Gli Appunti Del Fango- "brulichino e volino davanti al firmamento"
- Milky
- 1 gen 2023
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 3 gen 2023
Il fiume era tranquillo, pigramente s’addormentava, pronto a sparire. In un istante tutto fu immobile e le acque, così inferocite nel corso del temporale millenario, si acquietarono. Diventarono sorelle della terra.
Nel cielo volavano bagliori e cose viventi. Da lassù vedevano emergere, di tanto in tanto, gobbe dalla palude, e s’udivano in quei momenti tonfi istantanei, uno schiumare frettoloso, un’immersione.
(Uno che passeggia, solitario nel vento d’inverno, si conforta e riscalda dal timore che lo insegue con tutto ciò che gli è rimasto: delirio della propria osservazione. Crede di vedere cose nascoste. E in questo delirio, parlando in varie lingue, inascoltato su una landa desolata di marciapiede, sotto l’ombra di un’antenna in cima a un tetto, si rivolge a una cornacchia un po’ insolita lì posata: io con i miei appunti scritti ti dono l’immortalità, rendo eterna te e l’argentavis, di cui sei manifestazione. Nell’istante successivo la cornacchia se ne va, facendo sparire da ogni parte del mondo le tracce del suo vero corpo. Ora non è che un’immagine, una somiglianza, un’ombra che presto sarà un pugno di fumo, che nessuna mano può afferrare. L’immortalità non esiste. Uno che passeggia, come tutti quelli che passeggiano e osservano, costeggia accarezzandosi nelle tasche la propria malinconia un parcogiochi fantasma, tutto vuoto, e un parco non ancora completato da quelle parti, di fianco a un supermercato. Qualcosa dovrebbe condurlo a quel parcogiochi sotto gli eucalipti, per passare del tempo, alleviare una ferita o una roba del genere. Sotto raggi obliqui, sangue di ginocchia sbucciate.)
Da qualche parte nei millenni una pozzanghera si squarcia e una testa prende fiato. Qualcosa, con ali d’ombra, scende e si posa su un ramo contorto affiorante da acqua e melma.
-passerà sulla riva di questo acquitrino uno che cammina, crede d’essere un osservatore. Cercherà me, il mio aiuto.-, dice la testa bagnata, madre di tutte le bisce. I bulbi oculari si muovono qua e là, attenti, sgusciando come biglie vive da membrane per l’immersione, mentre lo sguardo rimane fermo. E la stasi e il movimento si fanno in lei come due impronte combacianti, lasciate dalla stessa forma sul terreno limaccioso.
-non uno: molti.-, dice l’ombra alata, dalla sua coltre di piume. E la sua voce è come un soffio di vento che passi attraverso le cavità d’uno scheletro, e s’arrochisca, portando con sé un profumo di crepuscolo sul deserto. La palude intera allora ricorda: è vastissima e le sue braccia di gigante accasciato raggiungono, lontano verso la costa, un mondo di dune. È un tempo ancora antico, che si vede già trascorso. Un tempo antico in cui le due stirpi, rettile e volatile, non lottano. Nelle stesse acque lotteranno una madre a sangue freddo e una madre alata, per il proprio dominio sui luoghi di cova. Non qui, non ora, non in ere lontane.
-sì, è vero. Sono molti.-, sibila, annuendo suadente, la testa che si è levata dalla pozza, grondante e letargica. -ma sono sempre lo stesso individuo. Riprodotto dalla ciclicità, dalle stagioni. Gli osservatori di questa terra saranno esseri di camminata, si avventureranno sulle coste del mio mondo, del tuo mondo. Aggettate verso le acque e le melme infinite, verso i cieli e le nuvole infinite. E marciando su queste spiagge rivedranno in ogni passo se stessi, la propria ombra lì già passata, e prossima a passare, ripetuta in moltitudini. Gli anni sono come me: posso mordermi la punta della coda. E diventare così un anello che lascia un’impronta nella carne grigia della mente, difficile da dimenticare e districare.
-è vero, rivedrà se stesso-, annuisce anche l’ombra appollaiata con le ali richiuse attorno al corpo, è un re che in tempi ancestrali ha protetto il suo nido. -e non saprà che fare della sua marcia. E sarà disperato, e sotto incessanti ragionamenti farà addormentare la sua disperazione, immobile e irrisolta. E allora cercherà te, dormiente ma attiva come lava vulcanica, sotto le croste di suolo che ricopriranno in quel momento i pantani. Sarà disperso tra marciapiedi, relitti d’edifici vuoti, e più spaventosi edifici pieni, rumorosi.
L’altra lo ascolta, ascolta parole astruse che non esistono ancora: conosce il tempo e le sue storie, le ha viste disposte simili a pitture rupestri in macchie e striatura in fila sul suo dorso fino alla coda, che lei può raggiungere, lei può raggiungere qualsiasi punto di se stessa. E fissarlo con occhi di ipnosi, senza mai vacillare.
-e io lo aiuterò?-, dice, forse persino con un’ombra d’incertezza, la lingua captante della regina emersa da acque e Fango. Ma scrolla dalle spire le incrostazioni melmose come se gli ordini perentori del Fango, in cui deve deporre i figli dopo aver frantumato dentro se stessa le uova, non la spaventassero in fondo. E come fosse del Fango l’unica manifestazione che questo quasi teme.
-lo aiuteremo.-, dice il re, sempre più flebile, eco di un’ombra che sta scomparendo, no, è già scomparsa, e il suo esserci non è che un fenomeno ottico, un’immagine residua degli ultimi momenti di una cosa che c’era, sorvolava, nuvola intera di cornacchie che diventavano un solo cervello. Come parti menomate che ancora s’agitano in risposta a impulsi portati con sé nella separazione, ancora l’ombra residua del re, ch’è meno d’un refolo attraverso un teschio e una spina dorsale, vuole essere un’ombra che agisce spargendo sul mondo una giustizia, un equilibrio. Le carcasse imputridenti sulla superficie del visibile vengono mangiate da macchie nere e brune e grigie che si posano calando da rami e stazioni di sosta disseminate lungo le ferrovie del vento. Saprofagi consumano ciò che è già scomparso e questa è un’azione morale. Bufali marci in acqua ricci schiacciati ratti tra cumuli di macerie gatti nei roveti che escono da buchi nel vetro frantumato. Il re è un sistro d’ossa vissuto facendo scomparire altre ossa. Ed è convinto, nel parlare, che “lo aiuteranno”.
(Ma chi?)
-ma come lo aiuteremo? Gli umani, gli osservatori, non sanno comprendere. Proprio perché hanno necessità di comprendere. La necessità crea un vuoto.-, si preoccupa lei nell’acqua, senza mai agitarsi. La sua è premura innocua. Di un essere che osserva con pazienza dal ristagno, capace di restare immobile attraverso secoli d’evoluzione.
-a noi nulla è necessario.-, dice facendo un cerchio gigante di se stessa, uno zero con il buco pieno di palude, isolotti, alberi. Traccia sul suolo fradicio l’unico numero che esiste in tutto il territorio, contravvenendo alle leggi del dio, il Fango sotterraneo che continuamente crea numeri: cose che rimangono, cose che vincono, cose che non vincono e non rimangono, i nulla in funzione di ciò che si ostina a non esser nulla. Ma la Madre dice: no, tutto è solo zero, quegli altri numeri non sono che illusioni temporanee, disperate in modo uguale a tutto ciò che schiacciano e annullano, disperate in modo uguale quando, ansimando in seguito alla vittoria, assaporano come quelle pause nel fiatone soddisfatto, quelle pause in cui sembra invaderli in petto una cavità vertiginosa e apparentemente microscopica, si espandano, e nei loro istanti sembrino invece dilagare fino a occupare ogni parte di sé, del proprio tempo e spazio. Le cose che vincono non vincono davvero, nessuno soccombe, tutto è in questo cerchio.
Il re, sceso dal suo mondo, pensa pensieri simili, ma non li dice, nemmeno nelle sue private preghiere, gli sembra di far torto a una qualche cerimonia che governa senza prepotenza tutte le bestie simboliche. Rispetta quella compagna che è venuto ad ascoltare. Così simile a un padre preoccupato, o alla sua ombra rimasta a vagare tra i vivi, appare assorto in una riflessione che estende i confini e la densità della propria materia d’ombra. Per qualche motivo lui vuole aiutare, ha una missione di soccorso nei confronti dei disperati che verranno. Far credere, lui insieme alla Madre, di starli aiutando. Vederli, con premura genitoriale, andarsene ciascuno per la propria strada, ancora oppressi, ma senza mai più sentire quell’oppressione. Quelle forze che gravavano sui dorsi incurvandoli sui propri passi meditabondi, e si contorcevano nei cuori in cui le cose scappano e gridano peggio che in deserti e savane.
(Uno che passeggia osserva il corpo oppresso di una creatura rimasta vittima del traffico, animaletto di bosco, malcapitato in fazzoletti di campagna fragile in mezzo alla città. Pochi passi più in là si ferma davanti al cancello fatiscente di un edificio cadente, soglia di tenebre un po’ diverse dalle incipienti sfumature serotine. Scende e si siede sulle caviglie per fare un gesto senza significato a una gatta color tartaruga tutta timorosa, vede scalpitare i suoi calzini bianchi in fuga tra le ombre di una finestra infranta, e da lì uscire passando per un tunnel, schiacciarsi sotto una cancellata, tuffarsi nei rovi. Lei sa sempre in che direzione scappare, pensa, lei ha una mappa di tutto, qui, ce l’ha dentro, e non perde l’orientamento. Pensa così e si volta dall’altra parte: a un centinaio di metri appena dalle fabbriche totalmente abbandonate, tane di tossici e animali pieni di malattie, c’è una strada trafficata. Corridori, tutti quanti in osservazione della città-palude, biancheggiano a intermittenza coi polsini e i calzoncini sudati come banchi di nuvole, aironi in decollo silenzioso dall’erba alta.)
-l’osservatore che verrà da te… chiunque egli sia. Non è solo davvero.-, sospira infine il re, enorme avvoltoio. Vorrebbe parlare al cuore lontano, ancora non nato, di quell’osservatore che in uno dei suoi istanti di delirio allucinatorio di falsa onnipotenza ha creduto di farlo resuscitare, coi suoi appunti, i suoi pensieri inconcludenti.
-non è solo davvero: tutti quelli che passano, sulle coste e le spiagge del nostro mondo, e osservano e si accorgono del mistero del cielo della città che sarà, della palude che è sempre stata, non sono soltanto le ombre dei suoi momenti passati e futuri. Sono altri individui. Vivi, come lui nati dalla palude. L’osservatore dovrà forse capire, allora, che tutti stanno portandosi dentro lo stesso vuoto, lo stesso rimpianto incolmabile. Forse così potremo aiutarlo.
Lui è dell’aria, di picchi scoscesi. Dall’alto vede tante cose, anzi, un’unica cosa enorme. Crede che un’unità è poca cosa.
-ma l’osservatore,-, osserva la regina, che invece scende nell’oscurità profonda dove non vede che se stessa -non può trarre conforto da questo. Cammina in un paradosso: sa che, prima di incontrare i suoi simili, e insieme a questi osservare tutto quanto vivere e morire incessantemente e poterlo accettare, deve (o così si è convinto) cambiare. Attraversare una metamorfosi, perché tutti sono girini in questo stagno. Ma al tempo stesso, gli hanno insegnato (o così gli sembra d’aver capito) che non può avere una metamorfosi senza prima incontrare i suoi simili. Andare tra i propri simili ancora incompleto, e danneggiarli, e danneggiarsi, per potersi trasformare un domani, oppure rinunciare allo spavento del mutamento, scegliendo la via pulita del fossile, che si consegna alla morte così com’è, proiettando un’immagine perfetta e lusinghiera di se stesso, il disegno cristallino dello scheletro sulla roccia, ma ignaro di cosa avviene dell’anima nel corso del lungo processo di irrigidimento. E non sapendosi decidere torna ancora una volta a camminare in questi posti della città in cui appare, ritornando da lui, la vegetazione primordiale. Sul ciglio di un canaletto sta immobile a osservare. Dall’altra parte, sulla costa opposta, vedrà un edificio nuovo, un centro sportivo dicono, e sentirà d’averne paura. Un coleottero di fantascienza sul prato di fronte al liceo. Eucalipti anacronistici nella sua ombra. Ponti di travi traballanti sull’acqua putrida. E una quiete salmastra delle rive, coi canti nostalgici di insetti anziani, per mitigare la paura, e lasciarlo là immobile a palpitare, con i bagliori delle ore cangianti nel trascorrergli sopra.
-è in un paradosso… capisco.
Stanno in silenzio, per un po’, ad ascoltare soltanto i guizzi, i tonfi, sinfonie del legno marcescente sulla superficie, uno starnazzare distante. Discutendo d’un figlio non ancora nato, perfino quelle due creature finiscono per dimenticarsi di quei rumori acquosi che non si addormentano mai, in contrappunto alla quiete calata come membrana sullo spazio e il tempo della loro comparsa. Già, adesso ricordano.
-non solo. Se dal paradosso uscisse, e con coraggio s’avvicinasse agli altri osservatori, riconoscendoli come tali, e schiudesse a essi i suoi appunti, piangendo tutte le lacrime, prima ingoiate, per ciò che osserva e che sente, rimarrebbe per lui un’altra via oscura, un tunnel soffocante da cui non poter uscire. Continuerà a veder morire tutte le cose, e a rifiutare. Cose che sprofondano nel Fango. Nebbie di inverno, di fine anno, che scompaiono così come sono apparse allo scoccare del crepuscolo. Animali decimati dalla velocità, brutale e insensata. Non abbastanza cornacchie per ripulire le carcasse e le immondizie delle cose innumerevoli che su quelle strade emaneranno fetore.
-ma perché nasceranno creature tanto deboli?-, chiede il re appollaiato sul ramo, senza un solo granello di giudizio nella sua voce, solo compassione che può nascere soltanto dalle ossa, dalle reliquie.
-…lo sai, perché.
In un solo istante serpe e avvoltoio, Madre e Padre, sono amareggiati. In un solo istante vibra in loro tutto lo sconforto dell’aver dato la vita, le zone buie e apparentemente senza speranza di generazioni intere di discendenza che ritornano a loro amplificate, chiedendogli “perché avete fatto schiudere le vostre uova?? Perché ci avete deposti quaggiù??” -in un solo istante, come resi vulnerabili dall’aver adoperato il linguaggio, rispondono alla domanda. La creazione, la genesi di qualcosa, è tutto ciò che esiste di doloroso, ovunque e per l’eternità, per qualsiasi essere. Una rana da qualche parte si tuffa, e il silenzio dopo la scomparsa dell’ultima increspatura cresce irreale e denso, creando un nuovo acquitrino. Già, adesso ricordano.
Nell’incantevole cielo palustre si allargano, irraggiungibili anche per i volatori, laghi di luce violacea e limacciosa, il crepuscolo calato in brume improvvise. Il tramonto era passato inosservato dietro le nuvole e tracce dei suoi bagliori rossastri si rinvengono soltanto nei riflessi traballanti sui segmenti delle zampette dei grilli che, aggrappandosi agli alti steli in crescita sulle poche zolle asciutte, sembrano far rinascere dal serbatoio di quell’inverno ancestrale la primavera, l’estate, l’autunno dei loro canti più belli. Per le due creature che avevano dominato quell’epoca, manifestando i suoi principi segreti, è tempo di far cessare ogni domanda retorica. Ogni domanda deve essere azione già svolta, sotto il tramonto elusivo: come si aiutano gli osservatori, i camminatori senza meta sui marciapiedi e gli acquitrini, quando si trovano in quella situazione? La risposta è l’aiuto già elargito, in un tempo distante, futuro o passato o qualcos’altro ancora, che sta in attesa da qualche parte.
-ho un’idea.-, dice semplicemente la madre, sibilando in ogni fibra del suo corpo simile al fiume che c’era forse lì, un tempo, quando pioveva ininterrottamente.
Lei si immerge di nuovo. Nella terra d’acqua dove galleggiano già carcasse di dinosauri, bufali, ordigni bellici inesplosi, automobili, fabbriche vuote. Si immerge nuotando in cerchio, creando veloci spirali. Le osserva dal ramo un’ombra prossima ad andarsene, senza far più sentire la sua voce soave di ossa che si sgretolano in sabbia, creando le dune sulla costa e in deserti chissà dove. Osserva i cerchi concentrici dei vortici che hanno temporaneamente ricreato il caos nella quiete dell’acquitrino (esulta il Fango quando la Madre dello zero ritorna giù, là sotto da lui, e torna a dargli gioia selvatica), e s’alza in volo sempre più su, allontanandosi dai rami che nemmeno tremano per lo sbalzo lasciato dal suo peso inconsistente. S’allontana dal suolo umido, sparisce, fiducioso di quello che lei ha detto. Per ritornare e riincontrarla in un altro tempo, osservando le cose da occhi di cornacchie, figlie di generazioni non nate, generazioni già morte.
…
(Come si fa a far star buono un bambino, che non si capacita d’essere nato e non sa che deve fare? Lo si porta al parcogiochi dove la domanda diventa ferita al ginocchio e fluisce fuori sottoforma di rivoli di sangue o pianto, venendo dimenticata. O lo si porta alla funzione religiosa dove deve regnare il silenzio, e la domanda deve incubare dentro, ribollire, ingoiata sempre più a fondo finché sembra essersi nascosta e addormentata sotto spirali di serpentesche budella, mai sopita del tutto. O entrambe le cose. Quel giorno i raggi solari e le scalette di legno e le ringhiere di plastica e i cavalli a dondolo e i cinguettii nelle chiome degli alberi con fare sacerdotale sembravano elencare gli eventi della Genesi. Una Genesi di tutte le cose della palude raggiungeva le orecchie.)
GENESI: Nacque il marciapiede, nacque la zolla erbosa premente gonfia di linfa ed esuberanza vitale contro la prima striscia silicea della muraglia a confine del bitume. Le acque piovane riempirono i territori del prato, straripando e creando il vapore, dapprima invisibile, poi densa nebbia -le acque salmastre crearono così giorno e notte, il tintinnare vitreo nell’aria fresca del sole e i batuffoli di foschia luccicanti di raggi lunari. Le acque salmastre crearono l’aria respirabile. E per primi sulla terra scricchiolarono il ghiaccio e le dita degli alberi, secche di rughe sporgenti che formavano lungo la corteccia grigiobruna innumerevoli volti, costruiti a cerchi, si manifesta nei passanti il dubbio di venir ingannati. Così comparve nei prati acquitrinosi e gelidi il rumore. Poco dopo, da qualche parte, in angoli oscuri dell’aria, le cose, incontrollate e indemoniate, cominciarono a parlare. E poco dopo unendosi a quell’aberrazione del rumore, entrando a far parte delle altre cose del mondo, il primo osservatore creato a immagine e somiglianza della bestia selvatica disse che il linguaggio era un mostro alieno, precipitato da una dimensione di terrore ed errore.
GENESI: Su un’antenna, nella distanza, appare improvvisamente ignota, come reincarnazione preistorica, la sagoma della cornacchia che riposa negli istanti prima di gettarsi, affidarsi ai venti della zona rimasti per sempre immutati su quella rotatoria di fianco ai campi incolti. Dopo il ghiaccio segreto del suolo e delle pozzanghere e le dita degli alberi e il chiacchiericcio delle cose del mondo, fece rumore nel risvegliarsi la grigia massa tumorale d’uno stabilimento forse commerciale, una massiccia tana bucherellata di corridoi ininterrottamente illuminati all’interno da sporchi lumi che portano la stessa anima d’alluminio dei torreggianti scaffali, stipati di merci, blocchi di materia inerte che vegetano nelle stanze più profonde delle crescite mortifere del territorio. Da vetrate qua e là, accendendosi a festa, grappoli rossi e giallo oro di luce e musica tracciano, a ripetizione come le battute in loop di una canzone idonea al periodo festivo, dei segnali totalmente ammutoliti. Il marciapiede s’estende vasto come un deserto, diventa parcheggio, diventa il deserto che nel parcheggio cova infiltrando respiri inafferrabili d’aridità fin sotto le strisce tracciate a separare i posteggi, nei contorni dei puzzle di gommapiuma frapposti a desolate zolle d’erbette secche. E contagiando in minima parte anche il verde che cresce nel parco in via di costruzione accanto. Alberelli: impiantati a onorare, in stretta di mano riconciliatoria, la vita e la morte e la meraviglia che tra queste due si ritrova come sperduta bambina, vestita di ingenuità e ineluttabile e lana ancora impregnata di respiri di pecore scomparse; piantine in verticale emersione dalle coste terrose rossastre, che raggruppano quasi degli atolli nel fondale basso popolato di larve di zanzare indifferenti all’inverno e alla fine dell’anno e alla fine della propria vita; fogliame dei pochi cespugli che lì dovranno significare lo spazio verde in cuore urbano… tutto accoglie un’immobilità, propria della distesa eterna. Osservatori dispersi in una vertigine intollerabile, apertasi come viva incisione nel torace, in corrispondenza della salita attraverso i polmoni di quei fiati in cui è intrisa l’improvvisa consapevolezza del proprio immortale dubbio -d’essersi ritrovati in un ultimo dell’anno già visto nel corso dell’ultimo dell’anno precedente quando nell’analoga passeggiata tra nebbie distorcenti avevano creduto di sperimentare in ogni particella di sé tutto quanto sarebbe avvenuto, sotto le leggi ossimore e congiuranti dell’immutabilità e del cambiamento feroce-, sono osservatori che fanno sentinelle sul confine tra il marciapiede, il suolo del ghiaccio e le dita crepitanti e l’acqua assiderante, e il cielo in cui di nuovo vola qualcosa. Un airone guardabuoi che scappa verso l’orizzonte pitturato da bluastre distanze di colli e paesi e strade serpeggianti nel nulla; la cornacchia -forse quella strana di prima- che s’ammanta d’un nero non suo trascorrendo sotto le ultime vibrazioni irradiate dal sole e disegna sul terreno l’ombra di un argentavis che ha deposto le sue ossa in nidi sterili mai rinvenuti dalle creature deformate dalla parola, spargendo così inascoltata la propria ironica arte, l’affermazione della propria natura di ossa di mangiaossa.
GENESI: Le sentinelle che qui si trovano a passare, rivivendo sempre la stessa passeggiata, hanno improvvisamente una visione, che trascende la palude, che trascende i significati insiti nei brividi incontrollabili diffusi tutt’attorno dalle membra filiformi del tempo, gettato a precipizio verso una spirale che tutto rimescola e inesorabilmente precipita. Cosa sta cercando loro di comunicare? Dove si trovano? Ad Aprilia tra un supermercato e la rotatoria che s’affaccia verso i casoni popolari, avviluppati da un’aria viola di cose distanti, da un’aria verde di vapore madido della terra incolta e deturpata da inquinamenti e frasi lì precipitate come cicche dai finestrini in corsa; ad Aprilia ai margini del parco che annaspa per svegliarsi in quella macchia di sole, che appare abbandonata ad appena due passi dal viavai formicolante inappagabile delle buste rigonfie di spesa, ci sono solo aironi timorosi a presidiare, captare coi colli ricettivi gli spostamenti d’aria di una falsa savana semidesertica gettata sulla palude come mantello. Bianca piumaggio, verde umido, giallo secco, rosso terroso: tutt’assieme così è questa terra, i suoi aironi sono piante che uguali alle altre si ergono, pronte ad appassire. E, sotto gli alberi della Genesi che per primi comparvero e rumoreggiarono in fratellanza ai cristalli d’inverno, perforando il sottosuolo occhi osservatori all’improvviso vedono comparire lì embrioni di cani scheletrici, rannicchiati dentro uteri di corteccia d’uguale materia e fibra del pelame rado e fulvo. Sembra allora che le dita degli alberi, fuoriuscenti in mazzetti devoti al caos e alle forme irregolari dei tremori sparpagliati dalla comparsa di uno spettro, siano una prosecuzione di filamenti nervosi dai nuclei caldi e palpitanti di quei cani sospesi nel vuoto nero là sotto al mondo avvolto dal cielo là sopra. Immobile, spaventosamente immobile come non mai il cielo di Aprilia in certi momenti. Non lo si può toccare neanche con dita d’aria e di dio, nemmeno diventando fulmini grazie alla meditazione dell’airone, la comunione panica che forma una pozza battesimale gialla in fondo al suo occhio fisso, spalancato sui pericoli incombenti dei pezzi di terra dell’abbandono -savana di fabbriche abbandonate in atolli di costa opposta. Non si può afferrare quel cielo d’Aprilia che rivela d’essere uno sfondo e nient’altro, con finzioni di tramonto e trambusto. Un anno fa, un anno prossimo, questo stesso anno -in cerchio spiraleggiante che getta in disperazione gli osservatori- si vede lo stesso cielo coperto di nebbie, in un’ora più tarda, quest’anno/lo scorso/un prossimo si è andati a un’ora meno tarda e meno umida in cerca di qualcosa, per trovare il volo improvviso di esseri allarmati, un canale col greto invaso da fossili di carrelli e biciclette, una morte cagna e sepolta che manda nuove forme di gelo dai ghigni di zanne candide lì sotto digrignate in ultima inconfutabile affermazione d’angoscia.
(Il gheppio si levò come freccia rossa nelle brume crepuscolari tra i canneti, inventando la mitologia segreta -i salmi della religione seguiti alla genesi del linguaggio mondiale, la genesi del cosmo qui racchiuso. L’airone, rassomigliando all’anima dipartita di un salice alato, colò lacrimose piume palustri dalle curve delicate del volo, a M nel torace, a S nel collo, a sillabe sguazzanti nel pianto rotto della lunga gola che ancora racchiude il timore, l’impulso a volar via al primo avvicinarsi d’intrusi. La cornacchia saltò tra il sopra e il sotto, per perlustrare le cose morte cadute al suolo, moltiplicare così la sua stirpe saprofaga in passi sicuri e furbi tra gli arbusti spinosi, e poi beccare anche nel sopra altre cose morte, nascoste nel cimitero del cielo, che ha anche lui strisce marroni e grigie come il piumaggio quando ciò che è grande e vasto diventa uguale a ciò che è piccolo -inventando la quotidiana santa messa, in morte del giorno. Lo sparviero s’incuneò argenteo e raro -inventandosi apocrifo- in un bagno di luce mattutina speculare a quella limacciosa del gheppio a caccia tra i canneti, e proseguì al di sopra di cavi elettrici sospesi su di un pianoro cementifero trapiantato nella terra di eucalipti, oltre il cui frusciante fogliame scomparve. E ultimo, un uccello acquaiolo troppo veloce e indistinguibile, una foglia alata macchiettata di semi neri, non si fa vedere e diventa le onde del fiumiciattolo imputridito che scappando sorvola radente, forse per cercare un altro capo più limpido della sorgente, ben oltre il mondo visibile, dove non c’è sporcizia -creando una leggenda di libri mai ritrovati.)
(Un osservatore diventando uguale al cielo e a se stesso e a ciò che il cielo ospita attende d’osservare e osservarsi con occhi d’acqua nera e circolare nel volto privo di suono di un allocco, strega piangente che cerca il suo nido in un mucchio di tenebra e nebbia, dentro i rami, dal Parco dei Mille alla boscaglia di Campoleone al cimitero guardato dagli occhietti luccicanti dei paesi spolveranti la notte dei rilievi all’orizzonte. Qualsiasi osservatore ricorda un sogno in cui precipitava, la caduta interrotta da un salvataggio. Su spiagge nere e blu di notte solida le ali si spalancano, per far salire. In volo sul piumaggio di borre, muffe, funghi spezzati sulle strisce di melma schiacciata da passi. In volo sulla rovina che ripete se stessa in punteggiatura minuziosa del paesaggio, raggiungerà rami e spiagge palustri di ignoto, dei giorni ancora da venire in cui si ripeterà sempre immutato lo stesso interrogativo, quello sul loro mistero.)
(Sono già vissuto? Sono già morto? Cos’è questa cosa che sento? Perché ho già fatto tutto questo?)
-perché sei nato qua-, risponde, sibilando attraverso gli anelli che fa sferzare lungo le squame delle sue spire in ricircolo nell’acqua bassa dei campi, una creatura ovovivipara emersa dal fondale, in rappresentanza della divinità infera più potente, il Fango, ma è di questo una figlia a volte disobbedente, a partire dalla melodia dolce della sua voce, che esce più musicale d’ogni altra voce proprio perché sorda. Dalla lingua biforcuta, che affiora dalla superficie viscosa dell’acqua a sondare l’ossigeno e calore corporeo, emana il linguaggio, creando il ritorno, la confusione, la mancanza di comprensione in chi nel ritorno ciclico è precipitato.
-mi pare di diventare tanto solo, in questo, Madre Avvelenata.-, all’improvviso l’osservatore capitato lì per caso chiama così la creatura, dopo essersi inoltrato nel campo dal marciapiede, comprendendo per istinto che quell’occhio di spire e squame, simile a un enorme zero, necessitava un titolo onorifico per essere raggiunto. -sono tanto solo nell’incapacità di orientarmi, e allora perché, tu e le ali più grandi sulla savana desertica, sulla palude intera della morte, non prendete me, e non mi sollevate, e abbracciate, come in un gioco di infanzia, come una madre e un padre e un figlioletto da consolare?
(Hanno forse bisogno, gli osservatori, di cercare una famiglia nel suolo e nelle pozzanghere di pioggia caduta e palude bonificata, negli scricchiolii arborei e nelle aure sinistre tutt’attorno che dalla nascita dicono “non fuggirai, non muoverti, non respirare troppo”, per poter capire chi sono e di cosa è fatta la materia dei loro pensieri, che erigono attorno a loro le uniche pareti esistenti al mondo in cui si sentano al sicuro?)
La chiama così, perché lei partorisce vivi e integri i suoi figli sanguinolenti, avvolti da membrane di lamenti di chi vede comparire pezzo per pezzo il mondo. Sono uno dei tuoi figli, Madre anaconda coccodrilla anfibia draconica sotterranea. Velenifera non in denti ma in sangue, figlio tuo sono e uguale a questo posto, come dici tu. A ogni mio passo trascino con me l’intera palude in flusso sanguigno, l’ossigeno che raggiunge la mia mente è globi di esalazioni ribollenti, che sprigionano spettri nel buio intrico di giunchi e canne.
-facciamo presto.-, sibila sorridendo la creatura a spirale, senza mai arrestare i suoi anelli in corsa attorno a tutto il perimetro del parco. Dove qualcosa, forse un ricordo, è stato sepolto, e irrora internamente, fingendo e sperando d’essere un principio vitale, le fibre degli alberelli ancora giovani.
Così solleva, la spirale, una testa dove sono incastonati gli occhi uguali a gemme smeraldine del Fango, e fa cenno all’osservatore di salire: un passo da poggiare su un avvallamento del muso, piatto tra le froge che emanano, momentaneamente invisibile, la foschia prossima a evaporare dai terreni al primo calare del buio. E compiendo quel passo l’osservatore viene sollevato dalla forza del lungo collo, e si ritrova a incrociare il proprio braccio con l’ala dell’argentavis calata dalle nuvole. Insieme, la Madre Avvelenata che srotola se stessa verso il cielo e il Padre d’Ossa e Piume Delle Piane della Morte sollevano, facendolo momentaneamente felice per l’euforia e la segretissima commozione del gioco, un piccolo osservatore che quando finisce l’anno non sa dove andare, cosa essere, come rispondere all’incessante domanda che gli pulsa in pancia chiedendogli dove in tutta la terra di canneti e tumori cementiferi e canali gorgoglianti di liquame possa esistere un posticino, una tana scavata in cui si possa innaffiare con le proprie lacrime la terra della legge del Fango senza che in risposta questa sfoderi zanne indurite, comprimenti l’addome e il dorso raggomitolati per proteggersi. I ricci scappano riparandosi il dorso col tetto dei tunnel di lunghi cadenti fili d’erba intrecciati. Sangue e grumi si spargono da pneumatici troppo veloci, un barlume solare passa veloce sulle intelaiature sterili dei carrelli gettati a galleggiare direttamente sul fondale color ruggine del canaletto, sotto ponti di travi e strapiombanti rive di spighe rossicce. C’è un posto in cui possano parlare tra loro e capirsi (maledetto mondo di linguaggio!) la disperazione interna per il tempo e lo spazio esterno dove il tempo crea miraggi?
-devi volare e zitto.-, dicono la Madre Avvelenata e il Padre d’Ossa, facendolo dondolare e sembrare felice, in un gioco come di scivoli e altalene e nuvole alte, alle quali appendersi tendendo le mani lassù, verso i respiri del cielo, speculari alla nebbia che sotto i piedi, dai fili d’erba, comincia a salire pochi passi incorporei alla volta sui gradini intagliati invisibilmente negli ultimi istanti del pomeriggio. Che in un attimo farà metamorfosi, che in un attimo vedrà il gioco del girino immerso in polle solari trasformarsi nella canzone di corteggiamento notturna delle rane umide nascoste nel buio, gracidii finali. Vive e si immerge, il figlio della palude, nella membrana di fiati che conservano immutabile l’atmosfera sulle case e le fabbriche abbandonate e gli eucalipti, vive ancora e già si vede, a scomparire nel futuro come il vapore fluttuante sopra rugiada e brina, a esser trascinato per pochi, ma così enormi e rifulgenti, istanti destinati a ripetersi in un parcogiochi semivuoto nell’ultimo sole dell’ultimo giorno dell’anno, con una manina e poi l’altra strette da una spira di leggenda, da un’ala d’estinzione.
-vola volaaaaa, vola volaaaaa, cuccioletto!-, giocano con lui. Si vede fluttuante sui praticelli della periferia del traffico un bimbo. Oscilla sereno per alcuni minuti in mezzo alle enormi ombre di mostri torreggianti sulla strada, ignorati da tutti gli esseri. Sorridono il silenzio complice dei mostri e gli spiriti e i creatori, come si compiacessero a vicenda di aver fatto un miracolo.
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