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Gli Appunti Del Fango- Battaglie (pt.1)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 set 2020
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 6 set 2020

Se non fossero così frequenti, quegli stridii non sarebbero considerati normali. La gente racconterebbe che corrispondono al trillare stridulo della leggenda, quella che ingigantisce il reale, lo riempie di spettri infiniti. Il grido di un animale insolito, la sua rivendicazione in forma di voce all’interno di un paesaggio dove l’uomo non mette piede. E quel paesaggio finisce per trasformarsi, in parte, nel verso stesso. Le campagne sono un frinire, la savana di notte è un ruggito. Questo cos’è? A quale habitat era destinato uno stridio tanto vibrante e acuto, precipitato velocissimo nel vento? Come le frecce più sottili scoccate dritte alle orecchie. E invece, è normalissimo. Ce ne sono tanti, in questa zona. Le picchiate improvvise non generano più di un sussulto momentaneo, “ah, m’ha fatto prende un colpo!”, subito dimenticato. Ma non sentite? Questo è un suono assurdo, e ci circonda ogni giorno! Il pianto corale di numerosi fantasmi selvatici; oppure, chissà, bombe che precipitano. Armi, suoni che possono uccidere, impattare la carne e modificarla irreversibilmente.


O almeno è così in questa zona. Via Giulio Cesare, la scuola media, probabilmente anche altre parti ma conosco queste. Nel resto della città non mi sembra che siano altrettanto comuni. Conosco zone di balestrucci, o rondinelle. Ce ne sono anche qui. Ma una tale quantità di rondoni che si gettano dalle cime dei palazzi, sfiorando d’un pelo le facce sporte dai balconi… mi sembra quasi assurdo che non venga il mal di testa. Non è questione di abitudine, neanche per me che passo in questa casa molte ore, molto spesso durante la settimana (è il periodo delle medie). Se giungesse un forestiero, totalmente ignaro del quartiere e questa sua caratteristica, non ne uscirebbe sconvolto. Non capirebbe che questi strilli sono devastanti, fatti di parole di un linguaggio disperato. Subito parrebbero integrati al momento, all’ambiente, a tutto ciò che circonda. La città fa questo, abitua automaticamente dovunque fornisca all’occhio che la osserva il suo cemento come saluto, segnale di appartenenza. Un grigiore pallido di lembo di marciapiede, un bianco di pareti, una nuvola che, in maniera strana ma inequivocabile, si palesa come urbana, diversa dalle nuvole di foresta; bastano pochi dettagli del genere, e l’individuo che vaga riconosce. Sa di trovarsi ancora all’interno di quel perimetro, quell’impero. Asservito al cerchio che si chiama città, spesso rassicurato da questo.


E addirittura l’abbiamo rappresentata con questo simbolo. Gli eserciti in marcia sulle collinette erbose sotto il cielo di nubi grigie, la grande città stato di Aprilia alla conquista dell’agro pontino, distendono i propri stendardi così che gli altri popoli di boschetti e paludi ne avvistino l’incombere. Da sotto un tronco marcio, nascondiglio momentaneo, l’indigeno coperto di pelli e strati di fango vede comparire sulla sommità dell’altura di Buon Riposo uno scudo azzurro con cinque uccelli neri. Sono rondinelle forse, oppure proprio i rondoni che gridano più selvaggi che mai. Sono il protettore alato dell’aborigeno, oppure del soldato conquistatore? E se su questo territorio si dovrà combattere ancora, scenderanno in picchiata a schierarsi al fianco di quale lato della contesa? Li hanno messi a rappresentare il reame del Fango. Ma la verità è che non si schierano, no, gli stridii disperati sono casualità, neutralità che assume posizioni solo perché trascinata da altro. Ai rondoni non importa altro che di precipitare. Il loro scopo e gioia è solo quel momento di brivido, fulmineo ma in cui il tempo ha una febbre millenaria e si arresta per permettere al cervello dell’uccello di inebriarsi nell’incertezza della caduta: ce la farà, a risalire immediatamente, a compiere la sua prodigiosa curva acrobatica? Oppure sarà un velivolo per sempre strappato all’aria, incapace di rialzarsi, goffo? Chiaro che fischino in un modo tanto straziato. Ho visto quello sconforto senza speranza, dal balcone di nonna, quando il condominio economico di fronte era solo un progetto rimasto incompiuto per anni, uno strato bianco con quattro pilastri. Accanto a uno di questi cadde un esemplare fulvo, arrancò con le ali troppo grandi, dai muscoli inadatti all’elemento della terra, all’asprezza di rocce inclementi. In un attimo vidi attraverso le piume e la pelle, ossa giallastre, ciò che sarebbe stato. Nessuno poteva salvarlo.


Per sempre assocerò, in parte, quella zona a un sentimento di tedio come aria viziata. Trovavo che il chiarore della città si facesse eccessivo, ne ero circondato dappertutto, e per il mio gusto mal si accordava al cielo. Tutto imprigionato all’interno di uno stesso giorno. Ciò significava che quei rondoni erano destinati a gettarsi da nidi modesti, lungo mediocri pareti, e a morire per terra ogni volta su un pavimento che non sarebbe mai stato costruito (come si credeva allora), all’infinito. Da un altro lato il campo incolto di fianco al parcheggio della scuola, dove spesso si vedevano i gatti in agguato. Li osservavo, e li avrei osservati più a lungo, se in quel tempo la vista della facciata della scuola che mi osservava non mi avesse invogliato a distogliermi. Avevo poco da fare. E irrompeva all’improvviso, quando tutti se ne erano dimenticati, la canzone dell’orologio del salotto. Mia nonna lo chiama Andrea. Il turbinio inesorabile dei granelli di polvere pomeridiani era trafitto da una melodia anziana che ricordava il passaggio del tempo. E le ultime note dei placidi enunciati di Andrea si sospendevano, la stessa nota, lanciata come rintocchi di campana distanti tre, quattro volte, cerchi concentrici sulla superficie dell’acqua. Quella sospensione, quei tre puntini alla fine del discorso, poi sbiaditi per preludere al prossimo silenzio infinito colmo di nulla, sembravano suggerire che in fondo il tempo esisteva. Che ci sarebbe stato altro, che non era una prigione della mente. Esisteva nel mondo una linea lungo la quale si accasciavano, sfiniti, gli eventi, uno dopo l’altro. E c’erano tanti altri ancora a venire. Si vedeva l’infinità, il cosmo, per pochi secondi in tutta una giornata. Per il resto no, tutto aveva una sola dimensione. Un gigantesco punto. Ringrazio Andrea e mi riaffaccio alla finestra della sala, ma no, la città è troppo accecante, gli stridii troppo angosciosi. E le piante -all’esterno come all’interno- mi sembrano finte. So che non è così e chiedo loro scusa. Ma che posso farci? Deve esserci stata una grossa morte su questo territorio, uno scontro sprofondato nel fango, padrone d’ingordigia che tutto trattiene per sé e non dimentica nulla. Oppure in tempi più recenti il fluttuare di tanti rimpianti di una famiglia, che ancora aleggiano tra le pareti, le orme incorporee di chi è trascorso e di chi ha per sempre lasciato una sua forma passata, che qui si muoveva nella carne e le ossa. Tali ectoplasmi si infilano nelle nostre ombre sul pavimento di marmo e influenzano le sensazioni.


Proviene una nenia dietro una porta chiusa in fondo a un corridoio e davanti a un rosario su TV 2000, uguale in giorni sempre uguali. Il sole è accanito sul pavimento di marmo. Sul tavolo qui presente molto spesso ho giocato a carte con mia sorella. Non sopportavo le carte ma ancor più pativo quelle strane sensazioni del posto. I due giochi più stupidi, Assopigliatutto e “Battaglia” perché solo le forme più semplici e basilari possono giungere in soccorso alla mente persa in un nebbione (una delle numerosissime nuvole grigie dell’inverno apriliano mi si è infilata direttamente in testa). “Battaglia” però è un gioco interessante. Si incontrano sulla loro via le carte e si fronteggiano, vince quella che porta il valore più alto, disposta lì dal caso del rimescolio del mazzo, che decide se vive o muore. Una guerra quadratissima, i componenti delle linee si ritrovano faccia a faccia, a chi affonda per primo la lama nell’altro. Concluso in un attimo quello scontro, tocca al prossimo, avanza l’altra linea, e così via. La forma di partenza della guerra. La stiamo rimettendo in scena, per meglio capire il presente: quei movimenti inafferrabili nell’aria, imprevedibili; stridii irregolari, folli, allarmi del caos; un eccesso di palazzi e pareti, la desolazione di una costruzione inconclusa, ovvero prodotti e fondamenta di un regno di città-stato, il volere solido di un sovrano (e di un sovrano sotterraneo, Fango che tutto muove sulla superficie)... e ancora altro, il sole che batte e la polvere vorticante che invade le ore e poi viene spaccata dall’incursione aerea del suono, gli sguardi truci della scuola e le trincee dei gatti nelle erbacce, piene di rifiuti piombati dall’alto -finestre di preadolescenti a ricreazione. Tutto questo è un’evoluzione della Battaglia, una complicazione dovuta al trascorrere del tempo. Ma, in effetti, dietro tutto questo si nascondono regole semplici e figure semplici: un re, un fante a cavallo, una dama, quattro fazioni; un mito fondante per ogni fazione, un emissario della propria speranza (un “asso”). Dove sono? Vado ad affacciarmi ancora una volta, perché tanto non c’è altro da fare. E a volte, dovevo ammettere anche allora, si vedevano dei bei tramonti. Si concludeva la battaglia, rimaneva il campo dove la vita e la morte scambiavano chiacchiere di fine giornata. Tanfo decomposto beccato da uccelli, erba smossa nel crepuscolo calmo.



Lasciarsi prendere dal sonno in questo posto è una caduta in un precipizio di confusione. Non sono abituato a dormire nel pomeriggio, ho un rapporto policefalo con la noia che si ingrossa. Che tipo di risposta è il sonno? Una fuga, o una trappola che conduce a un altro aspetto del tedio ancor più aspro?

Un sussurro da dietro le ombre, dietro i vasi, sotto i mobili: attento, piccolo osservatore, attento.

Attento. Quindi se questo sonno sconosciuto, sospetto, straniero, si avvicina spontaneamente, i miei sensi e istinti si predispongono ad allontanarlo. Lo scacciano come la mosca del deserto che inietta l’oblio nel sangue degli intrusi. Non deve prendermi. Sento i battiti degli ingranaggi di Andrea, sento i colpi dell’appartamento, una sacca nell’organismo del palazzo, piena di cose molli e umide -umani che respirano, l’acqua che scorre dietro le superfici dure perché questi la vogliono sempre irrorata tutt’attorno a loro, battesimi periodici; un verde addomesticato, creature più piccole che zampettano furtive, sciocchi sentimenti volanti. Sento pulsazioni dure nelle tempie, bussare sul cranio di chi vuole entrare non invitato. Un assembramento di grumi di sangue contro le pareti, per proteggere, per mandare in missione in tutto il corpo una necessaria sensazione di fastidio, che avvisa: tu, qui e ora, sperduto in un luogo noto, sei una contraddizione.

Attento.

Tamburi delle tempie mi conducono, sono accompagnato attraverso un vuoto indistinto per arrivare lungo una strada buia. Sto procedendo oltre la soglia, assomiglia, non lo nego, a una palpebra che cala, che finisce serrando una cerniera pelosa di ciglia incrociate. Mi volto: e nessun segno del passaggio, non c’è mai stato, la strada più chiara nel nero totale continua sia avanti che dietro. L’uscita, se la si vuole cercare, la si cerca da un’altra parte.

Non c’è che il cammino. Non importa per quanto prosegua. Prima o poi, appare qualcosa. Sembrano tante lucette ambulanti, minuscole. Mi chino: sono basse, poco sporgenti rispetto al pavimento piatto. Brulicano in fila indiana, tantissime. Formiche. Non sono davvero luminose, come non lo è nemmeno la strada. è solo che in questo abisso nero, qualsiasi altra cosa che da esso si distingua, che abbia contorni che custodiscono arbitrio, rifulge di un fievolissimo bagliore peculiare. Deve essere l’anima, o l’individualità, forse. Dunque anche la strada ne possiede una. Le formiche però si allontanano da questa. Sembrano fluttuare sul vuoto al di fuori del sentiero, tante lucette bianche che formano una deviazione vivente. In realtà, anche questa oscurità ha un pavimento, regolare e liscissimo come quello del sentiero principale, o forse si dota di un pavimento dal momento in cui qualcuno decide di camminare fuori dal battuto. Posso anch’io. Seguo le formiche, ma… Non vedo il mio corpo, lo intuisco dal tatto degli organi interni. È enorme rispetto a loro, ingombrante, temo di schiacciarle. Come faccio a seguirle?

-ehm, scusate, formichine. Come, come faccio, a, a seguirvi?-, interloquisco. Non rispondono, non è nella loro mentalità. Rispondere è quasi maleducazione, per il formicaio. Devo arrivarci da solo. Dopo qualche tentativo (spero di non averne schiacciata nessuna… che succede, rimangono delle lucette spiaccicate, per sempre immobili, oppure la lucetta si spegne?), mi metto a gattonare di fianco alla linea, io scoordinato, atrofizzato, cieco nell’ombra, loro precise e determinate a un fondo che solo loro conoscono. Hanno padronanza di gallerie sotterranee e cunicoli, e anche fuori sanno ammaestrare ciò che calpestano alla stessa disciplina che le informa. Acido formico che si sparge, inosservato, dalle zampette. Odori fortissimi nel mondo piccolo, inesistenti per la fauna cicciona. Questo buio tutto uguale, dove non c’è proprio nulla, assomiglia tanto al pianeta Terra.

Da dietro i bulbi oculari fino ai tubi nelle orecchie, fuori dalle narici col fiato espirato, soffiano avanti e indietro venticelli di parole udite durante la giornata, corrotte e modificate dal passaggio attraverso il buio. Cambia la forma anche delle cicatrici che lasciano.

prestami la

no per favore non

prestami la gomma per fav

a te ricorriamo, esuli

odio quando, quando

prestami la gomma vaffanc

ti odio vaffanc caz froc pippe tante pippe

a te ricorriamo, esuli, sì, esuli, valle di lacrime

valle di lacrime facili, io, sono io sono io.

se non mi presti la gomma, la squadra, la gomma, froc, te lo metto al

teschio, chiama il teschio (valle di lacrime…), coglione di mer

mi hai fatto male testa di c di testa mer

sono belle le svastiche oggi non vado in pisc

asso di uccelli, panza bianca!

lacrime facili, io, sono io

attento, piccolo osserv camminatore, attento, piccolo . . ..

Attento, piccolo osservatore. Ho l’impressione, distorta, che siano state proprio le formiche a dirmelo. Così, durante una passeggiata, una ricognizione sotto i piccoli spazi d’ombra della casa. Però che vuol dire? Potrebbe significare che devo stare attento, cioè a non seguirle, oppure a seguirle e fare attenzione lungo lo stesso percorso che loro devono seguire, perché lo conoscono e sanno cosa attende. Ma no, ma no, non è così: le voci, non si sa di chi, mi avvertivano di non farmi prendere dal sonno. Non ho ancora capito se è troppo tardi, ma posso solo andare avanti.

Non c’è che il cammino. Il gattonare. Non importa per quanto prosegua, prima o poi accade qualcosa, si presenta una luce. Solo questo: non si sono incontrati ostacoli lungo il percorso. Questa strada non è abitata da storie, non ci sono il pastore e il lupo selvaggio, non il brigante e la foresta, nemmeno la notte e il giorno. Solo una strada tanto lontana dietro che fende il tutto, e delle formiche, e io. E ora, l’orizzonte, una luce lontana, una forma di conclusione -almeno, della missione delle formiche. Si capisce che si ficcano in quella linea chiara, in quel rettangolo che si fa sempre più grosso. Escono da là e hanno finito. Là fuori poi è un’altra storia, ci sarà pure un altro obiettivo. Appoggio i palmi e le ginocchia su un’incommensurabile assenza di risposte o vere domande. È curioso come, anche su una superficie del genere, la pelle sudaticcia delle mani si stacchi e riattacchi ogni volta con quella sensazione leggermente fastidiosa di appiccicume. Mi accorgo che il mio corpo sembra rimpicciolito, diciamo un quadrupede nato da poche ore.

Il riquadro si fa visibile. Ha i contorni regolari, che strano. Forse in questo mondo le cose che nascono naturalmente hanno un perimetro perfetto, smussato da una matematica diluita nell’aria. Oppure l’ha costruito qualcuno… e che, ci sono abitanti, qui? Comunque le formiche lo conoscono, non c’è dubbio. Guardale, come proseguono a testa bassa, convinte! Mi sembra di udire un rumorino: fiùp, fuori una; fiùp, fuori la prossima; fiùp, fuori quella dopo. Il lieve biancore di quest’altra soglia ha la stessa consistenza del loro corpo, penetrandolo spariscono. Io non penso, avrò una consistenza diversa, dai. Me ne accorgerei, se fossi diventato come loro nel processo di seguirle, o no…? Non mi sembra di pensare con la mente singola di una tana lasciata lontana ma sempre presente, un cervello terroso che dà senso a tutto. Sono unità minime di corpo vivente, come soldati di una causa ancor più gigantesca del drago più grande, come i pedoni degli scacchi, come, come i numeri. Sono numeri. La parte visibile dell’algebra. Qui è tutto nero, ma loro posso contarle. Uno, due, tre, quattro… certo però che alcune non posso contarle più: sono sparite, o meglio, sono uscite fuori, andate a fare qualcos’altro -sempre per il formicaio. Non è che anch’io ho un formicaio o qualcosa del genere? Mi sono sempre mosso -ho camminato, cercato di scacciare il sonno, gattonato- a comando di un sopra (o un sotto) che impedisce la messa in atto di altre direttive?

(all’improvviso, insieme ai tanti venti nel mio teschio -frasi della giornata, del mese, di anni fa- compare un pensiero che pare nuovo, almeno qui: “Dio”, il capo mio e di quelli come me, vive sottoterra, e non in cielo. Non so dire se invece in cielo ci viva satana. Certo per le formiche, figlie del suolo, quello lassù è un posto di diavoli. La pioggia picchia e inonda, uccelli scendono a beccare il terreno, loro scappano. Cinguettano, cantano: “i’ll drag you to hell or whatever place you believe in”. Alcuni con le ali grosse però cadono, non si alzano più e diventano nuova carne per l’enorme terra. Eccoli, sento ancora i loro stridii, ancora, insieme a tutto il resto, un turbine dai molti pezzi.

kriiiiiiiiiiiii

non scrivere sui banc

sul diario non avevo scr

prendi le altro mazzo, quelle mant

krrriiiiiiiiiiiiiiiii

prima tonde, quadre, graffe

sospiriamo, gementi e

fiùp fiùp

perché non ti metti anche tu a dire il r

i’ll drag you to hell

fiùp fiùp

kkriiiiiiiiiiiiiiii…

basta, non posso continuare a prestare così tanta attenzione ai venti. Attento, mi dico. Stavo facendo qualcosa)

Sto praticamente per attraversare. Per la prima volta da quando ho cominciato, sto un po’ fermo mentre le formiche proseguono. Non si era ancora manifestata questa combinazione, la catena che scorre e io carponi sul posto a guardarle. Continuano, la cosa non sembra disturbarle. E quella in testa alla fila continua a sparire, a venir sostituita. Noto la sorprendente regolarità della distanza l’una dall’altra, l’uguaglianza senza sgarri dei loro movimenti. Potrebbero essere lo stesso fantasma di formica proiettato e ripetuto all’infinito da un congegno illusionistico circense. È così che sono fatti i numeri. E insomma, ora vado a vedere dove vanno. Dapprima di fronte alla fila, mi volto a sinistra verso questo riquadro chiaro, semitrasparente, o bianco, o tutto quanto. Non è grandioso, non è così luminoso, non una luce che squarcia la nebbia di tenebra. È solo là, è visibile, così da non finirci per sbaglio. Ruoto il corpo quadrupede, vado. Qualche passetto sudato appiccicoso, comincio a uscire fuori.


Quando la testa è fuori e il resto del corpo ancora là, non me ne accorgo. Come se chiudessi gli occhi per tutta la durata dell’uscita, potendoli riaprire solo quando si è completamente fuori. Non devono esserci vie di mezzo per questo cancello. Ok, sono fuori, mi accorgo di essere nel mondo dall’inconfondibile coltre che mi avvolge subito, polvere e mancanza. Allora riapro gli occhi. Rannicchiato su me stesso, vedo prima la mia carne, ha di nuovo un colore, e le vesti che la coprono. Poi intorno: ancora bianco, ma stavolta un bianco solido, incastonato in roba dura. Pareti. A lastre. È… il bagno? Mi volto, e c’è la fiancata della vasca da bagno. È questo il rettangolo da cui sono uscito? Ancora inginocchiato a terra, provo a farci passare un braccio, per vedere se affonda come in un fluido, ma niente. Il passaggio è chiuso. Mi accorgo di un solletico spiacevole, appena graffiante, sparge brividi per tutte le vene. Abbasso lo sguardo e… Le formiche! sono tutte qui, tantissime, ma… non stanno più in fila indiana, equidistanti, rigorose. Vengono da sotto la vasca e scattano in cerchi pazzi, schizzano via dappertutto, sfuggono, si scontrano, curvano per non scontrarsi, si scontrano ancora, uno sciame da pavimento, una nuvola bidimensionale. Non più bianche nel nero, marrone scuro sul bianco. Formiche molto piccole, forse non mangiano a sufficienza in questo appartamento. Ricordo: era già successo, quando ero piccolo: si aprì la fiancata della vasca e venne fuori un’ondata di formiche vive, e mi chiesi: cosa diavolo c’è là dietro? E ora sono uscito anch’io da qua. Insomma, è troppo tardi per l’avvertimento, “attento piccolo osservatore”, o magari sono proprio sveglio. Il sonno non mi frega.

-nonna! Ci stanno le formiche!

Mi lascio alle spalle il corridoio con la porta del bagno, quello che ora succede là dentro non fa passaggi attraverso la mia mente, completamente estranea. Mi distacco dal suo destino, è un’esperienza passata. Torno in sala dove lottavo col sonno, mi appoggio a braccia conserte sul davanzale della finestra, il sole aleggia svogliato e una saetta marrone in picchiata mi ombreggia la faccia durante un battito di ciglia. Dove si rifugiano le formiche in casa, se non possono costruire gallerie coi mucchietti di terra rossa? A quale cervello senza sangue e ossigeno rispondono, da quale forma primordiale e sovrana fuoriescono? Da un nulla, nel mezzo della città. Come questi rondoni. Tutte le creature che incontro vivono in una città e per un qualcosa che giace sotto, o sopra, o dietro di essa.


(continua in parte successiva)


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