Gli Appunti Del Fango- arrivederci cielo azzurro
- Milky
- 17 set 2021
- Tempo di lettura: 34 min
Un po’ infastidito, l’uomo si voltò tirandosi dietro coi pantaloni sudati anche lo sgabello da bar, che roteò malfermo facendo perno su una sola gamba. Un torpido nervosismo lo spingeva a girarsi allarmato verso tutte le fonti di frenesia urbana che si susseguivano, particolarmente in un giorno come quello, e calmatosi, risistemato lo sgabello, per un po’ osservò distrattamente la macchina che oltre la vetrata aveva strombazzato e imprecato, echeggiando le bestemmie del pilota all’interno, mentre cercava invano di trovare un parcheggio in Via degli Oleandri. Una frotta di bimbi sgargianti, forse mascherati per una qualche ricorrenza, scorrazzò davanti alla porta, passando oltre come la macchina. Tutto era una voce che all’uomo pareva più alta del necessario in quella domenica affollata ed egli non riusciva a fare ciò che si era riproposto mettendosi chino e riservato su quello sgabello all’angolo, cioè fare ordine tra i propri pensieri; e conturbati dalla vitalità mattiniera di Aprilia, che si sarebbe spenta bruscamente in poche ore lasciando vuote le vie e le finestre con le palpebre chiuse, questi pensieri se ne scivolavano in giù con stizza e delusione di fantasmi ignorati insieme al caffè sorbito distrattamente, mera conferma d’essersi seduto a un bar nel momento che segue la messa più frequentata. Pessimo tempismo, ma era abituato.
Si sporse con un braccio e trascinò laconicamente a sé un fascio di fogli sciupati e d’inchiostro mezzo disciolto, stampato male. La copia di “Latina Oggi” giaceva abbandonata sul bancone, ricordandogli se stesso. Tentò di protrarre questa insolita associazione dicendosi che se nessuno voleva concedergli la pace necessaria a concentrarsi, tanto valeva affidare alle parole sparpagliate da un qualche annoiato articolista compatriota il compito di farlo pensare. Ma come spesso accadeva gli bastava una prima occhiata al giornale per decidere che non ci fosse stampata materia di pensiero. Scorse i titoli e i capoversi come si osservano pesci di un acquario e osservò che sarebbe stato bello se anche in un bar come quello ci fosse stata una bella vaschetta con l’acqua verdognola, e un’anfora rovesciata sul fondale a emettere un flusso ininterrotto di bolle d’aria. Doveva averne vista una in una pasticceria non lontana, sempre una domenica uguale a quella, in cui usciva al mattino e rimaneva a vagare per la città, passeggiate e osservazioni discrete, in cui lui scompariva fuori dal paesaggio, per cercare un modo di recuperare energia, e affrontare la settimana. Lo circondavano come le moltitudini di piccioni del centro le cose innumerevoli risvegliate sotto il sole e le campane di San Michele, tutte portandosi dietro quel rintrono che sorvolava ogni cosa dalla piazza alle quattro direzioni sguscianti dal centro, la parte più antica della città da cui si generava tutto il resto. In un medioevo ipotetico che non c’era mai stato quel suono avrebbe significato i confini del paese, galleggiante in una cornice incolta di foresta, di palude. Ma era una storia diversa e l’uomo, come tanti, ne conosceva il peso, portato in mito famigliare, in abitudini imperiture e ripetute sempre uguali. Tornava spesso agli odori di palude, guerra e sviluppo economico; le esperienze registrate nella carne del cognome erano il solo stimolo che si dava nella città dove nulla accadeva, non sui giornali né nel visibile del centro esposto che nega lo sguardo ai segreti periferici. Intorno al tempo segnato dalle messe si concentravano i movimenti concitati e canterini e affamati dei suoi cittadini, prima d’una quiete presagente qualcosa che mai s’abbatteva sul territorio addormentato, e che giungeva solo in quel tempo di tutta la settimana, a cadenza fissa.
Abbondano analisi su prestazioni atletiche di giocatori, d’un campionato lontano o del Quinto Ricci. Qualcosa gli sfiora i tendaggi rasenti il pavimento della giacca accasciata all’avambraccio, passaggio rossonero e bianconero di bambini e lampeggiare di plastica laminata d’involucri di figurine in mani sollevate. Torna qua, vieni qua, salute, un euro e cinquanta grazie. C’è continuità tra tutto questo e le immagini attaccate al tabellone in legno di sughero di là dal bancone. Sì, continuità con quest’aria arancione. Avvicinandosi progressivamente al centro (se ne poteva accorgere un camminatore come lui che fa dei vagabondaggi attraverso la città la sua occupazione più importante) la luce apriliana assorbe il colore della chiesa e lo rimette in circolo volando sulle vie dai nomi floreali, sulla piazza che si riempie di coriandoli e inseguimenti e bagliori balzanti dall’acqua di fontana alla scultura futurista, sotto il cielo arrestato in un suo momento d’azzurro intenso e privo di nuvole che sembra artificiale, cosicché contenga ed echeggi il tedio della domenica lanciata in un tunnel temporale dove si susseguono infinite domeniche tutte così collegate. Collante di colori atmosferici e di nulla nei passi, nelle parole, nelle menti. Su queste foto scorrono ditate della barista che le prende quando qualcuno fa domande, scorrono le considerazioni calcistiche e quelle sulle vite degli altri, dei parrocchiani e gli altri abituali. Penetrano queste cose nella scena dall’altra parte della pellicola? È strano che sempre in questi posti si vedano il bianco il nero e il grigio di come era la città. Forse proprio perché questo è il centro, da cui poi tutto il resto s’è costruito, appoggiandosi alle spire rifluenti del Fango, forse proprio dall’aria arancione e azzurra e che sinistramente tace nel tedio devono sgusciare, mostrarsi ed evocare ricordi non vissuti, gli altri momenti della storia in rettangoli opachi. Fotografie di guerra, della chiesa che c’era già, del verdenero palustre e boschivo che emerge attraverso l’uniformità incolore dai bordi selvaggi del cemento nascente; pelli sporche di braccianti e coloni, qualche avventore del bar indica un nonno o un parente rivendicando primato di discendenza territoriale. Foto che si trovano appese casualmente in vari locali nei dintorni di Piazza Roma, come se qua fosse l’archivio della memoria che nasce da solo per spontaneità geografica.
Allora l’uomo nota una foto, anche lui perché è legato a ciò che contiene, a quel pezzo di terra che faceva parte del mondo d’allora e che ancora da qualche parte c’è, raggiungibile nelle sue passeggiate. E chiede alla barista, la donna dai capelli grigi ma dal volto giovanile, se per caso non può staccargliela. La custode delle foto. Sei una ninfa apriliana, che esce dall’acqua di palude, tocchi con le dita le ondine e sulla superficie si riflettono passati presenti e futuri? Con la stessa acqua ci fai il caffè.
-questa?-, chiede già staccandola, tono cordiale, perenne sorriso messo a metà tra una piega di cortesia professionale e una piega ironica, bonaria che accetta la giornata. Sono sempre sornione, le entità naturali diurne. Nell’irrazionale sommerso nei meandri della stessa storia che lei maneggia come stampe qualsiasi, deve annidarsi la controparte notturna, quella specie di spettri palustri che quell’uomo appartenente agli osservatori del posto non è mai riuscito a cogliere nelle passeggiate centrali, troppo otturate dal caos dei vivi, e dal tubare dei piccioni e dai clacson, soprattutto.
La foto passa dalla mano di lei a quella di lui, le ditate si mescolano. A resuscitargli l’attenzione sciupata, a farlo uscire dalla riflessione senza però esporsi ai rischi, non è una gloriosa e marziale scena del santo con la spada non ancora trapassato dai fori, né la sua stessa carcassa tutta forata, per sempre segnata dall’avvicendarsi di guerre e dominatori e rancori; non è la piazza vista dall’alto, l’unica cosa costruita con intorno i campi chiazzanti pantani prosciugati, non sono torme di braccianti a cerchio attorno a un duce intento con gli attrezzi alla terra e il torace madido di sudore ed esclamazioni del popolo, ora canti idolatri ora irrevocabili condanne. In altre foto c’è il fattore quasi affogato che sospinge il carro, e la bufala che si rialza emergendo con le gobbe dalle acque nere; ci sono lestre sulle sponde d’un torrente putrido (chissà se erano lucciole, i lumi di quell’ancestrale Via dei Lauri), ce n’è una a colori del monumento agli angloamericani messo per il padre celebre d’un musicista, quasi amico di giovinezza, il primo a dirgli che c’era un muro e che doveva crollare, da un disco che s’era portato sottobraccio uscendo dal Roma-Nettuno e che aveva fatto risuonare tra le mura d’un circolo che non esiste più.
Allora perché ne guardava una in cui non c’era che una catapecchia solitaria su un campo sterposo con due tre eucalipti? Tra tutte la meno guardata, “com’è proprio questa?”, aveva chiesto lei.
E risponde, spiega sbiascicando parole incomplete. Perché quella apparteneva a una storia che lui conosceva, ci stava accasciato dentro un vecchio antenato con le gambe stanche di guerra e marcia giunte fin lì, e lui, con presunzione comune negli osservatori che osservano il passato credendo di vederlo e inebriandosi d’esso, credeva di sentirsi nelle gambe sue quella stessa stanchezza. Nei muscoli erano i motivi che avevano portato una famiglia a stabilirsi in un centro abitato limitrofo, nel nulla che si collegava a tutto. E negli aneddoti, con conseguenze ancora vive, ripetuti a ogni occasione d’incontro, e nei sogni. Aveva visto quella foto altre volte, stampata da altri, stampata nella sua testa, si sentiva lui il suo stesso antenato. Non disse tutto questo.
(avanti, camminatore osservatore. Lei è la custode delle foto. Le saranno state fornite da archivisti, bibliotecari, archeologi del territorio? Senza spiegarle la storia dietro ognuna, magari. Ma lei è meritevole come ninfa protettrice, come nella fantasticheria che ti sei fatto. Certo non puoi spiegarle di esserci stato tu lì, non è pronta a crederci nemmeno se è davvero una ninfa, pur sempre una ninfa barista. Passati troppi anni perché potessi esserci tu, anche senza la data il dopoguerra stilla dalla foto come l’acqua piovana sepolta sotto quel campo. Mezze spiegazioni, sbrigative, “ci lavorarono certi della mia famiglia quando vennero qua dopo la guerra”, ma anche una spiegazione così può dar luogo a una conversazione, un imprevisto nella tua passeggiata. Meglio evitare imprevisti ma forse è anche il caso di dar senso a questi incontri: innumerevoli altre volte le hai parlato, non dicendo nulla più di “un caffè nero”, e “grazie, buona giornata”, instaurando un rapporto nelle reciproche menti soltanto per consuetudine di apparire qui, con una cadenza, con l’arrivo delle scampanate e della tinta abitudinaria del cielo. Lei, protettrice di questi luoghi, dei ruscelletti che qua sbocciavano a ogni temporale, vi vede passare tutti quanti, e con alcuni chiacchiera prima di salutare, sa le vicende, di ieri di domani o di generazioni fa, sa di tutti i nuovi ennesimi supermercati che sorgono qua e là, di quello che il coro pensa del nuovo parroco, conosce almeno trenta persone che lavorano in una farmaceutica. E non è allora forse il caso, ripeto, di dare un senso a questa cosa, a questi grazie e buona giornata, prima di ripartire per la tua strada? Se non altro perché, guardala, potrebbe avere la tua stessa età, che si porta molto meglio, permettimi, dovresti collaudare un sorriso sincero come quello, proprio adatta al suo mestiere. Stessa età, dunque nella carne e memoria inscritte le stesse molteplici facce di Aprilia scomparse o sopravvissute o evolute, avete forse visto gli stessi mutamenti nella città e i suoi campi incolti, traballa in voi come un liquido lacrimoso l’energia sprigionata o sottratta da quel tempo irreversibile con le sue canzoni, le sue cose ed esistenze defunte. E allora lei può aprirsi dei ricordi dai tuoi, ti incalza, ti fa domande, chiede allora come andò quell’impresa, e poi come si sistemarono, guardala, che annuisce e si interessa e stavolta pure il sorriso come la città s’è trasfigurato mostrando i denti, ed è rimasto sincero come prima tra parentesi di fossette e rughe; e intanto corre lungo il bancone e ascolta te e ascolta tutti ed esclama prezzi e lancia saluti a chi esce e aziona macchinette e serve. Ma non si perde nulla, creatura integrata all’ambiente. E all’improvviso una cosa che non ti succede mai, guardati, come ti viene voglia di ricompensarla aggiungendo altro agli spicci lasciati sul posacenere. Quindi rispondi, ammansito, e ricordi anche tu ciò che hai visto nei sogni e dagli aneddoti, dalla foto; sparisce pian piano Aprilia oggi, con la gente uscita dalla messa e le partite imminenti che cercano di cancellare il silenzio anch’esso imminente, sparisce la domenica soleggiata tiepida e cerchi, per quanto concesso dal riassunto che fai senza troppo rivelare, di condurla con te in un altro tempo, dov’è la storia passata, dov’è l’irrazionale, dov’è la palude scura, con un uomo come te stanco e pensoso che l’attraversa, disperso...)
…
Mi sembra d’aver sentito chiamare una voce. Come una specie di lamento di donna. Certo, non è possibile. Veniva da questa specie di prateria aperta. Sono uscito dalla boscaglia e nessun rantolo di foresta o bestia o donna fantasma che sia m’insegue da dietro. Sono seguito sì da “qualcosa”, a parte l’ombra. Ma se ci fosse una donna, su questi campi fradici e sporchi, la vedrei. Nascosta dietro i tronchi laggiù? Non so, mi pare strano. E allora si trattava d’un uccello d’acqua. Immediatamente boccio questa ipotesi, data solo da un buonsenso teso a proteggere il proprio senso del reale: visto l’ambiente, la mente di uno vorrebbe collocarci dentro un uccello acquatico a fare un suono del genere, ma per come s’era sentito vicino e radente la terra, non poteva stare in volo e fosse stato appunto a terra, si sarebbe dovuto vedere tanto quanto una donna, la quale invece non ci si aspetta di vederla qua, sola, discosta dall’abitato.
Certo devono viverci delle donne anche in queste “lestre”, quelle che rimangono, ma, non so se anche questo è un pregiudizio, non mi sembrava una voce che potesse uscire da una donna di quelle -non le ho mai viste, ma…
Che stupidaggini. A spaventarmi per schiamazzi, dopo quello che ho passato, potrebbe esserci pure il diavolo a cantare con voce seducente di fanciulla, potrei vedermelo qua davanti che si rivela, il capo dei mostri. Dovrei rimaner freddo. Inutile ignorarlo, sono diventato troppo sensibile ai rumori, per fortuna solo io so fino a che punto, perché dormo da solo (fino a oggi, che c’è questo coso…). Ma di che mi preoccupo, dovrei chiedermi, non essendoci più nemici? Abitudine?
In marcia e zitto. Non lamentarti, nemmeno con te stesso, non temere nulla. Né puoi fingere che sia tutto finito. Mi ha sempre puzzato tutta questa faccenda. Stavo nascosto in un burrone torrido a mangiare provviste rubate e bere rugiada mentre la guerra finiva, vedevo rocce e sabbia rosa e scorpioni, raggi soffocanti, e basta. Alzavo sguardi e a un certo punto niente sagome di avvoltoi, ecco fischiare gli aerei, tutti scuri da lì sotto nel sole, ma dal rombo avrei detto RAF. Quando poi mi arrampicai e feci ritorno al mondo già non c’erano più spiegazioni, c’era da tornare, andare a lavorare, costruire. Conflitto scomparso, questa colonia era scomparsa, con tutti i suoi progetti, i suoi orti lavorati da patrioti, le sue tonnellate di sabbia. Effimera come il sogno d’un imperatore romano impazzito, un delirio da febbre mediterranea. Costruire? Ci dicevano anche prima di “costruire”, nel senso di far apparire qualcosa in un certo futuro, con la nostra fatica. Ma mi dissero di tornare, c’erano opportunità, “nuove realtà che nascevano”, grazie ad altri progetti, trainati da altri che erano rimasti, e che erano morti là invece che qua, nella bonifica invece che nella conquista. Dovevo tornare, io però non avevo visto, non avevo vissuto niente.
È per costruire un altro futuro che sto camminando in questa palude? E va bene, ho camminato nel deserto e sui monti boscosi dell’Atlante, che sarà mai, non sarà così diversa. Ho in testa i graffi dei rami, la vegetazione pontina da cui sono sbucato, ma va bene. Ho addosso morsi di così tanti insetti che superano in numero quelli che ho visto anche laggiù. C’ho una certa spossatezza gelida nel sangue che non ho mai avuto che sale dalle caviglie scoperte nella fanghiglia -è così che camminano i butteri di qua, no? Bisogna imitare la gente del luogo che ha le sapienze sul clima e la natura, tra le prime cose che ci dissero. Chissà se per costruire anche questo, di futuro, qualcuno prima o poi ci chiederà di sparare e gasare pure i butteri, saccheggiarli e predare le donne.
Stanco di marciare, probabilmente malato, restio agli ordini che dovrò comunque eseguire, e a dire cosa ho imparato là, prestare tecnica agricola. Cioè niente, non ho imparato niente e non c’è tecnica. Ma è un lavoro di braccianti e periti chiamati qua, ne verranno sempre più, a ingrossare la “periferia” di questa Aprilia che è meno d’una piazza con tre vie. Quello deve essere il campanile, a meno che non si facciano sempre più strani gli alberi proseguendo in questa enorme pozzanghera dove succedono cose assurde. Vedere mostri che non esistono, sentire grida di donna che non ci sono. Stanco malato restio agli ordini ma obbediente e contraddittorio e, probabilmente, pure impazzito. Mi pagano per questo lavoro e non c’è storie, dicevano, che stanno tornando pure i sindacati, che nemmeno so che sono. E allora non mi possono mandare indietro. Spero di avercela una camera da solo, con una brandina anche lurida, mangiata dai ratti.
-solo?
Eh, c’è questo “coso”. Mi segue da un po’, da quando giorni fa scesi dalla camionetta. Per il troppo camminare tra esalazioni palustri, o per il troppo aver riposato sotto un gelso per via? ‘Sta bestiaccia con la voce strangolata da papero e ronzio quasi d’elicottero, fa di me uno scemo di guerra pure se non ho combattuto, sono solo scappato, braccato da tutti, bombe a terra e d’aerei, amici alleati nemici, camicie nere cachi grigie e perché no le bestie selvatiche che i libri d’avventura d’età scolare m’avevano detto vivessero là (ma nulla di quello che si diceva era vero). Ora mi insegue questo, uccello, o mostro, come non ne ho mai visti -perché non ne esistono a questo mondo, ecco perché. Sono un allucinato, un ubriaco, ed è meglio che nessuno sappia, quando dovrò pianificare, far crescere qualcosa che invece è tangibile e commestibile e commerciabile da questa terra. Morta per eccesso d’acqua che è il contrario della morte di quella che m’hanno fatto zappare per metà della mia vita.
-di che ti lamenti della stanchezza e tutto quanto provi, se sei tu che hai deciso di marciare fin qua? Ma lo sai che non c’è più nessuno che ancora cammina come te? Hahahah!
Si può ridere da una gola nuda gorgheggiante e squamosa, da un ventre di piumacce a chiazze e agitando unghie strane da ali e piedi? Ci si può ridurre davvero a immaginare cose siffatte? Questa, tutto questo che sto vivendo adesso, sarà solo eco di scoppi di bombe nelle orecchie, tanto che non ci starò capendo niente.
-pensa che farete una città. Lo sai che non solo nessuno marcerà più nella palude come te, ma ci sarà pure un treno ad attraversarla tutta? Ricostruiscono la vecchia Stazione Carroceto che era stata distrutta, hai sentito? No, perché non senti mai niente.
Orecchie piene di rimbombi, mi isolano dagli eventi, per fortuna, perché non posso capirli, già vecchio a vent’anni e qualcosa. Sono sfinito, lo giuro. No, non lamentarti!
-sai quando capisco che sono proprio diventato pazzo?-, dico, rassegnato all’assurdità di quanto faccio- Quando non solo c’ho una traveggola, ma pure questa è pazza come me. Perché sei pazzo se pensi che vanno a riesumare una stazione in una palude sperduta come questa, tutta distrutta dai bombardamenti, dove pure a noi agricoltori, vedrai, ci cacceranno a calci nel culo. Una palude resta una palude pure se dicono di volerci fare una vita di gente, che lavora e compra e spensierata sente le canzoni e le partite in radio.
Ridacchia, mescola vibrazioni sgradevoli. Un uccello trampoliere, stavolta uno vero, risponde da una pozza. Che cazzo ridi…, dico così, non so se a quello vero o all’allucinazione. Vorrei aver con me della carta, per scrivere appunti, illudermi che vedendo le mie parole possa ritrovare il senno, come facevo allora.
-e qua, dove cammini, ci saranno delle scuole, e un centro sportivo, e a costeggiare quel canale un parcheggio di…
-e zitto. Quella è la casa. Chiamiamola così.
La terra era piatta e così il cielo. In un unico e compatto nuvolone grigio, quasi amalgamato al soffitto stesso del cielo, poco ingombrante come se là fosse sempre così, si stagliavano da un orizzonte lineare, smottato solo da irregolarità di terreno selvaggio, le poche cose alte. Canneti a coronare un lungo fossato, alberi selvatici con le chiome zingare, piangenti e fangose, alberi domestici piantati a fare da idrovora. Un airone in piedi, con l’occhio laterale fisso. Un centro abitato che è un rudere bucherellato, insicuro di torreggiare due chilometri a ovest. E qua, davanti a uno scemo di guerra, l’unico che uscisse dalla selva come aborigeni pontini di sogni visionari per avventurarsi verso le colture, stava in piedi una costruzione, una specie di pezzo residuo di capannone con le pareti intelaiate sottili. L’alloggio, comprato da un tale, vicino ai campi nutriti di scolo incessante, scavato verso il mare lontano. Pochi sgabuzzini di legno intorno, una latrina. La terra a strisce marroni, denudata, puzzava come se qualcuno avesse innaffiato la palude d’una sostanza che conteneva la sua stessa anima e la moltiplicava, l’ingrossava, facendole cantare un ruggito torbido. E le zanzare già enormi nel giorno nuvoloso sbattevano sulle pareti bianchicce. Eccola, la nuova realtà alla vigilia del miracolo economico.
.
Stetti seduto così a lungo, come dormissi, che prima di quell’arrivo non m’accorsi di quanto invasiva fosse la penombra. Arrancava da quella specie di buchi quadrati che c’erano per finestra e non davano mai indizi sull’ora, là fuori. Poteva essere ancora pomeriggio, o una sera tarda a tramontare. Mi sforzavo di ignorare i rumori che c’erano, dentro e fuori, così cupi; finché passi come d’un bestione ingombrante, attutiti nel suolo diffidente, portarono l’ombra d’un uomo alla porta.
-ah, siete già arrivato.
Il tale, chiamiamolo proprietario, entra. Mi alzo tendendo la mano, mi guardo intorno, lui mi prende la mano, commenta e spiega la situazione.
-non vi preoccupate, porteranno altre sedie. Mo c’è questa.
Vado ad appoggiarmi alla parete appena finita la presentazione, avendo visto che il proprietario è il tipo d’uomo che non direbbe mai “ma no, seduto prego, mi ci metto io alla parete”, questo accelera le cose. Il braccio quasi nero di peli esce da un ventre rotondo a botte chiazzato di canotta bianca di cotone e sudore terroso, si schiaffa al tavolo con un tonfo.
-non vi preoccupate. La cena la portano.
Di nuovo crede d’indovinare che penso. Sarà una gara a chi si legge meglio, qua dentro, l’ho già capito. Quello che acquista la terra per farla lavorare e quello che dovrebbe conoscerla. Sbalordisco del mio istinto risvegliato, forse insieme alla probabile malattia, che è cosa insolita nel mio corpo. Non stavo guardando, in realtà, né lamentando tra me in alcun modo l’evidente assenza di vivande, o altre molteplici assenze.
-dalla città, la portano.
-quella città? Aprilia?-, dico sottovoce. Dialogo incredulo d’una sola parte. Quello mi sente (non s’ammettono cose dette sottovoce per questo lavoro, o si parla o non si parla), e fa un sorriso mezzo ironico nell’alone metallico di barba incipiente.
-sì, da Aprilia. Cresce, sapete? E mo’ ci date una mano.
Vuole ricordarmi d’essere sopra di me, una maestranza superflua chiamata quasi per farle un piacere, o sono io a sentirmi ancora congiurato da ogni parte? Vedere uno che vuole comandarti in ogni volto. Ma l’atteggiamento, che s’amalgama alla stanza, che la produce e ne è prodotto, non m’inganna. È questa la gente che a differenza mia ha visto finire la guerra, e che questa fine l’ha accolta e acclamata? Sono questi che hanno firmato la pace mentre non c’ero? Qua c’è un’austerità militare, e ci manca che questo fra poco cominci a parlare come un generale che comanda le truppe o addirittura le esalta. Non servono fornelli o lavandini qua. C’è un fornelletto portatile appoggiato al tavolo sul quale verrà cuociuto del riso portato con carne in scatola e vino che sa d’etanolo puro. C’è una mensola con solo uno strato di polvere, i granelli che sembrano disposti ordinatamente come file di libri o documenti, questi evidentemente custoditi altrove. C’è una fotografia della catapecchia vista dall’esterno appesa a un muro interno della stessa, la cosa mi confonde e la ignoro. C’è una porta, o meglio, una lastra lignea marcia e bucata infilata a forza in un rettangolo nella parete, dalla quale provengono spifferi, ventate che a ogni colpo rischiano di sbatterla dai rudimentali cardini, le guglie di corteccia ai bordi; e dai punti rosi d’umidità, penetrano raggi di luce scura e rantoli che si mescolano all’aria che tira, come d’un moribondo. Allora intuisco che dall’altra parte si dorme su brandine vicine o a castello, respirando gli altri, i loro umori, gli aliti di chi già consuma questa esistenza, i germi che li abitano. Venivo punito così per aver combattuto solo contro il meteo ostile all’agricoltura? A viver la camerata quando tutto era finito. Un moto di disgusto mi distorse la bocca, accanto mi derideva un’allucinazione mostruosa, che m’aveva seguito qua dentro, che non se ne andava e continuava a dirmi cose che io cercavo d’ignorare anche arrestando quei movimenti impercettibili degli occhi di chi si sente rivolgere sarcasmo, saluti, gracchi. Il proprietario vedeva solo la smorfia che m’era uscita, cercava di capire il tipo del mio carattere dai sobbalzi di nervi sottopelle, per potermi domare, sicuro.
-rallegratevi, se no non ce la fate questi giorni.- (mi sta provocando?) -e poi ci porterete i vostri, no?
Giusto, la mia gente. Altre maestranze, per la nuova realtà che nasce. Ce li voglio qua? Hanno visto cose più squallide, non ne farebbero un problema. E infatti non è forse per questo che non ce li voglio, “tu non vuoi più nessuno amico o nemico, hai solo me”, mi canzona l’uccellaccio. Sono senza speranza, ma m’hanno dato un compito.
-ce li porto se le cose vanno bene.-, rispondo, distanzio il tono, difeso dietro muri di razionalità.
-è naturale, è naturale!-, fa un sorriso e poi lo disintegra. Torna un’espressione torva che pare il suo stato normale, rivolta a nulla in particolare. Ha un muso testardo e incolto che assomiglia al maltempo di qua. Non mi resta che accettare, di collaborare e lui per come è, pure di assomigliargli se è questo che significa “lavorare”. Io sono un paese sconfitto e arreso. Ma c’è una cosa che voglio.
-si potrebbero avere carta e penna?-, chiedo, sempre protetto al mio modo, lo sguardo severo. Trasmetto che non ho incertezza sulla mia richiesta, che non accetto mi si faccia ridicolo. E quello mi fa ridicolo senza però ridere. Sbruffa, starnutisce, si smoccola.
-niente carta e penna qua.
Bene, immaginavo, la mensola impolverata m’aveva già risposto.
-ad Aprilia non ne hanno?-, azzardo.
-niente carta e penna.-, ci mette un punto. Non è la mancanza, è che qua non la si vuole. O non vogliono che si scriva.
-ce l’avevate carta e penna in Libia eh?-, ghigna improvvisamente, i denti sporchi di uno che ha maneggiato informazioni su di me -si stava bene immagino. Paese caldo. Poca morte in giro.
Poca morte in giro? Competizioni di chi ha visto più morte, competizioni d’ogni cosa. Senza scompormi metto una risposta, a far capire che non mi manca.
-le notti in Libia erano più gelide degli inverni di dove sono io.
-e bravo! Allora vi abituate. Certe notti qua in zona, ci fa un freddo nelle ossa! Passa la voglia di pensare a “carta e penna”, datemi retta.
Sarà dura vivere qua. Mi farò un diario a mente.
.
Prime pagine del mio finto diario. Siamo in maggio, un mese dopo il nome della città. Caldo e piovoso, ancora freddo qualche sera ventosa.
Anche se finte e mi manca la carta, pure la carta igienica, tratto queste annotazioni mentali proprio come se usassi un momento di tregua per abbozzarle in pace, per sentire la penna che gratta, facendo fluire i miei pensieri, guarendomi. C’è molto da guarire qua.
Per questo motivo non ho “scritto” per molto tempo. Sebbene non mi debba prendere il tempo per scrivere, far stancare il polso sui fogli voltati e accumulati, sembra difficile pure prendersene per cercare d’individuare una forma in questi pensieri. Mi sembra di sentire che in questo luogo la chiarezza che può esser fatta da un ordine interiore, una ricerca quieta, venga di continuo ostacolata da una fanghiglia che se la risucchia, da uno strato sovrastante d’acqua perennemente torbida, in cui sguazzano macerie nere di roba frammentata e decomposta. Pelli morte di provenienza ignota nere come petrolio, legno irriconoscibile, brandelli di fango piccolo a figliate come girini. Sono inoltre le fatiche imposte dal lavoro, o da chi di questo ha preso il controllo. Difatti non c’è stata ancora nessuna pianificazione come m’era stato scritto nella lettera e il padrone portavoce della “impresa” m’ha messo subito a fare gli stessi compiti di altri che vengono ogni tanto, “predisporre”, ha imparato questa parola. La mia cosiddetta sapienza è stata per ora una sapienza di braccia, stessa d’un qualsiasi corpo ancora giovane come il mio che poteva star qua a occupare lo stesso posto; ma verrà dopo, verrà dopo, dicono, anzi, dice il portavoce.
Vengono uomini ogni mattina e ogni sera, facce solite, facce nuove, tutti stessa lingua di pochi grugniti. Amara rassegnazione con una certa ottusità come se il mondo s’esaurisse oltre i confini dell’agro e non fossero contemplabili vie d’esistenza in cui c’è altro da questi compiti che “si devono svolgere” non si sa bene perché, se non forse per il vino serale che tracannano direttamente da otri o fiasche verdi lerce. Ma nel mio diario mentale non annoto questo perché mi sorprenda: al contrario, perché in questo ritrovo una familiarità. L’Italia che io ho conosciuto fuor delle città, da dove nacqui io fino a qua (e anche nella colonia che fu) era tutta così, costola di paglia e melma olezzante di kiwi spappolati in terra e nettari e carcasse di bestiame, d’un meridione che si dice concreto e “duro” ma in cui io che l’osservo e ci nasco e campo non rinvengo una sola oncia di forza. Pure quest’uomo, l’ho sentito rammentare (cosa che dovrebbe esser concessa solo a chi osserva), menzionare un rex e un dvx con le “iccs” alla fine, che loro sì con questi nomi erano forti, ma d’altronde è l’occupazione americana che ci concede di portare qua il “miracolo”, insomma, di dare a lui i soldi e allora bisogna esser pure furbi e opportunisti; da reinvestire in giochi di carte, donne, vino, divertimenti? Così penso io, a vederlo andare e vivere e dire e comportarsi e guardarmi ringhioso senza digrignare, ringhiando solo dagli occhi, quando nei miei c’è sfida sopita e tempestosa per la sua voglia di riaffermarsi sempre il più maschio sul mondo calpestato. A lui non ci è passata la febbre della guerra, no, si sogna ancora le imprese eroiche quelle volte che pure lui s’agita nelle coperte. Ragioni diverse, ma siamo uguali in questo strascico. Allora facciamo a chi cede prima lo sguardo, e mi rassegno a sentirlo godere di sottecchi quando francamente mi stufo e torno a scavare, spostare, pulire e tutto il resto. Più tardi mi rinfaccia una mia presunta vigliaccheria radicata a trascorsi che crede di conoscere, e al mio “esser studiato” per aver finito le elementari e letto i libri degli inglesi. Quando ridono e bevono, sprezzanti seduti a terra nelle notti fermentanti del sudore di tutti, sento il fiato marcirsi a contatto con l’aria umida, e mi ritornano tutti quegli altri odori di sere come questa. Odori forti che si impongono e costellano la notte più degli astri lassù, esco a passeggiare sugli ettari e cerco stelle ma non sento più niente se non fiato bianco che m’esce dai denti. Dalla baracca le urla s’alzano e s’impongono, fanno un gigante immaginario di nerbo in cui ciascun uomo crede di vedersi. E certo che quel poveraccio, l’altro in brandina, s’è fatto nella febbre un mondo immaginario contrapposto a questo. Chissà che non ci arrivi anch’io. Da molto non sento voci più soavi di queste, prese stracciate e gettate nello sporco, senza redenzione…
.
Seconda annotazione. Torno a quando è cominciata, sempre perché non mi fanno pensare. M’assalgono le cose o gli ennesimi fantasmi delle cose che m’hanno fatto paura anni fa. Non sono tranquillo, ecco, ma mai dovrò mostrarlo. Ordine dentro di me, e non farmi beccare a guardarmi dentro, per questi uomini è strano e rispondono a calci e ho detto basta a queste cose, se no divento una belva anch’io. Testacalda mi chiamano. Testacalda fa ordine, loro come li chiami?
Questa traveggola maledetta, forse me la dimentico se comincio ad ammettere che c’è, mi si è presentata con un nome strano da scherzo di natura, dice che non capisco la lingua futura. Al padrone, che avevo chiamato il portavoce della faccenda, si deve far riferimento col nome di “sor Tore”, a volte “signorsì”, volte in cui a usare un altro nome s’ottengono froge impazzite e metamorfosi in bufalo pontino -si è ciò che si mangia e si produce dal territorio, come dicono. L’altro, che non ho mai visto uscire dalla stanza da quando sono arrivato, lo chiamano Nuzzo e nel suo corpicino steso quasi scomparso mi mette più soggezione di quell’omone di Tore. C’è la soggezione del corpo e poi quella dello spirito: non capisco se quest’uomo è morto, e sto continuando a immaginarmelo io a rantolare incessante, e se l’immaginano pure Tore e gli uomini che vanno e vengono, o se è viceversa uno spettro che tuttavia vive, là nella tana di coperte diacce imbevute d’ogni specie di liquame umano, tutti quelli che fuggirono il corpo. La prima notte mi spaventai dei rumori, frastuoni ma da un fisico debole, e vidi che piangeva anche, senza lacrime, ch’erano suoi i rantoli oltre quella primitiva porta e che in questi riversava tutto il suo essere; restavano anima e vicende sue solo nel ribollire di fiato bronchitico che esalava, si sgonfiava sfinito dal ventre salendo per la gola concava e rugosa. Non sapevano che età avesse ma già pareva un povero vecchio cadaverico, i capelli lunghi e in testa mezzi chiazzati di cranio che gli erano diventati dello stesso colore della pelle. Diceva Tore che non c’era pericolo, il suo non era un male che arrivasse ai vicini. Sarà. Segretamente io ero già malato. Ma mi spaventavano due cose: vederlo così, come giunto da un altro tempo di questa terra dove si moriva così all’infinito ogni giorno prima d’una morte ultima, e poi ascoltarlo. Nei respiri frantumati affioravano sillabe, concetti. Demenza, invocazioni. Non dormii quella notte, certo, con due uomini nelle brandine accanto, il vivo e il morente. Da tempo non ero più abituato a convivere con l’uno e l’altro e, a riempire assenza d’umani, che la paura delle armi aveva ridotto solo a carne di potenziale disfacimento, era comparso un uccello deforme, astratto. Ho un brivido ricordando un ricordo immaginario perché riguarda questo uccello, come si rizzò a occhi spalancati, quando nei deliri il povero Nuzzo urlò preghiere sconnesse. Diceva di vedere il Fango, gridava il nome d’un Fango che doveva star sotto la terra, che lui l’aveva visto bucandola e lavorandola prima che un male lo prosciugasse. Occhi rossi del Fango, soldati melmosi nel buio… robe da far tremare; e che c’era una donna, doveva esserci una donna, nella palude. In attesa come d’udire qualcosa, di accogliere -e qua si faceva disperato- i poveracci come lui sperduti in quel nulla. Una donna… ebbi come un presagio inafferrabile a dirmi che sapevo già, non so come, di una ninfa di palude. Uno spirito però buono, che fosse diverso dallo squallore. Ma allora perché s’eccitava il mostro della mia allucinazione? Forse eravamo due allucinati, uno che vedeva cose buone, da sperare, e io ero l’altro con una malattia diversa, negativa, non ancora scoperta.
-…donna? Vuoi una donna? Ah! Vecchio mandrillo!-, gli batté una spalla rachitica Tore, subito scuotendosi a strattoni il sudore gelido -non sei cambiato!
Ridusse l’episodio a una voglia animale in prossimità della morte, l’usò per risollevare animi o appetiti o entrambe le cose a quelli che vennero una di quelle solite sere. Stavo fuori rannicchiato, a congelarmi, a sentire due grilli spegnersi e una civetta sgolarsi su un eucalipto, e ancora non provavo niente nemmeno a vedere il bel cielo e i riflessi lunari come ghiaccio vitreo da un orizzonte d’acque nere. Il vecchio Nuzzo nei suoi deliri non parlò mai più d’una donna o del Fango e io rimasi col dubbio di quell’episodio inquietante, affianco a me il coso, con la mascella che anche a becco chiuso gli lasciava un ghigno. Ripensandoci schiaccio una sigaretta sul terriccio friabile, il fumo l’unica cosa buona che portano ed è un veleno. Torno dentro, diretto alla notte insonne di contatto eccessivo, di lamenti, di due umidità dall’aria e dai corpi troppo poco distanti. Nuzzo cantilena il suo tormento più recente e insistito, “arriva arriva”, non si sa cosa, se la donna che vuole, se i soldati melmosi o la morte. Chiudo il diario. Smetto di pensare come sto imparando, come nemmeno le bugie fasciste riuscirono a insegnarmi. Buonanotte, arrivederci.
.
Terza annotazione. Capacità di articolare va sgretolandosi anche dentro di me, sarà perché le circostanze mi bloccano l’ingresso. Non si può far dentro e fuori, o si sta dentro o si sta fuori, sembrano voler dire. Come sor Tore: “la guerra o l’hai fatta o non l’hai fatta, non c’è via di mezzo”, quando io cercavo di spiegare, di mostrare qualcosa, che potesse essere un’immagine, che si potesse comunicare a un essere umano… ma non m’ha capito e io sempre meno capisco gli uomini, forse cominciando a rivalutare la compagnia di un’allucinazione che non può esser peggio. Mi viene in mente anche guardando Nuzzo, che rimane sempre uguale nella sua mezza morte e tra sofferenze spietate sembra trarre gran consolazione, addirittura guizzi d’energia, dalle cose immaginarie che gli fluttuano intorno alla testa come un’aureola.
Ha torto però Tore. Nonostante i limiti che i suoi proclami vorrebbero imporre, qua si fa di continuo dentro e fuori, avanti e indietro. Nella catapecchia e sui campi che sono una catapecchia ancora peggio, la catapecchia della terra di qua, la natura resa fatiscente e madre sterile. Dovrei provare a spiegarlo, a proporre la mia valutazione sulle possibilità che ha questo terreno di svilupparsi nel modo che vorrebbero loro. Ma sto perdendo capacità e voglia di mettermi a dialogare. Progresso, sviluppo, crescita, ripresa… dicono che è tutta una rinascita.
-ma tu non puoi capire, che non ti sono morti gli amici affianco.
Fa così tanta differenza che siano morti affianco? Sono morti quando cercavano di scappare da carri armati e incendiarie, parenti e giovani come me venuti a coltivare. Non stavamo acquattati insieme coi fucili puntati come a caccia. E allora? Sono morti e ora sono tutti uguali. Sono la lordura marrone e nera che s’ammucchia fradicia, colante, sulle nostre dita ogni giorno, quando frughiamo in questo suolo sperando di purificarlo. Tutti là sotto. Dovrei farne parte? È questo il senso di dirmi queste cose, di tirar fuori questo vostro “onore”, anche quando le forze d’occupazione ve lo vanno sostituendo con altri valori, più concreti, calcolabili e smerciabili? Non sono in grado di capire le loro speranze, la loro voglia d’una pace data più per sfinimento che per reciproco amore, e di cui ancora non riesco a vedere il significato? Questo perché sono fuggito, due volte accusano, prima in Africa e poi dentro l’Africa, invece di lasciarmi assorbire in questa melma…
-attento, testacalda, che non si sa che può succederti in questo fango uno di questi giorni…
Scherza, minaccia, scopre i denti ridotti in polpa. Sì, può succedermi qualcosa di brutto. Vedo che in parte lo pensa sul serio. Vedo Tore trasformarsi in certi crepuscoli, quando appare come una sagoma nera circospetta lungo le rive del canale, attento esaminatore di fossi con la pala sulla spalla. Perfino il suo volto si concentra in quei casi, quando non c’è nessuno a vederlo così serio. Potrei approfittarmene e vendicarmi, per la mera antipatia reciproca che attizziamo di continuo, ma qualcosa mi ferma a vedere questo lato di lui. Come sapesse che davvero c’è qualcosa di pericoloso sotto i nostri piedi. Qui è quello che conosce meglio la palude e pare quasi esca in ricognizione di coccodrilli o fughe velenose o chissà quali altre specie di morte sepolta nel sottosuolo acquoso, che puzza di pioggia chiusa stantia fin nel nostro mondo.
.
Quarta annotazione. Certe volte Nuzzo grida indifeso da far tenerezza e assordarti insieme, e si rintana sotto una tenda di coperte, rubando anche le nostre. E con tutto il fiato che gli rimane piange, “allontanateli” dice, riferendosi alla porta che sbatte. A volte è il vento, a volte la porta è immobile, ma lui vede sempre ombre che incombono dall’altra parte e sono lì per lui, giunte a prenderlo. E Tore viene, e fa sciò sciò all’aria, e dice visto Nuzzo, sono andati via. Poi mi ordina di fargli sorbire una minestra di legumi, ho anche questo compito adesso. Ogni liquido che entra in quest’uomo spruzza subito fuori, da un orifizio o l’altro, e temo di diventare anch’io così per il tanfo mortale che s’è stanziato qua dentro, impregnando ormai irrimediabilmente le pareti. Non posso che cancellare i sapori e l’olfatto durante gli scarsi pasti per non rigettare tutto. Sor Tore non dà cenno di farsi impressionare da questa puzza, come un animale avvezzo a una sopravvivenza immonda.
“arriva, arriva!”, si lamenta Nuzzo tra un’imboccata e l’altra dal mestolo che gli forzo nelle gengive vuote. Qualunque cosa sia spero si sbrighi, rispondo, con la voce che m’è diventata una tosse astiosa.
.
Quinta annotazione. Perdo pure i ricordi, temo. Mi sorprendo a tremare d’una cosa che non c’entra col freddo, che già da sé tormenta le ossa. Se mi leggessero, al paese, chissà se sono tornati tutti, si spaventerebbero di questa “opportunità” e rinuncerebbero. E starei solo, come vorrei, se solo non ci fossero qua questi altri intrusi. Ma potrei star bene anche così? Dev’essere un problema del posto.
I primi ricordi che muoiono solo quelli più semplici. La sensazione d’un bagno sulla pelle. C’eravamo abituati tutti, certo. E laggiù seppi anche farmi i bagni con la sabbia. Ma qua, con tutta quest’acqua, ci s’immerge in rigagnoli dai quali s’esce, pare, ancor più sporchi, sulla pelle e anche dentro, pure gli organi interni. La dissenteria pulisce più d’ogni abluzione qua, e puzziamo tutti uguale. Nuzzo deve essere il più purificato di tutti, liberandosi d’ogni cosa che l’avvelena dentro.
Progresso? Sì, una rete fognaria su tutto il territorio vogliono fare. Tubature, acqua e cemento, guardali come son contenti a immaginarsi tutto ciò, ed è il massimo che la loro immaginazione elabora -forse averne troppa è anche peggio, a giudicare dalla mia situazione, e da quel malato che non riesce ad alzarsi, tenuto vivo solo come bestiame chiuso in stalla inadatto alla fatica. Non lo seppelliscono perché li diverte.
Trasformano tutto con gli occhi. Questo “meridione”, degrado ai confini di Roma, lo “risollevano”, dicono, usando proprio questa parola, che appartiene all’ombrello della rinascita che alzano al cielo per respingere ogni gelido temporale palustre. A me i temporali sembrano abbastanza indifferenti a quello che noi altri possiamo inventarci di fare sulla superficie.
Strade, acqua corrente, sistemi d’irrigazione! Ma prima scaviamo, tentiamo questa o quell’altra piantagione finché non ci dà da mangiare, finché smette d’annegare dopo cinque minuti che abbiamo raschiato l’acqua da questo tratto malriuscito di bonifica. Sento spesso esclamare, “ah se ritornasse lui!”, e intanto si valuta quanti altri eucalipti venuti dall’Australia piantare, per drenare tutte le acque luride e rimboschire l’agro. Le colture hanno avuto successo altrove nel territorio e questo deve diventare tutto così, kiwi e angurie ed eucalipti oppure palazzi, nel futuro lontano, oppure l’inferno. Io preferisco tacere.
.
Sesta annotazione. In una giornata soleggiata spariscono le zanzare infette, vengono mosche, un altro dono della bonifica, s’ammassano su tutte le cose che in quest’amplesso d’umidità indomita e secchezza che picchia dal cielo assumono l’odore della pelle piagata delle bufale stremate nella polvere. S’ammassano sul nostro sudore, le scaccio, mi rialzo dalla zappa, e quel mostriciattolo se ne sta su un ramo d’eucalipto con le ali deformi aperte, a prendersi la luce come un cormorano. Spalanca le fauci, palpita il collo lungo, come quello delle cose vive. In uno scatto d’odio scaglio la zappa a terra e Tore s’incazza al punto che quasi mi prende a cazzotti e gomitate in faccia. Ma perché non ve ne sparite tutti e non mi lasciate a sprofondare da solo? Perché dobbiamo sprofondare insieme? V’ha assuefatto la sconfitta condivisa da tutto il popolo, è a questa che cantate ubriachi ogni notte alla luna?
..
Metto il punto al mio diario. Getto la penna, la scaglio lontana a sorvolare come un proiettile il campo, che finisca in un pantano e lì sprofondi. Essendo una penna immaginaria non c’è rischio che qualcuno la prenda, nessun un abitante della città che sorgerà potrà essere incuriosito da un lucore metallico riemerso tra i canneti. No, in questo mese ho perso la capacità di scrivere con le mani se anche rivedessi una penna vera, e quella della mia mente, ormai, non può raccontare agli uomini. Se mi ritroveranno, tra qualche giorno, infreddolito a vivere rintanato con bisce e scolopendre in un tronco galleggiante, allora saranno i famigliari a raccontarmi, sì, sarò il cugino o il nipote o il figlio pazzo che per primo è venuto qua e poi è stato raggiunto da tutti, da questa famigliola che oh, che bellezza, prolifererà felice nella nuova città, pendolare del miracolo, rinascita, benessere! Grande, prosperosa, umida, ben collegata, a soli quaranta minuti dagli abissi che s’aprono avanti a noi tutti!
Non so cosa m’abbia sconvolto così tanto di quella esplosione. Ne ho viste tante dopotutto, e udite al punto che m’abitavano il timpano. Come ho scritto nel mio diario mentale s’imponevano su ogni rumore, rendendomi l’uomo prudente e irriducibile che ero. Forse lo scoppio si è accordato, in un’armonia bellica dormiente perfetta e terribile, con quello che mi rintronava dentro, così risvegliandomi tutta la paura che ingoiavo sin da giorni lontani. Il botto mi gettò a terra, in una frenesia che tentavo di imprigionare, per non strapparmi la carne dalle ossa, e la terra umida a manciate che annerissero le unghie. Quanto avevo marciato, né ufficiale né combattente, più instancabile di tutte le truppe al fronte? Dal deserto alle montagne fino all’agro pontino, tutto una camminata, tutta la narrazione del mio diario. Là avevo lasciato altri contadini in fuga, che imbracciavano cose simile ad armi e correvano, oppure si ritiravano come me in altre direzioni, per marce meno logoranti. Là avevo lasciato i nomi, che ora sembravano d’altra epoca, dei carri armati e dei grandi o malvagi uomini, degli aerei e delle battaglie, i Rommel i Montgomery e gli italiani poveracci peggio di me fatti prigionieri o cadaveri. E qua che avevo lasciato? Giorni di follia più grande di quella, o erano la stessa follia? Cercavo una risposta in quella luce, che aveva rischiarato la notte in un solo istante? O era una luce immaginaria, che vedevo dove gli altri atterriti non vedevano altro che un geyser dalla terra scoppiata, un tonfo assordante senza corrispettivo luminoso?
Accadde così all’improvviso, anche a pensarmi di nuovo sano, pronto a vivere su questa terra, non conoscerei più la calma per il rischio che questa in un attimo si squarci, liberando un potere di fuoco e distruzione che non volevo vedere, che dovevamo tutti dimenticare. Sor Tore voleva stare attento a questo, numerosi ordigni inesplosi, che sapeva riposare ovunque nascosti, una galassia di nasciture scintille diaboliche riflessa dal cielo alla terra -era nata maledetta e ci rimaneva, per colpa di tutto: dell’aria impregnata, del Fango immortale, delle disgrazie della storia, delle disgrazie degli individui, della malaria e dei corpi che aveva risucchiato. Ricadeva su di noi, distanti e così inermi, piccoli, una pioggia generata da quell’enorme zampillo, cresta spumosa che aveva ruggito e s’era sollevata come un’idra dall’acquitrino che vedevamo luccicare oltre le linee da noi demarcate nel campo, luogo del nostro controllo ai confini coi residui selvaggi del mondo. Si cancellarono le lucciole sul pelo dell’acqua, si sfranse la luna biancoblu là riflessa e fluttuante; si tinse di rosso quella vera che volava nello spazio astrale, accogliendo nel suo cerchio impassibile gli sfrigolanti archi di fuoco acceso lanciati dal basso, dalle profondità irate: una fiammata abbagliante avevo visto accompagnare il tuono, e fui disarcionato, rovesciai la legna fradicia che imbracciavo, caddi di schiena e mi ferii, poi in ginocchio come un idolatra ammutolito dalla calamità. Un gorgo si squarciò con orribile risucchio, immediatamente trascorsa la fiammata, forse sognata, dell’ordigno esploso. Le cose si riversavano, scomparendo in quella gola, nera e indistinguibile nel nero, impennando e scontrandosi sulle scie di vortici nascenti, si sgretolavano le semenze vicine, crollavano simili a pareti nel sisma i bordi terrosi del campo. Tutto spariva per sempre là sotto. Un fischio nelle orecchie m’aveva cancellato tutto ciò che restava.
Tornai a guardare le cose, dopo un letargo che mi parve infinito. Le fioche lanterne infilate al cavo indolente sulla rudimentale grondaia oscillavano, rendendomi mescolate e confuse le cose visibili a me vicine. Mi rividi coperto di corteccia e macchie, ero rimasto accasciato e impotente. Correvano voci, imprecavano, non so se mi cercassero. E da dentro, come rintocchi d’apocalisse, s’udiva solo una voce, che era potente e chiara, come rinata, come se tutte le ombre che l’inseguivano si fossero dissolte ma allo stesso tempo timorata di nuovi pericoli, che urlava:
-arriva, arriva, arriva!!!
Questo stava aspettando, Nuzzo l’appestato? La malattia gli aveva detto il destino della palude: anche per me era così? Non vedevo più il mostro della mia allucinazione da nessuna parte. Era stato anch’esso parte di quello stesso incubo, voleva dirmi qualcosa? Mi alzai. Dovevo cercare. Cercare la donna che aveva chiamato negli acquitrini, sin dal primo giorno. Nella terra e l’acqua esplose, avrei trovato i resti d’una ninfa, sì, non mi restava che ragionare così, come avrebbe fatto l’uomo malato, solo presagi generava il territorio, non prodotti agricoli, non sviluppo. Cercai intorno una via da prendere, andare incontro a dov’era stata l’esplosione: ovest, la fiammata sotto la luna prossima al tramonto m’aveva illuminato Aprilia sull’orizzonte, s’era accesa per un attimo, arancione s’era tinta con le ali bucate dell’arcangelo e le mura frantumate, fotografando in quel secondo la sua posizione in bilico sulla disfatta, sulla definitiva distruzione evitata per una particella insignificante di spazio e tempo -per due chilometri tra quelli infiniti del Fango e qualche anno tra quelli incessanti delle guerre. Dovevo fuggire per quella direzione e andare oltre, dimenticando gli edifici, percependo solo il rifluire delle acque nell’abisso… camminai e m’arrestai. Tore era sconvolto. Gli uomini correvano, gridavano concitati. Nel volto di lui era apparso un dolore. Le braccia raccoglievano, come l’abbracciassero, mucchi di fango spappolato da una corrente che scorreva verso il buco, la poltiglia del suo progetto.
-e ce ne saranno altre. Bombe sepolte in questa nostra terra. Non v’era bastato averci sconfitti allora? Continuate anche adesso?
Parla al vuoto con lo sguardo dove galleggia indifferente il fumo, senza veder nulla, senza vedermi trasfigurato come sono, ad aver pena anche per lui, quest’uomo gretto che all’improvviso rivela d’avere un sogno nel cuore, vedere un giorno davvero apparire questa città o speranza del futuro, ne sarebbe stato l’abitante, uomo corpulento cinico e debole e dipendente da qualcosa che l’aspettava a fine giornata, o alla fine della vita. Era triste ma io dovevo andarmene. Una febbre m’aveva preso dentro, i tremori che avevo nelle gambe, tenuti nascosti, ora s’accendevano come voci eccitate salendomi dentro, incitandomi ad andare: nell’esplosione di luce non avevo visto la ninfa, lo spirito femminile che m’avrebbe mostrato il contrario di tutto lo schifo, e dovevo allora cercarla. Mi voltai un’ultima volta mentre già cominciavo a scappare. Mi sembrò che stesse in piedi sotto una lanterna penzolante all’ingresso della catapecchia un uomo dal volto spettrale. Nel teschio sormontato dal lume lampeggiavano occhi ingigantiti in un’estasi di timore e godimento, lunghi capelli scendevano ammantando insieme a una coperta luridamente chiazzata il corpo di mummia quasi trasparente. Tremavano le rughe che aveva per labbra, dischiuse in un mantra inudibile. Ma non guardai più nemmeno lui che finalmente come me s’era risvegliato e alzato in piedi. Già correvo per la mia via nell’oscurità e nell’oblio, lontano dalle cose. Sentii le gambe penetrare il diaframma gelido delle acque limacciose, lo stesso che avevano attraversato venendo, dove per la prima volta batteri e morsi infetti s’erano intinti nelle vene. E a ogni passo ormai generavo correnti, scrosciavo rumoroso e goffo, ma inarrestabile. Sor Tore s’era risvegliato dal suo privato dolore, mi chiamò, “addò vai deficiente”, ma io non avevo più tempo di sentirlo ritornare a essere il solito Tore rozzo e prepotente, ero libero, libero di sprofondare da solo nell’unico modo ch’era possibile. Continuava a sputare urla indistinguibili, quando mi vide scomparire nella tenebra, nello stesso orizzonte dove erano sparite anche le lucciole.
Vagavo con una ferita dentro al ventre. Era davvero bastato il brutto ricordo d’un rumore, d’un caos che prima era appartenuto al mondo e poi avevo fatto mio? Ero sempre stato pazzo, o lo ero diventato venendo qua, cominciando con le prime allucinazioni. Ma non ero solo io: il terreno impazziva, si bucava aprendo in sé bocche di sola inesorabile fame e spirali a risucchio nel vuoto, il nero che tante volte avevo visto farsi uniforme dal cielo alla terra nelle fredde e cupe notte palustri. E tutto scompariva così, nella fossa dentro al Fango che fagocitava tutto, i cieli azzurri e la luce, le cose vive e che esistevano tangibili.
…
Dicevano che raccontava come leggesse un diario, quel gran camminatore, “sangue del suo sangue” dicevano. Da lui avrà appreso che ogni passeggiata è una pagina, e così si comporta. Quella strana quiete domenicale ha già avvolto ogni cosa. Cammina sul nulla fino a Via Carroceto, meta insolita per questo giorno. La luce lancinante schiaccia i canneti che s’abbarbicano all’Eurospin per trascinarlo nelle terre selvagge, e solleva ondate torride dagli sterpi e l’asfalto. Al di là degli edifici scolastici, d’un campo arato tra eucalipti e boscaglie fitte, s’ergeva una catapecchia. Passeggia, annota in un diario, si pensa in una rete di gente che s’è susseguita e di territori che si susseguono, che si raggiungono a piedi, che fanno una mappa dove sono i ricordi suoi e di tutti, i ricordi registrati dalla terra gravida d’ordigni inesplosi.
Chissà se è vero, quello che immagina. Ovviamente non l’ha detto alla barista. (Passeggio e non so come sentirmi. Ho dato un senso davvero a quell’incontro? Nel troppo poco che ho detto ho dischiuso troppo, dovrò cambiare bar. Come avrei potuto schiudere i dettagli che mi dicono la carne e l’anima, oltre quella soglia dell’irrazionale?)
È un apriliano come tanti, lavoratore che si stanca, libero la domenica, in attesa di qualcosa. E ha una personale e famigliare storia di follia, che non dice a nessuno, che resta chiusa in quiete vacua come questo cielo e che sparirà insieme a tutto negli strati sotterranei.
Comments