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Gli Appunti Del Fango- Battaglie (pt. 2)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 set 2020
  • Tempo di lettura: 27 min

Aggiornamento: 6 set 2020


(segue a parte precedente)

[nota: lettura preferibile se sono già stati letti gli appunti "yellow flower suite, movement 1: gospel overture" e "case anni '70 di un principe rude"]

Sto pensando: deve esserci certamente un sovrano umano, vicario, o una dinastia che ha percorso di nascosto il tempo -di nascosto, o da qualche altra parte: del resto, secondo la storia ufficiale, Aprilia è una città giovane, non è mai stata una potente città stato, conquistatrice (ciononostante, la storia ufficiale deve ammettere suo malgrado che una battaglia, almeno una, sia stata combattuta su questo territorio, ancora fischiano i pianti e le bombe, i proiettili e la solitudine sotto il cielo di un secolo tonante). Dunque abbiamo i re, che sempre possiedono le spade, il denaro, le coppe, i bastoni. Poi: fanti, dame. Un “fante”, diciamo, lo conosco, è una sorta di principe. Una dama la vedo arrivare, non sembra contenta. Cos’altro? Predatore alato del cielo, becco adunco affilato, dita artigliate dalla pelle ruvida, squamosa con qualche peletto uncinato. Riempie la volta di ali ineguagliabili, apice della vita aerea, e ha l’enorme ventre bianco. Conosco anche lei. La segue un portatore di spada, mi sembra di conoscere anche lui, per quanto molto cambiato dall’ultima volta. Un messaggero, anch’esso proveniente dal cielo, nello sguardo una condensa ghiacciata che può formarsi solo nella fredda vertigine di stratosfera. Sorride fissamente con beatitudine di un canto che ode da solo, gli viene dal vapore di nuvole, e fermamente come dipinto stringe la spada che sembra un mescolio di elementi addensati in lama: un fuoco chiaro, caduto dal sole, un’energia splendente di lampo, un fulgore affilato di ghiaccio d’alta quota, il filo reso perfetto da un rasoio di vento che tutto modella in spigoli. Loro vengono in due, ma poi? Ah, sì, un enorme fallo della terra, vivo, pulsante di rossori e fumante di linfe calde, sempre tiepide nei condotti interni. La corteccia che prende il colore dagli umori e il loro sobbalzo su per il tronco. C’è anche lui, anche se non ci ho mai interagito. E infine? L’ultimo asso, tutto ciò che possiede è un esoscheletro di brillanti. Cavo, non protegge tessuti molli, ma una qualche forma di vuoto. Non si sa cosa accadrebbe a caderci dentro. Fondamentalmente, è un tesoro sepolto, una leggenda dimenticata nella sconfinata mappa della palude. Comunica coi luccichii sui pezzi di artigianato nobile, si muove serpeggiando e sbuffando come il drago guardiano che gli manca. Sotto, non giunge la luce dei metalli preziosi: il tesoro non è il fondo del tunnel, esso nasconde altre cose a sua volta, custodisce oscuri anni di storia obliante senza sentiero, landa dello sperduto. Ma la corazza è bella, e ai manufatti, splendenti d’iride e simboli intagliati, si mescolano la sabbia, l’acqua, retaggio di quando era un segreto della terra. Ora emerge per unirsi agli altri assi, e ai re di coppe e spade e denari e bastoni, e tutti gli altri, per farsi interpreti della scena davanti agli occhi della mia mente. Ci sono al seguito le schiere del popolo, i soldati semplici, le singole unità, i poveri corpi: i numeri. Li conosco bene, possono esser tante cose, formiche, infinite in fila indiana, rondoni, disperati col grido a frazione, oppure legioni di piccioni, e poi tanti spiriti di palude, fuochi fatui e i loro adoratori indigeni assoggettati. E il luogo, il fondale dipinto, non è una vista che si possa trovare oggi da qualche parte a costeggiare una via, un parcheggio. Deve esserci stata una zona di Aprilia più collinare ed erbosa, dalla parte dei boschi, senza canneti e senza rivoli limacciosi. Sono tonde alture coperte di erba dal colore di menta, con pochi alberi simili a cipressi, qualche struttura in pietra qua e là che fa pensare a un antico ufficio, una piccola fortezza piazzata su un pedaggio. Soltanto qui il re potrebbe far erigere il suo castello, chiamare a raccolta i sudditi e gli altri partecipanti alla Battaglia. Altrove, eccetto baracche argillose, le altre costruzioni sprofondano. Tra le guglie più basse di queste misteriose casupole o torrette, la presenza lontana del fantomatico castello è vagheggiata da una viuzza ocra che serpeggia in su per il colle. A guardarla, la mente si costruisce un fossato e un ponte levatoio laddove è il non visibile.


La creatura alata, la strana arpia, comparve senza traiettoria, direttamente a oscurare il sole. Chi era a terra a discutere non prestava attenzione al cielo e le sue strade frequentate, ma alzò la testa al macchiarsi di un’ombra improvvisa. Insieme alla figura scurita, circondata d’alone raggiante, comparvero i suoi rumori. Senza avanzare, si muoveva verticalmente, eseguendo una manovra di discesa ad ali spiegate. Sbattendole mandava raffiche di nerbo, erano possenti i suoi muscoli che sottomettevano l’aria. A gambe distese predisponeva gli artigli come speroni da affondare nel terreno. Più in alto volteggiava ancora, più piccolo, il suo seguace. Quelli a terra si avvicinarono. In testa, una figura ammantata e alta. Non si affrettava, gli stivali di rara pelle lucente educavano costantemente i passi a una certa superbia rilassata, per la quale non vale la pena di accorrere per nessuno.


Per chi si incontrano, queste figure? Che senso ha l’accoglienza che si fanno, il dispiego dei loro rapporti? Sono davvero io quel “signore” che li tiene in mano e fa interagire? Siamo io e mia sorella che giochiamo a “Battaglia”, parrebbe, o è solo una fantasia per spiegarmi le cose. Guardo quelli che vengono dietro: sono molti soldati-formica, portano spade, monete, vessilli reali, archi, legni. Ne portano in quantità diverse, di diverso peso è il rango che irradia da cotte e vesti. Similmente bardati anche uomini gracili coi capelli castani di stoppa, aborigeni dall’aria malinconica; e allo stesso modo pure gli spiriti e demoni di palude, dal più debole al più prestigioso. Loro, più delle formiche, sono avvolti dalle sciarpe guerresche, celano parti del capo e del corpo misterioso dietro un bavero più rialzato, un mantello più spesso. Non sono però, tra tutti i presenti, quelli che più ci tengono a celarsi. C’è, un po’ discosto -il più svogliato di tutti e, si direbbe, ostile a questa “riunione”-, un personaggio che riconosco, da lontano sembra incappucciato. Lo segue una donna dall’aria tetra che non ho mai visto. Lui a volte si gira, non sento nulla e non vedo muoversi labbra (è impossibile), ma si direbbe che le bisbigli qualcosa, come dei commenti sarcastici desiderosi di raggiungere chi può capirli in virtù di un simile cinismo. Lei non risponde, mantiene lo sguardo basso a terra mentre si solleva i lembi del vestito, per quanto non le interessi (è un gesto di bambola cristallizzata in staticità di porcellana, un automatismo obbligato). Ma lui non vuole feedback, vuole solo un recipiente in cui infilare malizia, e si vede che quel recipiente cupo e silenzioso, dalle labbra cadaveriche, sia un’abituale ascoltatrice dei suoi veleni. All’improvviso, pensando al fatto che conosco quel principe e non conosco quella dama, mi accorgo che sto assistendo alla scena e perciò devo essere presente da qualche parte. Che sia uno dei soldati, una formica o spettro o schiavo di guerra o contadino costretto alla leva? La consapevolezza di esserci produce distacco, di nuovo mi astraggo dalla scena. Prosegue autonoma -credo. Se continua nel modo in cui continua per mio volere, non lo capisco. Non se ne può venire a capo e ho mal di testa.


-allora, Dusra!-, prorompe a mo’ di saluto cortese, e con un po’ di sottile scherno, l’uomo alto in tunica e stivali -com’è? Non porti con te le tue legioni? Guarda che in guerra la differenza la fanno i numeri

Dusra [vedere appunto “yellow flower suite, movement 1: gospel overture”], atterrata, dà un ultimo colpo d’ali a conclusione. Manda piume in faccia a tutti, solleva i lembi delle tuniche e mantelli, riassesta le normali gerarchie. Richiude le ali intorno a sé, anche lei dotandosi di un mantello cerimoniale che si addice agli incontri tra le nobiltà di paesi stranieri. Dal cerchio di muscoli e penne nere si erge a petto gonfio il busto mostruoso, il collo allungato a far torreggiare uno sguardo rosso prossimo alla cecità, una bocca d’osso adunca. Il labbro o sorta di becco, calante verso il basso, è come un cartello che avvisa: la mia parola preferita è “dignità”.

-mph! Uno che sta tutto il giorno a oziare a terra, che non rammenta nemmeno i titoli, non può certo dire a me, a Madre Dusra, di non preoccuparsi dei miei soldati: giacché, quando arriveranno, saranno così tanti che costui non riuscirà nemmeno a vedere il sole.

Sbuffa da nari dilatate, sputerebbe se potesse. Pensa: ma che ne sa, questo omiciattolo, della guerra?

Lei, invece, la conosceva bene. Sugli artigli, ancora, una patina vischiosa dove era stato il sangue del mostro, nella battaglia che capovolse il destino dei suoi occhi. Un tempo cercava la divinità, ma aveva dovuto sacrificarli per la vittoria che le permise di costruire il suo nido. E ora, la sua umiliazione più grande, era costretta a portarsi il “cane da passeggio”, pasciuto nello stesso nido, casa di fiori gialli. Era atterrato anche lui, le stava dietro, diritto, lo sguardo e il sorriso immobile a fissare chi si volgeva alla Madre.

-hah! Va bene, allora, Madre. Attendiamo i tuoi uccelli con trepidazione.-, fece il boss della terra, sovrano di truppe a piedi e a cavallo. Accolse ridente e furbo lo scambio di provocazioni sommesse, totalmente immune a qualsiasi tipo di offesa. Scaricava il peso su un lato appoggiando il braccio a un’elegante asta che pizzicava il suolo, l’altra mano la teneva a ridosso del mento e si accarezzava col pollice le grasse pietre rosse dei suoi numerosi anelli d’oro. Dorato era anche uno degli occhi finti, si sarebbe detto che se lo fosse cavato apposta per poterlo scegliere in questo modo. Dalla pupilla partivano in direzioni opposte due sagitte, una all’infuori che derideva, giudicava, rammentava a tutti una certa cosa che doveva essere nota; l’altra, rivolta a se stesso, lucidava, lubrificava, come un unguento progettato per la migliore lorica antica che adorni il museo della reggia. Sotto la tunica sporgeva il bordo di una pancia molle, non obesa ma vistosa a suo modo per chi si trovasse davanti. Ingrandiva e deformava il disegno sulla tela celeste, cinque sagome stilizzate di uccelli simili a rondini nere stiracchiate. Se le indicò, sempre rivolto a Madre Dusra:

-però, come sai, a noi piacciono più questi, rispetto ai piccioni. Quali sono i più numerosi?

Madre Dusra non rispose poiché rispondere non era possibile. Pensava che tanto, anche quando fossero giunti i rondoni, lui che ne portava lo stemma avrebbe patito per l’acutezza dei gridi: non roba da terricoli. Nel frattempo lo lasciava con l’illusione di averla colta alla sprovvista, convinta che miseramente non avesse altro di cui godere. Non era del tutto esatto: le vanterie e i sarcasmi del capo erano solo un’applicazione che egli si concedeva in virtù di qualcosa di più profondo. Lo testimoniavano la sua tunica preziosa che rappresentava tutto il reame, e i suoi anelli, come occhi rossi sulle dita: stavano a significare che il potere gli era conferito da qualcosa di grosso. Più potente di Madre Dusra, del portatore di spada, del tesoro, del fallo, più enorme e cupo di qualsiasi creatura. Poco importava che lui in persona, un normale umano, fosse di rango inferiore a questi quattro esseri: lo stare al di sopra dei suoi simili gli dava, da un punto di vista materiale, la soddisfazione di possedimenti e successi terreni, mentre da un punto di vista ideale il fatto che fosse emissario del potere più rilevante, di essere “ben visto” da questo al punto che gli aveva affidato un ruolo, gli donava la capacità di atteggiarsi con un po’ di arroganza anche con chi, tecnicamente, gli era al di sopra. E tornava ad accarezzare l’anello, col polpastrello del pollice, a lucidarlo, ad avvicinarlo al ghigno scoperto così che allo scintillio di denti consunti dal troppo mangiare e il troppo lavarli si mescolassero raggi di rubino. Con l’indice sollevava e lasciava ricadere le ciocche di unti capelli neri, due tendine che scendevano ad accarezzare la nuda pappagorgia giallastra. Senza irregolarità, pareva quasi una pelle di gomma, a maschera, e forse solo per l’assenza di barba era chiamato “capo”, “boss”, e non “re”.

-a proposito di rondini, voglio proprio veder spiegate le insegne. Almeno uno stendardo, dai! Le prove è necessario farle: non si vorrà mica arrivare impreparati alla guerra?

Batté le mani. A testa bassa si fece avanti dalla folla un ometto di giunture contorte, dal deambulare scoordinato di un troll rinsecchito. Portava una lunga asta.

-dunque, è così che intendi la preparazione alla guerra. Capisco.-, sorrise altezzosa Madre Dusra.

-eh, forse per chi sta tutto il giorno in cima a un nido, cose fondamentali come la forma e la cerimonia non contano. E invece fanno da sole più della metà delle conquiste di un regno.

-ci aspettiamo di vedere le bandiere di Aprilia sventolare agli angoli del mondo, allora.

-e magari le vedrà, Madre Dusra, chissà. Durante uno dei suoi giretti.

Con quello che sembrava un enorme sforzo, lo schiavo portabandiera issò lo stendardo, più alto di una casa. Si aprì con sbatacchiare di pelle, lo spesso tessuto ondeggiò sul colle la sua eccezionale lunghezza, una finestra azzurra con lo scudo, gli uccelli, la corona. Accanto, un minuto ciambellano, un demonietto di palude nano imbacuccato in armatura, dispiegò un’insegna più piccola, forse uno stemma di qualche squadra militare, o un simbolo religioso, comunque qualcosa di conosciuto nel regno ma che non lo rappresentava propriamente. Su fondo grigio c’era il disegno di una specie di occhio semiaperto, con un paio di ali e una corona (questa sì, era una traccia di Aprilia che sarebbe comparsa inaspettatamente in vari angoli del mondo).

-ecco qua!

Il capo sollevò il ginocchio per appoggiare il piede su una base di pietra, fatta collocare appositamente di fianco all’entrata dell’asta nel terreno. In posa regale conficcò i pugni nei fianchi. Guardava lo stemma sventolare davanti a sé e poi cucito sul proprio addome, inorgogliendosi di ciò che la sua limitata autorità gli consentiva comunque di fare, senza che nessuno potesse aver nulla da ridire.

-e ora, se non ti dispiace, mostriamo a queste truppe anche un tipo di preparativo che possa davvero tornare utile in battaglia-, gracchiò Madre Dusra.

-ah, già, il bamboccio.

Avanzò il cosiddetto “cane da passeggio”. Portava le braccia a un’elsa, pronto a sfoderare una spada, forse per prepararla al sangue.


Lo riconosco, è familiare. Ma non so dire esattamente chi. Ha perso qualcosa di quello che aveva, è come se fosse stato “modificato”. Ha una forma umanoide, possiede però delle ali, molto diverse da quelle di Madre Dusra, sembrano artificiali, un marchingegno montato a corsetto. Hanno una consistenza plasticosa, petrolio addensato in ossa cave e remiganti arruffate dal vento. Noto che le punte di queste ali sono fasciate, come fossero state ferite -o divelto il rivestimento, chissà se in seguito a una lotta feroce o un danno autoinflitto. Fluttua sulla testa un cerchio metallico, ramato ma brillante come fosse oro. La tunica è celeste e semplice. Il volto strano e disturbante. Come ricostruito dopo un incidente, ha per più di metà, a chiazze, la pelle paralizzata in una futuristica sostanza sostitutiva, che è morbida e dura, che è osso e muscolo, filamento e vaso sanguigno, nervetti infiniti ma immobili. Lo ricopre così di un bianco grigiastro privo di vita, vi è disegnato un sorriso che non si smuove mai e al di sopra del naso plasmato a lieve virgola si allineano occhi di cristallo. Anche i capelli, una volta diversi, più vivi (neri, castani, rossi...), sono ora biondi e cadenti riccioli di una specie di paglia finta lì messa ad attoppare una calvizie strappata a forza. Solo un cambiamento, tra quelli visibili, appare naturale, conferito dal solo scorrere del tempo: è molto cresciuto in altezza, assai più di un normale essere umano adulto. Addirittura eguaglia Madre Dusra quando sta incurvata. Non so se vada chiamato “angelo”. Per alcuni l’asso che porta la spada è un “putto”, un “cherubino”. E in effetti il cherubino indicava in origine, piuttosto che un tenero infante su soffici nuvolette, un sinistro ibrido di bestia e automa, un macchinario alato che può sfoderare una gloria di raggi devastanti. In parte umano, in parte chimera, in parte macchina… e in parte maschiaccio e in parte femminuccia. Ma non posso continuare a interrogarmi sul suo nome: ho di nuovo fatto l’errore di intromettermi nella storia. Forse è più difficile non fare questo errore, man mano che vengono riconosciuti più elementi. Devo sparire, retrocedere, attento, piccolo osservatore……


Il bamboccio -così l’aveva chiamato il boss della landa- fece scintillare la lama in un puro baleno: non fu visibile l’atto di sfoderarla, con un momento era giunta, semplicemente si era trovata a fluttuare come fiamma sacra nell’aria davanti al suo maestro. Piuttosto che la rapidità senza pari di un corpo che surclassi il suono e la luce, pareva un sortilegio degno di un’energia in grado di arrestare e far fluire il tempo a proprio piacimento. Con sveltezza rispose Madre Dusra, sollevandosi da terra, mantenendosi all’altezza della spada con pochi battiti d’ali, e intanto mandava zampate a percussione, avanti e indietro, passando gli artigli sul filo evanescente. Dentro la lama lampeggiavano gli elementi, e i colpi ne accentuavano il continuo accendersi e spegnersi, l’alternarsi di fuoco e tempesta. A ogni zampata la spada rispondeva con un’esplosione più violenta dentro i suoi contorni, segnalava che si stava affilando. Makio -o Femi, o chi dei due fosse, se era in effetti alcuno- se ne stava con le mani tese avanti, rendendo possibile quell’operazione. Tutti sbalordivano ai fischi lanciati da quello strano rituale e, come in ipnosi, cominciavano a veder vorticare le due figure, la deforme arpia e il deforme cherubino, come in un simbolo sacro che si attorciglia all’infinito, che ingombra lo spirito e al suo posto crea significati. Questa era la bandiera, la predisposizione alla guerra di coloro che difendevano le cose rese sacre.


(Mi chiedo a un tratto come mai rappresenti il denaro, e come mai la spada sia a esso asservita. Le armi, la guerra, sono l’invenzione più vecchia, molto più del denaro. Ma forse questo sopraggiunse come un invasore alato da lontano, e da allora si occupa di rendere effettive le cose. La spada, il suo portatore, non sarebbero comparsi ad Aprilia se non ci fosse stata lei a smuovere animi di nidiacei, a portare il dubbio e la sua assenza nel suo asilo di fiori d’oro? Ma devo smetterla di intromettermi, devo smetterla, devo stare attento…)


Anche il boss è momentaneamente stordito da quella danza bizzarra. Le formiche, che più di tutte temono le cose del cielo, indietreggiano, alzano gli scudi. I demoni di palude confabulano in lingue di gorgoglio e raucedine. Soltanto due se ne stanno in disparte, una indifferente, l’altro sprezzante. La prende per il braccio e se l’avvicina al volto coperto, di nuovo a sussurrarle qualcosa, probabilmente. Il principe rossonero, alla luce del giorno, porta un panno nero sopra la testa, per non mostrare ciò che non vuole. Solitamente rintanato in un anfratto freddo e umido, pieno di ombre che nascondono gli eventi sotto la coltre di un prematuro oblio, non vuol mai uscire al sole e assecondare le volontà di chi compra e costruisce su quel territorio, mette indicazioni e gioca a fare il regno. Egli è un “principe”, ma solo perché, per qualche motivo inspiegabile, è la parola che si staglia sfrigolante nella mente al primo incontro col suo ossimorico portamento, rozzo ma maestoso. Qualcuno lo chiama “il principe rude”, però non è ufficialmente figlio di nessun reale, nessuno sa quale sia il suo nome, nessuno sa l’origine del suo sdegno per l’autorità. Ma è lì, a interpretare il Fante, seppur senza cavallo. Impauriva il viaggiatore perduto, col volto che nella baracca dismessa e fradicia riusciva sempre per qualche oscuro tranello a fuggire la vista, protetto senza tregua da una nebbia ch’era un pezzo di notte. Ed eccolo, senza nessuno strano incantesimo a proteggerlo, costretto come tutti i cristiani a coprirsi se non vuole esser visto. Aveva scelto, si direbbe, un panno che meglio ricordasse quella sensazione fumosa che lo accompagnava nel fondo dei suoi territori grami. Ricadeva a frange, fino al petto, solo un foro per uno solo dei due occhi -sapevano che non fosse guercio solo in fede di testimonianze di quelli che lo avevano incrociato perdendosi nell’acquitrino, che raccontavano a volte l’impressione di due fiammelle pungenti attraverso la tenebra, o addirittura di una sensazione come di poterne discernere le espressioni nonostante l’assenza d’un viso. Da lì sfiatava anche un alito fumoso d’improperi.

-eccola, ha fatto il suo spettacolo. Ce ne andiamo ora?

-non sei tu a decidere.-, parlò per la prima volta la triste dama.

-lo so, lo so. Allontaniamoci da questa folla.

Più di tutto, il principe non tollerava che si fingessero una politica e un’araldica apriliana. Per lui, quella era una palude fuori dal tempo e il catasto, la guazza privata per i giochi del caos; ancora non dovevano esserci né bandiere dello stato, col cielo e i rondoni, né simboli della sua fede, di cui si facevano incarnazione quella donna uccello e il suo servitore in una spirale di furia. Voleva ancora tenersi per sé il privilegio del vagabondaggio solitario nell’immensità della palude, essere il solo individuo che ne conoscesse i pozzi e occulti incanti fin nei più torbidi e inaccessibili angoli: il tempo per i simboli, i segnali stradali e i diagrammi riassuntivi di quello spirito irrazionale inafferrabile, per lui non era ancora giunto [vedere appunto “case anni ‘70 di un principe rude”]. E ora, per chissà quale forza che metteva tutti a raccolta, c’era un’indiscutibile folla -una moltitudine! Nella palude! Assurdo a dir poco, inaccettabile. Si divertivano a inscenare l’esercito, la “Battaglia”. Cercava di cavarsene fuori, anche se era stato trascinato lì dalla stessa energia.


Qualcuno applaudiva, altri diffidavano. Si era concluso il rito, cadenzato e violento, disturbante. Ed era tutto un manipolo raccolto attorno alla scena. Non si sa se fosse una vanteria della Madre, che poteva disporre del suo seguace come meglio credeva, e far proprie le prodezze di lui; o se invece quel gratuito dispiego di ferocia mascherata da grazia avesse davvero un’utilità alla guerra che si sarebbe messa in atto. E ora discutevano, cercavano di capire la guerra ed elaborare tattiche, prevedevano e valutavano ciò che s’era visto, l’efficacia dello stendardo sul campo e il valore dell’arma. Se interpellare gli altri assi, che non proferivano parole ma si facevano capire, una parlata drogante d’oracoli. Forse con loro avrebbero perfezionato una certa altra arma, ancor più potente, da spazzar via tutto ciò che un nemico possiede e rappresenta. Si rivolsero a chi tra la folla di inesauribili numeri sapesse interpretare gli strani linguaggi, per meglio confabulare di sterminio. A tutto questo cercavano di fuggire le orecchie del principe, di non ascoltare, e di trascinare con sé l’altro singolo paio di orecchie per le quali quegli argomenti sarebbero anche potuti morire.

-ma sentili! Dico, che chiacchiera demente: “il nemico ha una bella bandiera, ma la nostra..”-soffiò da far paura, uno scorpione infastidito, così forte quasi da sollevare il fazzoletto -discutono davvero di quanto siano belli gli stemmi. Se ci sta meglio l’azzurro, o il rosso il bianco e il nero.

-sì?-, fa lei, noncurante.

-su, andiamocene.

-ma stiamo andando…

-allontaniamoci ancora, dico.

Giungono a ridosso di una discesetta, in fondo alla quale sta un ufficio a trullo, una dogana di pietra tra i pascoli. Tra arbusti e cipressi attorno alla stradina che macchiava dall’uscio alla salita da cui erano venuti, passeggiavano con stizza lenta di reclusi che assomigliano alle caverne in cui abitano. Qualche formica soldato, qualche spiritello, si affrettavano ancora da quella zona un po’ discosta, per dirigersi al “centro” dove davvero accadevano le cose. Un uomo palustre vestito di nutria, gobbo e dalle braccia lunghe, correva anche lui portando una specie di clava. Rallenta un po’, si volta a metà. Lui e la dama sembrano fissarsi, ma sono soltanto pochi secondi. Il selvaggio è già ripartito, fra poco sarà al corrente di manovre d’assalto in cui vedrà la sua gente concludersi in torme rimpiazzabili d’ossa contuse e ricordi cancellati. Segue con lo sguardo la rozza figura fin su il sentiero serpeggiante, al culmine dov’è lo stendardo superbo: la voce esagerata del capo si sente ancora, i gracchi striduli della Madre punteggiano a volte il discorso come un presagio da cimitero. Forse, da lassù, li vedono ancora. Per l’adunata è stato scelto un fondale in cui tutta la scena è sempre sotto il controllo dei principali propugnatori, un reame tascabile per l’occhio.

-sentitelo ruggire, sentitelo! è lui che lo vuole…

Sembra che dica così il sovrano fanfarone quando esibisce i suoi anelli ai vari astanti, quasi spargendo pugni in faccia (come a dire che siano stati questi a ruggire…). Il principe in parte non sbaglia: è in effetti un caos, un ronzio irrazionale come bolgia di belve a governare l’acquitrino. Perciò si ribella ai regni e le battaglie che non gli concedono di andarsene libero e cinico sopra le pozzanghere e tra gli sciami roboanti. In questo gli manca la capacità di rendersi conto che possa essere proprio quello stesso mostro di disordine a desiderare la messa in scena, la bandiera e la patria, per un suo recondito scopo che non può esser letto. Chi porta gli anelli su ciascun dito al contrario ne è informato. Non capirebbe lo scopo -non è cosa che umani capiscano-, ma tanto è un tipo che non farebbe mai domande a chi gli sta offrendo qualcosa. E a sua volta offre, come sovrano e giullare insieme, come principale intrattenitore degli accorsi. Parla di potenza bellica.

-se lo sanno fare? Certo, i miei soldati... sì, sì che sono sicuro, sarebbe ridicolo se non lo fossi. Hanno a disposizione questa attrezzatura, e possono eseguire quello che…

Anche voltandosi la coda dell’occhio coglieva l’ombra d’un gesticolare più mercantesco che militare, a suo modo molto politico.

-vorrei tanto un bel temporale.

-mh.

-e una sigaretta, ma con questo fazzolettone in faccia è difficile fumare.

-puoi togliertelo.

Il principe rude scatta a guardarla. Si percepisce la faccia sbalordita.

-hahahahahah…-, fa subito una delle sue risate squilibrate rispetto alla norma, che a ogni discorso colloca con parsimonia in un punto adatto. Inquieto come un fumatore senza scopo dava spallate e calciava il terreno e girava, la dama invece non faceva storie. Era solo mesta, della mestizia più soffocante e perfetta. Scendeva ondulando dalla lunga treccia fulva, confluiva nei drappi strasciconi della larga campana merlettata del vestito color panna. Sembrava indossarlo come un pezzo d’anatomia, industrialmente impiantatole al momento dell’assemblamento del suo essere, senza che entrassero in ciò la scelta o il gusto. E risalendo dal petto stretto, fitto di respiri mozzi, si incontravano un busto e volto sbiaditi da un polverio bruno inesistente, come se su lei permanesse l’impronta di un velo a lutto o d’una fotografia destinata alla vecchiaia. L’espressione non tradiva l’impressione: non c’erano intromissioni di gioia o serenità nel lineare incavo tra guancia e pallide labbra. Era un’intagliatura facciale come nobili e precisi cassetti di credenze nobiliari, dove la polvere si accumula e dà lustro. Nelle giornate tediose della villa, trascorse infinite insieme a uggiosi groppi in gola e un prurito allergico nel naso, compariva a volte un languore a ricordare il tempo in cui il concetto di arredamento le era del tutto sconosciuto. Strappata a pareti di fango dalla prepotenza, collocata lì come merce bella all’occhio di un barone o signorotto, rifatta su misura; non suoi i putti orinanti del giardino, fontanelle di pietra, non sue le cascatelle e le rampicanti carezzevoli su perlacei gazebi: conosceva ben altro comportamento di acqua e di vegetazione, lei. Nel fosco alone della testa, ancora qualche ciocca rossiccia spuntava a vagheggiare un’infanzia di campagna, tra graffi di pagliuzze su candide caviglie e sciami alzati in volo da un balzellare campestre. Ma altre tracce di quel passato erano scomparse dall’umore e i gesti, represse forse oltre il punto dell’oblio irrecuperabile. Di là dalle siepi come recinto, vide un giorno aggirarsi randagio un uomo dai colori d’inferno che mai mostrava una faccia che nessuno sapeva definire tra timida o diabolica. Sembrava seccato dalla villa, dai muri bianchi. Inveiva silenzioso ma violento con la sua sola presenza, guardie e cani cominciavano ad accorrere, di lì a poco le voci svelte a recitare “è meglio stare lontani da quello lì”, “lo chiamano principe ma non è nessuno e ti porterà via”. Se i due fossero stati più romantici, si sarebbe potuto dire che da quel fugace incontro nacque subito un’intesa. Si accontentavano tra sé di pensare d’aver trovato qualcuno con cui poter sfogare un’inspiegabile rabbia d’esistere. Lei restando in silenzio, lui con sbalzi d’umore, trasformista notturno di palude.

-neanche si può fumare in pace, di giorno all’aperto. Voglio vedere se proibiscono anche alla palude di fumare, voglio vederli tentare e crepare di malaria nel tentativo.

(nessun uomo potrà mai assomigliare alla palude, mio principe di disperazione, pensa lei)

-con una pipa forse ci riuscirei, dannazione. C’era uno che ho incontrato una volta, venne da me al ripostiglio degli attrezzi, che…

-sst. Aspetta.

Il principe inspirò bruscamente, risucchiandosi un po’ in dentro il velo, sorpreso dalla rara interruzione.

-sta scendendo qualcuno… e gli vengono dietro.

-ci mancava questa. Ah, giusto, parlavano di soldati. Carcasse da consegnare alla carneficina. E vengono a cercare me, maledetti…

Dalla collina veniva giù un giovane basso e paffuto con indosso una lorica incastonata di gemme. Montava su un pony. Dietro, più a monte, tutto un corteo di esaminatori guidato dai discorsi del capo. L’occhio d’oro mandava dritto alla faccia nulla del famigerato anarchico un fermo rimprovero, mentre il resto della faccia continuava a contorcersi deforme in vanto d’affabilità e padronanza della situazione. Il principe era poco apprezzato, e qualcosa del suo comportamento incorreggibile doveva aver messo il boss in una posizione davvero imbarazzante, per indurlo a un’occhiata così feroce. Ciarlava nel frattempo per distrarre Madre Dusra che fingeva d’ascoltare, discendente dalla cima come un’ombra dalle ali ingombranti. Faceva da scorta l’uomo-macchina alato indifferente al mondo. Non erano affatto interessati alla problematica che doveva esser stata sollevata riguardo al principe, evidentemente una questione di formalità che poteva importare solo ai sovrani di terra.

-scusi!-, salutò il giovane combattente quando fu a una ventina di metri dai due emarginati -è lei quello che chiamano “principe rude”?

Domanda retorica. Il principe rude non rispose, invece si volse appena verso il pony. Una smorfia di disprezzo trafisse il velo, come se mal sopportasse l’odore o l’aspetto della docile bestia. Tornò al suo montatore e comunque non rispose, tenendo fede alla nomea. Nella mente del giovane, che si sforzava di guardare “in faccia” dove era il panno nero, si impressero ardentemente due fiamme dure circondate di foschia. Ne ebbe soggezione.

-beh, ecco, il sire si chiedeva…

-mph. Lo chiamate pure così adesso.

-... si chiedeva, ah, visto che lei dovrebbe essere il cavaliere, ecco, dove fosse il suo cavallo.

“dovrebbe essere il cavaliere”. Cristo, pensava il principe, questi non hanno idea di come conviene trattare con me. Vide ancora il cattivo occhio d’oro del “sire”. Dunque era questo: una figuraccia, perché nello sfoggio di risorse mancava all’appello un cavallo, che doveva appartenere a un campione di vittoria e strage (una carta potente, dal valore: 9 …). Ghignò il viso nascosto, lampeggiarono di malizia le fiammelle.

-cavallo? Non ce l’ho, il cavallo. è morto, vedi.

-ah… beh, mi dispiace.

-già, già. Era un bel cavallo, sai? Te lo descrivo: tutto nero, o grigio scuro magari, bello muscoloso e dal ventre tondo, nessun quadrupede lo eguagliava in stazza e forza. Aveva due dita per zoccolo, una coda nervosa con in cima un ciuffo foltissimo. Quando faceva i bagni nel fango si divertiva a far uscire il muso e sbuffare dalle grandi froge. Ma la cosa più bella erano le sue corna, lunghe, ricurve, ai lati della testa. Un magnifico esemplare, sì, peccato che è morto, come dici tu.

Silenzio. Rotto da una frazione di risata, simile a uno starnuto esagerato.

-sentissi che puzza quando è morto, però. Odorava di mosche marce e mozzarelle torride.

Intorno al “sire” si levarono commenti di attendenti ben foggiati, gente a cavallo o con nobili spade. “Mi sta dicendo che i suoi uomini d’arme adoperano i bufali d’acqua come cavalcatura?”, oppure si chiedevano se scherzasse, e in tal caso non era decoroso, e così via.

-chi, quello là? Uno dei miei uomini? Si sbagliano, i signori: vedete, quello è solo un brigante, un predone che si acquatta nei boschi e presso gli stagni, uno senza legge che per puro divertimento si infila come infida biscia tra le mie fila, a minare il morale alle truppe e incretinirle con idee senza buonsenso. E ora che ha fatto la sua scenetta, andiamocene, per favore, che non lo voglio vedere.

E il corteo riprese a risalire, esaminando altre cose. Dicevano che gli esperti di linguaggio avevano pronta una traduzione, profezie invero straordinarie sulla battaglia. Oppure chiedevano alla Madre le cose che aveva avvistato nelle ricognizioni nel cielo, di descrivere gli enormi carri da battaglia del nemico che avanzava da nord, i pantzer, coventrieren, l’ideale luminoso e spietato. E tutti ascoltavano le cose misteriose e morbose della guerra, il sire le accoglieva, come chiacchiera mondana, incitava il decantarle. Inosservato nel gran gesticolare teatrale tornava indietro l’occhio d’oro, che voleva dire: le mie mani ti prenderanno più tardi, e non mi scapperai, non sarai più libero. Il principe annuiva soddisfatto. Passata quella seccatura, lui e la dama presero il sentiero laddove ricompariva oltre quella specie di “trullo-dogana”, l’ufficio lasciato vuoto. Non si incontrava più gente trafelata verso l’adunata, gli sparuti cipressetti cominciavano a mutarsi in querce sempre più frequenti, verso un bosco adiacente al crepuscolo sull’orizzonte, ai bordi del mondo.

..


A volte conversano, le carte fuori dal mazzo, annoiate. Ecco, sono di nuovo qui a guardare: mi sembra che l’aria sia cambiata. Non più quel giorno senza secondi, quel perenne mattino che potrebbe anche essere meriggio, che si apre al “c’era una volta” presagendo un castello: ora il campo si apriva in pozze zanzarose e rizzava roveti, l’aria si riempiva dei violetti e carboncini soffusi tendenti alla scena di cappuccetto nel ventre della selva. Era la calma prima del ratto, i grilli in anticipo e gli uccelli che tornano ai nidi.

-di te non hanno nemmeno chiesto.

-sanno che se chiedono non rispondo.

-già. Per questo sei così bella, Marica.

Si fermò. Più bassa del principe, alzò il collo, come cercasse di sbirciare sotto l’inganno. Era decisa, più immobile del tempo in fondo a una fossa acquosa. Anche lui era fermo. Sorprendentemente, sembrava triste.

-così anche tu lo pensi.

-che sei bella, Marica? Sì, io…

-non è neanche il mio vero nome, lo sai.

-ma ti si addice.

-non mi si addice nulla, neanche la bellezza. Mi ha portato solo prigionia.

-e mi piace questa tua giusta insofferenza, tu che come me eri della palude, noi che…

-io e te non siamo simili, principe. Per questo non possiamo incamminarci insieme.

(Mi sembra di essermi avvicinato. Li vedo più vicini al centro del sentiero. L’aria si sta facendo man mano più scura, piena di chine. A breve l’ombra la ricoprirà tutta, facendo scomparire i due soli interpreti rimasti? Scena del dramma.)

-non lo capisci? Io, la mia triste storia, il clan che non vedrò più, apparteniamo a un futuro che tu già aborrisci. Non smetti mai di ripetere quanto ti piaccia restartene nel tuo passato, il tuo tempo di briganti dove puoi fuggire nei canneti, attendere in covi nella palude e prendere in giro pellegrini sperduti, farti sparlare alle spalle dagli altri girovaghi per gusto di essere al centro d’una leggenda di spettri. Quello è un altro mondo dal mio, nel mio sono già venuti i costruttori.

Marica, la dama di palude, voleva essere definitiva, doveva distribuire le parole che tanto spesso aveva affogato. Lui, sorpreso, mi pareva solo un ragazzo col volto coperto.

-io, proprio perché sono un brigante e un viaggiatore, finché sto tra le paludi posso andarmene libero lungo il tempo come voglio…

-non puoi, principe rude. Devi fare una scelta. Senza di me nel passato recluso, lusso della sola propria compagnia e di quella dei fuochi fatui. E se con me, e non vedo perché dovresti fare questa rinuncia, allora dovrai entrare e rimanere nel tempo in cui dovrai combattere con i prepotenti che qui vorranno costruire. E soccombere, perché è l’unico esito. Presero me, che ero cacciatrice, tiravo con l’arco agli uccelli d’acqua. Mi hanno in catene, senza volontà. Soccombere e accettarlo, accettare di fare un altro tipo di vita, che quella tua ideale non è più adatta al tempo che verrà.

-mi stai dicendo di andare a fare la guerra, proprio come quelli là? Con quelle bandiere e quei lustri, quella tremenda uccellaccia e il suo golem, quell’albero pazzo, quel porco…

-non ti sto dicendo niente. Tu secondo me appartieni al tuo tempo e basta così. Dimenticati di me.

(Li ho a pochi centimetri, come se fossi nei cespugli. Il paesaggio è scomparso, ristretto agli immediati contorni dei due, così ravvicinati nella performance conclusiva. Un fruscio li allarma. Si guardano intorno, vogliono scappare. Come consapevole di dover sparire presto, il principe rude affretta le azioni, afferra la collottola di Marica con le gambe già pronte allo scatto per la loro direzione.)

-Marica… come ti chiamavi prima?

-domanda sprecata. La mia gente non parla una lingua che qualcuno possa…

(Altro fruscio, stavolta sono davvero spaventati. Li sento frugare nella mia direzione, ma no, non può mica essere che…)

-che cos’è? L’hai sentito?

(si voltano nella mia direzione, mi sento osservato. Ma non mi vedono mica, non…)

-chi cazzo sei tu?!?

...io? (Davvero? Mi vedono? Cerco di guardarmi, ma come nel mondo delle formiche si vede solo il buio, perciò non so dire se in qualche modo sono finito dentro il cespuglio sul ciglio della strada, se ci separa uno schermo, o un’altra cosa impensabile in una perversione di spaziotempo. Lei è sconvolta. La sua faccia di solito non lascia liberi i nervi, ballano inebriati sotto la pelle. Come avesse rivisto un mostro dell’infanzia che credeva estinto, un folletto selvatico di incubi dimenticati. Ciò che della vecchia vita non rimpiangeva. Lui pare furibondo. Percepisco le espressioni nettamente nell’assenza di viso, proprio come si dice.)

-da quanto ci spii? Cosa vuoi? Sei con quelli?!?

-io me ne vado…

-aspetta, ma tu… io ti ho già visto. Che diavolo succede?!?

-io me ne vado, vado!

(Marica fugge via, senza aggiungere altro, con voce di conato. Scompare nel buio, uscita di scena. Il cerchio si restringe, pochissime cose intorno al principe rimangono visibili nella notte rurale, finché ci siamo solo io e lui nel buio. In piedi, mi percepisco in piedi senza vedermi, faccia a faccia con lui. Non ha più il velo, è il lui solito, che agisce col favore della penombra, lasciando che sia essa ad ammantarlo. Sento le intenzioni in quella massa nera, il bagliore di due spilli notturni, la minaccia in fondo al tunnel.)

-io ti ho incontrato già. Sbaglio?

-non so…

-non c’è dubbio. Ti eri perso. Come hai fatto a sopravvivere alle zanzare?

(sono confuso. Il rosso della veste si mescola al nero dei guanti e il mantello, l’immagine vortica -stai diventando un diagramma anche tu, principe! Mi sta girando la testa, sto stramazzando. Si alza su di me, sporge il braccio, “aspetta!”, ma è solo la figura di un sogno che agisce casualmente e non deve comunicarmi niente davvero, soltanto rimane a incubare presagi in un’anticamera del cranio. Mi riassorbo nella coscienza in stato d’abbandono, sparisce tutto, non vedo più niente. Mi fa malissimo la testa.)



Devo essermi addormentato di nuovo sul divano di mia nonna, perché quello che vedo pare proprio il mondo delle formiche. Chissà, se proseguo uscirò di nuovo dalla vasca da bagno. Appizzo le orecchie: illuso di trovarmi davvero in un luogo fisico nell’appartamento, cerco di cogliere i rondoni fuori dalle finestre, il loro stridio che trapassa tutto; o magari il rosario delle sei, un Salve Regina. Niente. Riprendo il sentiero lucente, dotato d’anima. Cammino cammino, non c’è altro che il cammino, ma niente formiche stavolta. E neanche un riquadro orizzontale. Vedo lucente d’anima un parallelepipedo, una cosa eretta nella distanza come un monumento. Ha qualcosa di tremendamente familiare, come una sagoma immobile di grattacielo svettante in un paesaggio ben conosciuto. E affianco una poltiglia, sembrerebbe, una roba sparpagliata a terra. Cammino cammino. Arrivo. Ora, per la prima volta nel mondo delle formiche, le cose riprendono il colore. No, non è esatto: mi ricordo che era successo già con il principe, io e lui da soli, e lui aveva il suo rosso e il suo nero. Un enorme pilastro trapassa il suolo nero, che nella mia mente si riempie di crepe. Forse tronco d’albero, la sua materia è sia legno che metallo, ruvida e dura, scavata da incisioni del tempo che forse a contarle rivelano l’età; ma bianche tubature anellate s’attorcigliano tutt’intorno al fusto, da radici a punta intagliata, intestini larvali messi a tribolare all’esterno. Pulsano, infatti, fanno condensa. L’enorme tronco, o fallo, suda, sgorga acquetta calda dalla punta, manda vapori dappertutto, dai tubi e dalle crepe della sua pseudo-corteccia. Al movimento di tali sostanze si modifica il pigmento, i rossori variano, è un tripudio di linfe e veleni, seminatore di vita e morte. Mi accorgo che è questo il modo in cui parla. E accanto un tesoro, un mucchio di calici preziosi d’oro e smeraldi e argento e quarzi, di collane e anelli, di forzieri e ancora calici, di oggetti usciti da mani elfiche e che per gli incanti di razze estinte sanno ragionare con un solo cervello. Si muove lento, ha le grinfie, draconiche. Respira come la terra, questo mucchio, che s’alza e s’abbassa e scintilla; potrebbe concentrare i suoi lembi a formare due arti artigliati, usarli per arrancare sul fondo d’una caverna, protegge se stesso. Nasconde un vuoto, un buco nero. Parlano, li sento parlare, in questo posto -casa di nonna, chi l’avrebbe detto?- posso capirne il linguaggio assurdo, di sbuffi e bagliori, di linfa eruttata bollente e storie incise su vessilli.

-e il più grande e orgoglioso dei guerrieri della patria…

-il più grande e orgoglioso dei guerrieri della patria, che uccise il diavolo…

-il più grande e orgoglioso dei guerrieri della patria, che era il maggiore guerriero alato…

-sì, comandante di immense legioni…

-...divenne, oltre che alato, il portatore della spada. Era il guerriero delle ali e della spada.

-lei, la Madre, conosceva l’arma del nidiaceo giunto a compimento. Si incontrarono le due nature.

-e spiegò le ali, come avevamo predetto loro, e sollevò la spada, per incontrare gli Junkers, così li chiamavano, Ju 87…

-Luftwaffe! Hah! La storia è piena di parole buffe.

-e noi gliel’avevamo predetta…

-sì, là sul colle…

-che avrebbero cambiato alleanza, sarebbero andati con quelli che avevano l’arma più forte.

-sì, i Lord del Veleno, il loro sole corrosivo. Divora città intere.

-con loro sarebbero andati, e allora la Luftwaffe avrebbero affrontato, e le croci uncinate marcianti da Carano a Padiglione.

-invasori.

-e la creatura alata si sarebbe sacrificata. Sta sul trespolo crivellata, l’aria passa dove la carne cedette al metallo rovente dei maschinenpistole, sputafuoco. Regge ancora la spada.


Continuano a mandare sbuffi ed esclamazioni sorde, stavolta incomprensibili. Discutono, il loro orologio bloccato ai preparativi di una battaglia che si tennero chissà quando, chissà se per davvero, con i re i cavalieri e le dame e tutto quanto. Indugio, sempre goffo dovunque vado, non si sono proprio curati di me e neanche ci tengo. Faccio per tornare indietro ma mi sembra di udire Andrea, il pendolo che canta. Un’ultima volta, mi avvicino a quel “tesoro”. Provo a guardare attraverso, cerco dei fori. Sotto c’è uno strapiombo senza fondo, sono sul ciglio d’una caduta immensa. Andrea manda i tre rintocchi finali, mi rilassa.



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