Gli Appunti Del Fango- carcere vuoto
- Milky
- 23 apr 2022
- Tempo di lettura: 12 min
Ci sono mormorii immaginari fatti di ombre limpide, mi sembrano più reali di qualsiasi rumore possa provenire da fuori. Ho un po’ di mal di testa. Da qualche parte un fruscio ha raggiunto le mie orecchie distratte, le abita ancora. Si perde nei corridoi profondi fino a scomparire, ma ritorna in un certo momento a massacrare i timpani. Provo a massaggiarmi, ma il dolore non passa. Comincia dall’orecchio: mi sembra di essere alla sua entrata, caverna dai tunnel di cartilagine. Vado incontro a questo fruscio e vedo che è fatto di molte bocche e occhi, nascoste ai margini della strada. Si acquattavano nei cespugli, mi seguivano nei pressi del marciapiede fino in città. Mi avvicino, mi preparo a entrare nel luogo in cui la sorgente del fruscio prende forma. Ho gli occhi chiusi e sono in dormiveglia, un momento in cui sto ricordando, sto facendo riemergere alla coscienza residui di segnali captati inconsapevolmente. Parlano con sagome alate d’uccelli o insetti, cangianti nella foschia. Prendono parola, me la sottraggono e smetto di scrivere il ricordo. Sono voci, creature selvatiche della terra del Fango. Ma sono solo echi di cose mie. Non smettono di mormorare fino alla fine. Ecco cosa dicono.
:
Ti sottoponi ancora alla tortura di venir descritto, perché hai affermato in una pagina segreta che stai andando incontro alla cosa sgradevole, quell’entità informe e scura in agguato tra le brume d’imprevedibilità e tensione generate in un angolo in fondo alla via. Ti sottoponi a ciò che non comprendi e che rifuggi, perché un messaggio echeggia in questi giorni, un monito risuona nei giorni: vivi, muoviti. La voce tocca le nuvole e le fa spostare, senza suonare imperiosa. E capisci che qualcosa di nascosto sta agendo con un potere strano, se anche un ordine, e dal contenuto tanto sgradito, riesce a giungerti quasi mansueto, di una saggezza che sembra far parte dello stesso cielo attraverso cui echeggia. Sottoponiti allora, avvicinati e dicci, facendoti descrivere e reagendo con un silenzio pieno di nervose espressioni facciali, com’è stata la tua passeggiata nel boschetto. Cosa hai visto, come ti sei comportato, pure quello che hai pensato, perché no. Facci intravedere le cose del forziere che tieni sempre blindato, solo quei bagliori di un attimo. Ma tu disprezzi gli attimi, non è vero? Fai quella faccia imbronciata proprio perché non li capisci, non capisci perché si debba vivere per qualcosa che subito muore. E allora cominciamo.
Tu e tuo padre siete due tipi capaci di non scambiarvi una parola per tutto il tragitto. E andate, allora. Va avanti, va avanti il muso della macchina che si mangia le strisce di vernice bianca sul curvone. Di cosa potreste parlare? Non ti sei forse accorto -cominci a dubitare- che il suo silenzio di adesso non può essere come il suo silenzio di prima, perché adesso è orfano anche di se stesso com’era prima -il se stesso che aveva ancora dei legami nella mano, e ha visto l’ultimo flebile respiro azzerarsi dentro quelle linee imbrigliate, le ha sentite perdere fremito e calore nel palmo suo. Ma anche questo, in fondo, è soltanto un tuo sospetto, un timore infondato: non sono diversi i suoi fantasmi. Ti giri sul sedile: vedi solo scorrere le case rossastre dipinte sullo sfondo di cielo perennemente grigio di queste vie periferiche, quasi non riesci a ricordare un ritorno tardopomeridiano da queste parti in cui resistesse la caduta obliqua dei raggi solari. Solo vento e atmosfera che si riduce a un’impalpabile cenere, crea un sedimento sugli elementi intorno al visibile e lo condiziona, lo influenza. Il cielo e il suolo stringono gli esseri e le infrastrutture in una morsa e decidono il loro umore. Tu vedi questo e sposti lo sguardo, scruti l’ossatura dell’auto, intorno ai finestrini che lasciano passare le immagini di queste cose distanti, ti sembra sempre che una barriera diversa dal vetro ti separi ulteriormente da loro. Nel vetro opaco, graffiato qua e là come da segni sulla corteccia, si disegnano fili elettrici, fogliame smosso, comignoli, box aperti pieni di cianfrusaglie, pollai. E dove c’è un finestrino c’è sempre uno spettro di qualcuno o qualcosa che vi si accosta, sembra quasi che sia il suo potere a lasciare che le cose scorrano, spariscano velocemente. Ma non c’è un fantasma venuto a sedersi in macchina, non ti sembra. E se ti capiterà di vederlo, evocato da lui che guida, saprai che ce n’erano anche prima, in altri momenti a stargli vicino impercettibili. Quindi non preoccuparti. Bravo, guarda per bene quegli eucalipti che tornano sempre, si impongono nei tuoi paesaggi interiori e ti dicono che sono simboli di questa terra. Raccogli i tuoi bei simboli, stringili nella mano insieme al mazzetto d’asparagi. Si piegano annoiati insieme ai pensieri che circolano, insetti sparpagliati dalla paura di un piede che lentissimo si avvicina per imprimersi al suolo. Guarda, ci sono quegli alberi, e le case tediate, la terra sviscerata di piccoli cantieri abbandonati, tavole calde che servono alimenti dei quali non devi cominciare a immaginare la provenienza se non vuoi un mal di testa, e poi che altro? I fili, ti piacciono vero? Ospitano le varie specie di uccelli. Si allineano, incurvano le linee. Un gheppio col bel dorso rosato si alza da un roveto, tenta una picchiata dal corso breve a ridosso del confine tra la carreggiata e la vegetazione. È un simbolo che si manifesta e subito in bocca hai sapore di fango caldo e rossiccio fermentato in mezzo alle sterpaglie, un distillato di questa terra. Tu e tuo padre vedete le cose della strada, la radio è accesa e inquina l’aria in una maniera simile ai pensieri più sconclusionati, trasformati in ciarpame sonoro da una volontà sconosciuta. Perché qualcuno, da qualche parte e perseguendo scopi di contortissima e tremenda oscurità, ha deciso di mettere qualcun altro a parlare dentro una nuvola elettrica capace di propagarsi ovunque? Perché concretizzare il brusio mentale? E tutto il resto: perché concretizzare l’idea di un edificio, di un palo elettrico, di un sistema d’irrigazione, di… oh no, alla fine ti sei davvero messo a pensare alle provenienze e le origini. Continui su una strada che porta allo sgradevole, all’indesiderabile della vita. Come avevi detto.
Ma ci sono più tipi di “sgradevole”. Se ti viene il mal di testa, c’è impotenza. C’è impossibilità di cambiare lo stato delle cose. Provenienze degli alimenti, incomprensibile volontà di fare e costruire, le cose del mondo che vanno avanti e che lasciano ossicini e grumi sanguinolenti sotto i cespugli e sui marciapiedi, e poi vanno avanti di nuovo. Ma lo sgradevole è multiforme, e deciso ti dirigi verso alcune sue incarnazioni, come se fossi convinto che esistono solo quelle. Sì, ti sei detto che esistono davanti a te per recarti il messaggio che devi affrontarle, da quando hai scoperto che hai il terribile obbligo di affrontare qualcosa: sei nato, perciò devi. Cammini in silenzio nel boschetto notturno -non quello da cui hai colto gli asparagi: c’è sempre un boschetto che si apre secondario e assorbito nella penombra, dietro tutte le cose, e tu affidandoti alla tua ombra riesci a sgattaiolare all’interno del tunnel formato dal connubio tra il suo sentiero e le chiome ricurve delle querce, e lo percorri, lo percorri sempre in tutte le cose. Quello che ci troverai lo immagini e lo desideri, e lo rifuggi, e lo desideri ancora, e sai che continuerà così. Ma c’è qualcosa -di sgradevole- che hai conficcata come una spina nell’anima, che facendo fluire nei tessuti la sensazione del dolore ti spinge a tornare ogni volta a ripercorrere lo stesso sentiero dove feriscono ortiche chiamate contraddizioni. Ti avvicini, ma conosci già la tua fuga, e i danni lasciati dal tuo passaggio. Tracce sul sentiero, rami spezzati, ferite varie a chi si è trovato sulla tua via. C’è una parte subdola di te che confida nella capacità del mondo circostante di rimarginarsi, una parte che se ne frega della preoccupazione conscia e costante di fare del male. Questa parte assomiglia molto, per la natura sommersa, a questo boschetto che attraversi.
Il boschetto dove passi per cercare l’iniziazione dettata dalle tue regole ha qualcosa in comune col boschetto dove cogli gli asparagi con tuo padre. Tra Carano e Velletri nubi apatiche che non sprigionano temporali incrociano i propri percorsi. Si possono vedere mentre si sciolgono gassose all’orizzonte oltre i tronchi rinsecchiti, accettano senza resistenza di mescolarsi a quel pulviscolo che si insinua dentro le cose per rendere rarefatti gli spiriti, esiliarli in una prigionia strana. C’è questo tipo di pulviscolo insidioso perché non si distinguono i suoi granelli singoli, e perché è intrinseco al cielo in certi giorni di questa città e della sua periferia immensa, dove vive la fauna che cerchi. Stamattina ti alzi e controlli il meteo adatto al safari e alla tua iniziazione: nuvoloso tutto il giorno, probabilità di pioggia x%. Tu, osservatore stanco con la mente annebbiata dal dolore famigliare, dal messaggio che ti vuole lanciare (“vivi nonostante questo!”) e dal tuo territorio che ti si vuole ficcare a tutti i costi dentro il dna, tu prendi una personale penna immaginaria e aggiungi qualcosa scrivendola in fondo alla pagina virtuale dove i pixel compongono rappresentazioni del clima e i capricci del tempo odierno: “sono previste raffiche e precipitazioni del tipico pulviscolo di depressione apriliana”. Poi (come fosse una delle tue amate parentesi che svelano la realtà nascosta delle cose ovvero tutti i boschetti oscuri di questo mondo), aggiungi anche un consiglio del meteorologo: “se volete sapere che tempo fa oggi, non affacciatevi alla finestra, guardatevi dentro: i fenomeni atmosferici si originano tutti là, ci trovate la stessa nebbia e lo stesso odore di pioggia sporca e la stessa merda, pure le polveri sottili scommetto. Fatevi una passeggiata nel cuore e non dimenticatevi di coprirvi per bene, che tira un vento, in questi giorni…”
In questi giorni tira vento e scendi a uno spiazzo dove spadroneggia selvaggio, sbatte tra loro le bottiglie abbandonate e le confezioni di alimenti squarciate e rivoltate, vomito di pattumiera. Lo ascolti anche, è brusco ma sa suonare a volte buone musiche sulle fronde sporgenti dei primi alberi all’inizio del boschetto inquinato. C’è un contrappunto, uno sferragliare amalgamato al tutto come scricchiolio delle vene, sembra sia distante che vicino. Si leva dalla ferrovia e volteggia attorno agli alberi. Hai detto che questo bosco concreto ha qualcosa in comune con quello della tua iniziazione: sì, ogni volta che ci torni, c’è puzza di morte. Carcassa di una pecora ricoperta da una valanga di terraccia marrone, anni fa, non la vedesti perché era stata nascosta ma il fetore incise nelle narici un messaggio, che si sarebbe ripresentato a ogni decomposizione incontrata sulla via. Anni fa, successivamente, alberi che morivano di un morbo sconosciuto. E sempre, immancabile, un rigurgito d’immondizia simile a colate di fango, ai margini dei bivi terrosi. Pozzi scavati nel suolo, per scaricarci il liquame residuo del mondo che continua a vivere, vivendo produce oceani di scarico ribollenti. Scavalchi una fila d’alberi camminando basso sotto i rovi nei sentieri degli istrici, sbuchi dall’altra parte e vedi davanti a te i binari del treno che lacerano nella campagna una ferita di sassi grigi, e accasciata alle rotaie sta una carcassa di cane: la pelliccia lunga e bruna si è inaridita e sfibrata, per ricoprire di torba pulciosa la pelle che facendosi beige va scarnificandosi. Un ghigno di zanne acuminate e bianche rimane pietrificato nel muso appuntito, l’occhio si macera diventando un nido di formiche d’argento. Credi di poter immaginare quella gola enorme, rigonfia, che un tempo era cassa di risonanza, faceva nascere in un suo nucleo l’ululato, e credi di immaginare di sentirlo che ti segue mentre prosegui sulla via, ma non immagini niente, e non si muove niente: la gola del cane è morta. Tu continui a camminare, costeggi il lungo costone di terra ricoperta di specie arboree, dalle numerose tentacolari dita. Vedi foglie sulle quali sinistri bruchi neri si ammassano come presagi. Sai che là, sulla superficie della foglia, c’è uno squarcio che stilla la goccia d’un niente maligno, la reazione fisiologica della pianta a una malattia che ha cominciato ad assorbire dal suolo infetto. I bruchi per loro natura, ed è una natura fatta di lancinante sete, non possono far altro che accorrere e bere di quel nettare disperato.
Ecco che tipo di boschetto è. Un boschetto non lontano, proprio come tutti gli altri. Questo genere di posto cresce nell’ombra degli abitati, e di notte coi suoi occhi -punte di rami, o veri occhi di ombre selvatiche- vede e riflette la foschia di sabbiosi barlumi che si leva a forma di polmone dall’orizzonte nel cui fondo sta nascosta e amalgamata al buio la città. Le cose si influenzano a vicenda. Qui, in certi punti, c’era una palude, lo sai, insisti, con te stesso e con interlocutori immaginari, fatti per riempire il vuoto che si nasconde in fondo alle tue parole e i tuoi pensieri. Qui c’era una palude e questo boschetto, come tutto ciò che qui è natura -e anche in parte come ciò che non è natura-, ne è un’emanazione. Attraversala, stattene zitto in macchina, con tuo padre e con i fantasmi.
Potresti per esempio chiedergli qualcosa. Potresti chiedergli se davvero non siete altro che esseri senza altro scopo che quello di riempirsi a vicenda i vuoti. Visualizzi dentro te la conca che si è formata, uno stomaco dai riflessi cadaverici che sostituisce tutti gli altri organi, una sola grande sacca biliare dentro i toraci e gli addomi di quelli della tua specie. C’è l’immagine di una mano che si ficca in una gola, scende e scende, fino ad afferrare il cuore che galleggia nella sostanza tossica lì sintetizzata. La mano lo stringe e lo fa sanguinare, e allora il sangue cade e s’irradia in tutte le direzioni per quel denso e ripugnante liquido, spargendo nel suo ramificato corso l’illusione d’esser lui il liquido dominante. E il calore attraversa tutte le parti del corpo in cui si propaga. Questo è l’effetto del contatto: è per questo che vivete? Potresti chiedere a tuo padre cosa ne pensa. Come si riempiono questi vuoti?
(invece prima gli hai chiesto soltanto una cosa. Vicino alla recinzione. Salivate una scala di ferro con gli interstizi tra gli scalini invasi da erbacce e oscurità, vi ha portato sul ponte, vedete i binari come su una riva opposta. Lui è alto, scava con le mani al suolo, sembra un uomo che con pazienza riordini la confusione sparpagliata tra un giardino e un garage, è alto e si china per cogliere con le mani tra le erbe, è alto ma sembra ricurvo per un peso che grava, è orfano. Tu chiedi in che modo devi cogliere gli asparagi, lui risponde. Basta che non venga recisa la punta. Se lo si facesse, allora la linfa bianca e l’anima dell’asparago comincerebbero a scivolare all’esterno, avendo trovato una via aperta. Così entrerebbero in contatto con l'aria pulviscolare che fluttua tra Aprilia e Velletri. L’asparago sempre più vuoto si affloscia, appassisce, il suo verde si colora d’asfalto. Si rende conto del destino che attende i suoi simili e allora, insieme a quella mistura che sta uscendo, fa uscire anche il suo sapore, lo perde. Diventa insapore, perde il significato che ha nel giorno della sua raccolta: è solo una delle tante piantuzze flosce che crescono in questo territorio, nascoste tra i rami di filo spinato delle asparagine, Casa Circondariale Vegetale.)
Sei in macchina. Nelle case là fuori, fuori dalla tua mente e sfuggenti ai tuoi principi, ci sono vite imprevedibili, ciascuna con la sua disperazione. Per affrontarla riempiono lo stomaco cadaverico d’ogni genere di cose. Zampe e corna di bufala, cotte nel miele avvelenato e fumigante, con contorno di asparagi e asfalto fritti; linguaggi, dita infilate nelle vagine del cervello; ipnosi elettroniche; ore di amore, fatte di momenti, istanti, messi tutti in fila, gonfiati di sostanze che hanno lo scopo di renderli più grossi di quello che sono, farli strabordare dai confini. E altre innumerevoli cure provvisorie.
E sì, potresti anche provarci a vivere, come la morte e i fantasmi che aumentano (soprattutto quelli vicini a te e che in vita erano stati belli, toccandoti il cuore e sgretolandotelo) ti esortano a fare. Ma poi? Vai, esplora, prenditi i rischi. Vai fino in fondo a questa stradina di boscaglia, vai a conoscere la creatura guardiana, toccale i genitali freddi e prova tutta la repulsione che devi provare, sopravvivile. Parla con qualcuno, avvicinati, fai esperienze. E ascolta il tonfo che fa nella tua conca interna. Cerca di capire se dagli echi viscidi della membrana si sparge anche qualcosa che non sia il palliativo degli istanti piacevoli o il caos di quelli dolorosi, altrimenti non ci puoi più andare avanti, in quel sentiero. Non ce la puoi fare se non senti proprio niente.
…
(sei in camera. Vedi ombre che opacizzano il bianco dei muri e vedi ancora per poco delle nuvole, dello stesso colore, assomigliano proprio alle pareti di camera tua. Fai uno sforzo di memoria per ritornare dove sei stato, anche il boschetto concreto è ormai un luogo mentale, dove puoi recarti ad affrontare la vita in segreto, una lotta mitica prima del sorgere del sole e della realtà. C’è una cava, una cava aperta nella prateria cinta dai colli brulli, nel cuore della boscaglia. Gli alberi malaticci, quasi esili, si diradano, il vento soffia e strappa i petali violacei di piante seducenti e minacciose, e cozza contro la laminatura ondeggiante delle pareti di una baracca o magazzino. Lì dentro il vuoto si riempie di clangore metallico che rimbalza ed esce da una finestrella dallo sguardo vacuo. Affaccia su un giardino, su un visibile, di terra dissodata, lavori abbandonati. Qui il vento vince, ci sono solo il vento e la terra. E intorno, sui rilievi tozzi che circondano la conca, si scorgono piccole luci tra il fogliame degli ulivi. Ma non c’è una sorgente che le produca. Somigliano a lacrime. Le tue, quelle delle piante, delle cose ammalate. Anche le lacrime possono riempire le cavità interne, vengono bevute e diventano nettare. Un rombo percuote i contorni friabili dei suoli denudati e ammonticchiati: qualcosa fende assieme al vento il visibile, è qualcosa che appartiene alla distanza, oltre i colli degli ulivi. Laggiù, quasi a dominare la conca da un'altra parte. È il treno che sferraglia ed è un bruco parassita, la conca in silenzio lo osserva passare e nel terreno suo lascia che venga assorbita un’influenza. Adesso è più simile al treno, e il treno è più simile a lei. Stai in piedi nella radura aperta, il vento della prateria rinchiusa ti strappa i petali. E ti sembra che il suolo muova la sua faccia a comporre una smorfia proveniente da un cervello freddo, e un brivido ti percorre la schiena, dove si ramifica e getta frutti. Una foresta nuova nascerà sulla tua schiena, foriera di nuove succose ansie.)
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