da sobbalzare e concitatamente girarsi a cercare il volto nascosto nel buio, facendo quasi strabordare il tabacco nella pipa come acqua in una bagnarola scossa.

“non lo trovi un libro su cui studiare le cose di questa terra, stanne certo!”

Quella scelta di parole apparentemente normali possedeva l’allarmante qualità dello svelamento di un concetto intimo, che nessuno poteva trovare a meno che non fosse il suo padrone a permetterlo. Disperso nel profondo di un luogo estraneo, e timoroso che in questa estraneità dal mondo potesse rimanerci per sempre intrappolato, l’uomo alla ricerca di una terra promessa si era imbattuto in un enigma vivente: volgare, in qualche modo, in qualche sfumatura della voce, eppure aveva dato prova (e in maniera sottile) di essere intuitivo nei confronti dell’animo umano (o del suo soltanto?); misterioso, eppure allo stesso tempo qualcosa della sua presenza fisica sembrava voler significare che tutto questo mistero incominciasse e si esaurisse là, in come appariva e in come non appariva (quel volto, semplicemente assente per la vista che non ha comprensione del buio…); feroce, occhi rossi che non si vedono come nel fitto della natura selvaggia assassina, ma galante innegabilmente come lo è sempre qualcuno che si può chiamare principe; e faceva paura, per tutti questi motivi, eppure anche in questo, non si poteva dire che fosse un’incarnazione definitiva di qualche timore fondamentale e catastrofico. No, era un insieme di angosce minori, potenti in quanto inafferrabili.

(ti si è spenta la pipa), udì il pellegrino, una voce immateriale, in tutto simile alla propria. Non avendo altro che la convinzione che fosse stata soltanto la propria immaginazione ad aver conferito insolita nitidezza a una voce interiore, non se ne preoccupò. Doveva presto ricorrere ai fiammiferi, poiché la pipa gli serviva per pensare. Meglio sarebbe stato se la baracca fosse stata provvista di una veranda coperta, un falso balcone da cui affacciarsi e dove poter vedere batuffoli del fumo prodotto bloccarsi sotto il confine di una cosa solida, buona poiché costruita dall’uomo come parte del posto in cui abitare. Forse non era un caso che laggiù non ci fosse nulla del genere. Nonostante tutto se la riaccese, e un po’ più calmo cercò di riprendere il discorso trattandolo normalmente. L’ultimo commento dell’interlocutore doveva essere preso come una semplice considerazione, perciò era possibile chiedere che la si chiarisse; da ignorare, invece, l’impressione che questa fosse uscita da un anfratto privato che aveva appena sofferto una violazione.

“non capisco, che intende? Non c’è modo di apprendere nulla circa questa zona?”

Il buio sorrise.

“se sei uno che ispeziona, scruta, studia, ti dico” -cominciò mellifluo, custode di un nettare proibito -“che non troverai, nei paraggi, nessun oggetto che possa contenere le informazioni che cerchi. Non puoi apprendere nulla, qui, da qualcosa che abbia consistenza fisica, e una forma e un peso tangibili sono fondamentali anche per dare supporto alla memoria. Qua non è così: anche se un cartello di indicazioni vecchio e marcito che trovi tra i canneti potesse bastarti, una volta scappato nella tua bella città sarebbe scomparso dalla tua testa. Pluff! Giù come il sasso.”

Allora, questo voleva dire che delle indicazioni erano presenti. Qualche commesso viaggiatore, a volte, viene mandato a esplorare le zone riconosciute come maledette, estranee alla mappa. E qui pone dei segni di civiltà per quelli che ivi dovessero capitare e che volessero rimettersi sulla via. Non capiva però perché il principe avesse detto che questi non gli sarebbero bastati. Quanto a tutto il resto, lo aveva trovato comprensibile, ma non certo privo di ulteriore confusione chimerica: un tono volgare da popolano aveva espresso il pensiero di un filosofo attraverso il corpo di un nobile. Convivevano in costui più anime che si spartivano i compiti e i risultati della parlata, oppure la consistenza fisica delle corde vocali era di per sé “rozza” e nessuna idea poteva prevalere su questo? Una rossa e una nera, una rossa e una nera dovevano essere, il contrabbasso di Mefistofele.

“sicché non c’è proprio modo di ritrovare la strada”, disse, ancora pensando che dovesse far finta di nulla, cercare di portare avanti il discorso finché non fosse uscita fuori una cosa utile.

“questo non l’ho detto. Ma potrebbe anche essere vero, se proprio non riesci a fare a meno di queste cose che qui non ci sono. O meglio, che non ci sono per ora.”

“che vuol dire? Devo aspettare?”

Il principe rossonero scoppiò nella risata più forte che avesse fatto, l’unica nella quale si percepiva un vero e proprio divertimento, scevro dei troppo numerosi e ingannevoli altri aspetti che avevano circondato le precedenti manifestazioni di “gioia” -quest’ultima appartenente a quella specie che non sembra volersi mai presentare senza corrompersi, morbosamente, per vanità. E invece in quel momento doveva aver davvero sentito qualcosa di buffo.

“sissì, aspetta, aspetta, hahahah! Cent’anni dovrai aspettare. Duecento forse.”

In parte la prese come un’iperbole. In un’altra parte, continuò a risuonargli dentro come un indovinello incredibilmente allarmante, uno spettro composto di parole. Si accorse che il fumo era riuscito a creare nella stanza una cappa piuttosto spessa, nonostante i molti buchi tra pareti e soffitto. La cosa non sembrava infastidire il principe, seduto placidamente sulla misera sedia. Tutto immerso in un bagno di fumo, rimaneva là e non commentava, sebbene dietro quella macchia nera che gli ricopriva la testa dovesse esserci anche un naso, che conduceva a canali respiratori suscettibili come quelli di tutti gli altri (ma ancora, poteva non essere così, potevano essersi evoluti diversamente). Diede perciò le ultime boccate, frettolosamente. Tre ritmici sbuffi pastosi come dalla bocca sgradevolmente umida di un vecchio lo aiutarono a porre la punteggiatura ai suoi ultimi pensieri, dopodiché ripose la fida pipa e i fiammiferi nelle tasche da cui venivano. Riconsiderò tutto quanto, tutti i dubbi che aveva avuto. Percepì vagamente che trovava in parte assurda, come un sogno o un incubo, tutta quella conversazione, e che molte delle cose che aveva sentito oltre a fuorviarlo non gli sarebbero neanche andate a genio se le avesse analizzate con più tempo a disposizione. Voleva andarsene e l’avrebbe fatto. E allora, a bassa voce, come ancora facesse un sommesso proseguimento di quella pensata, disse: “no, non ne ho intenzione. Pur senza capirci nulla, devo andarmene.”

…“o meglio, non ci sono per ora”: e ora, secoli dopo quell’incontro, noi abitanti di Aprilia conosciamo senza saperlo la risposta, portandocela dietro ovunque andiamo in una parte posteriore del cranio, stipata sotto tanti altri impercettibili dati riguardanti il nostro territorio che costituiscono le fondamenta della nostra percezione, e che nonostante questo, il più delle volte non vedranno neanche consapevolmente riconosciuta la propria esistenza. Più che un subconscio, un sub-vissuto, tutto sub-provinciale, sub-pontino. Il principe rossonero aveva sbagliato di qualche secolo la sua previsione, ma ciò a cui alludeva si realizzò. Comparvero moltissimi esempi, ancora oggi esperibili e che mi hanno portato in gran parte a scrivere questi appunti, di fenomeni capaci di irradiare e incarnare l’essenza di questa terra anche per coloro i quali non si accontentassero di relegarla a un banale anonimato sulla carta geografica (per gli osservatori, come me, come lo furono in modi diversi nel loro tempo il pellegrino e lo strano principe, che chissà cosa ci faceva qua). E un altro “errore” nel suo giudizio era consistito nell’ironia di non essersi accorto che egli stesso già incarnava uno di questi segni, infatti posso scriverne oggi. Pertanto le sue opinioni riguardo ai significati di questa zona, anche se riconosciute come parzialmente profetiche e sempre interessanti, rimangono delle teorie che possono essere più o meno condivise. Dovevano esserci anche allora, ritengo, a infestare la vecchia palude, delle manifestazioni in tutto simili a quelle che troviamo adesso, forse più opache, certo, forse lontane dal peso occulto che, com’è naturale, si è sempre più ingrossato col passare degli anni -potremmo dire che allora erano in qualche maniera più “anarchiche”, se per esempio potessimo definire anarchici anche gli atrofizzati organismi che abitavano il brodo primordiale, che gettavano le nostre basi durante gli stadi più primitivi della vita. Enigmi e incanti, fantasmi e demoni, messaggeri, guardiani, disegni che gli uccelli in volo possono vedere disposti sulla terra come per miracolo, o disegni che l’occhio attento può scorgere ogni giorno… la nostra storia è fitta di diagrammi di questo microcosmo che brama l’immenso, volendo sostituirsi al cosmo intero, e che come un tamburo ipnotico ci chiama da un posto nascosto a scoprire chissà quale segreto.

Intanto le tenebre avevano quasi ultimato l’annientamento della luce per come andava fatto in quel giorno, come in tutti gli altri. Il cielo era tutto scuro, con gli ultimi bagliori ormai al di sotto della linea dell’orizzonte, ma ancora permaneva quella particolare visibilità stagnante nell’aria che impedisce all’oscurità di avvolgere tutto. Ma presto questa si sarebbe addensata per dar via alla successiva fase.

I fiammiferi per la sua pipa avevano trovato un’altra applicazione, un’altra che desse l’illusione di “abitare”, e ora due candele incastonate in appigli bronzei ai lati dell’ingresso mandavano un bagliore arancione nient’affatto scarso, imprevisto. La pioggia, incredibilmente, era cessata: l’esterno invitava a una marcia notturna. Poiché il temporale era stato ossessionato, snervante, sempre più violento, sembrava opportuno precipitarsi nel momento della sua temporanea assenza. E intanto da un po’ nella baracca si era fatto silenzio. Il pellegrino, benché risoluto nella decisione di filarsela, ancora esitava a metterla in atto. Non per pavidità, ma per buona abitudine di un uomo in costante movimento che deve valutare tutti i rischi in gioco. Marciare nell’acqua raffreddata dalla notte avrebbe potuto uccidergli le ossa. Correre sulla terra accidentata che in maniera discontinua affiorava dalla guazza non era impresa che competesse a qualcosa di diverso da un animale specializzato. Restavano gli intricati boschetti, disposti attorno al pelo dell’acqua come cerniere frammentate, che non si poteva mai prevedere dove andassero a sbucare. Un altro degli ennesimi tranelli di quel bioma partorito da un certo pezzo vagamente folle della mente del creatore, visionario in maniera squilibrata. Attese ancora, con la speranza di cogliere un cenno che innescasse la soluzione. Il principe taceva e sedeva. Si sentiva qualche grillo solitario sulle foglie e sembrava esserci poco vento. Aprì, o per meglio dire, spostò la porta dalla soglia. L’aria portata dopo la pioggia conteneva i tanfi della giornata ma anche tracce di profumi mai sentiti, come di rari fiori del buio. Avrebbe attraversato il fitto e questo lo avrebbe condotto da qualche altra parte, quale che fosse. Mosse un passo oltre la soglia.

Ma proprio allora, quando se n’era dimenticato, irruppe la voce del principe rossonero: “e così…!”

Il pellegrino si voltò verso di lui. Senza produrre il minimo rumore questo si era alzato, di nuovo nella stessa posizione e nello stesso punto in cui lo aveva trovato entrando, a dare le spalle all’ingresso. Al centro esatto in cui si scontravano e fondevano i due archi di luce creati dalle candele, come dentro una palla incandescente, non si potevano ancora distinguere bene i capelli che gli adornavano la nuca. Potevano essere sia il buio che la luce ad accecare lo sguardo intento alle cose proibite. In basso, gli ultimi banchi di fumo rimasti ancora fluttuavano, gironzolando come pesci, intorno agli stivali neri. Nessuna coda pendeva sul pavimento.

“…e così, se vuoi andartene, hai fatto una scelta. Bravo. Un girovago lo fa: per un po’, dei pericoli della via, se ne interessa pure, e sta là a considerarli. Ma alla fine nulla potrà trattenerlo. Vai.”

Roco e cinico, compiaciuto di come cinicamente vanno le cose nel mondo, anche in quell’ultimo caso si poteva dire che avesse dopo una lunghissima pausa ripreso il discorso da dove era stato lasciato troppo tempo prima. A malincuore, il pellegrino chiese, sbuffando.

“che pericoli, rispetto a prima?” -il principe si voltò appena, nel modo in cui una persona normale avrebbe mostrato parte del profilo, e i canini ancora ridevano come nell’espressione maliziosa di un demonietto.

“ah, le zanzare che ti hanno tormentato tutto il giorno, di notte sono tre volte di più, per dirne una. E a parte questo genere di cose, come sanno anche tutti i bambini, il buio è dove sbucano fuori le cose più strane e spaventose…”

Il pellegrino annuì. Ripresa la sua direzione, mosse un ulteriore passo all’esterno. il boschetto, doveva infilarsi nel boschetto. Ma il principe disse un’ultima cosa.

“e comunque, ci sono molti giorni in cui non piove sulla palude. Hai sentito la puzza dei vapori che sputa fuori? Ebbene, prega di non sentirli mai quando sopra c’è il sole. Uno come te finirebbe stecchito. E puzzeresti pure tu, come la carcassa del bufalo stramazzato.”

Questo voleva dire “arrivederci”. Se ne andò, una certa distanza a separarlo ormai dalla baracca, verso la vegetazione in lontananza. E nel percorrerla, anche se ormai il suo corpo fisico come un automa eseguiva l’intenzione che si era detto, ancora nella mente si agitavano forme intruse. Non era sicuro se quello che stava facendo e che avrebbe fatto voleva farlo veramente.

(continua nella parte successiva)

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