Gli Appunti Del Fango- Aprilia Metro Project (pt.2)
- Milky
- 11 ago 2020
- Tempo di lettura: 21 min
(segue alla parte precedente)
..mi intrometto- racconto la drammatica vicenda dell'insetto sperduto..
Ora, un osservatore racconta una favola fuori dal tempo, la disavventura di un animaletto senza nome.
Sopra i confini di un parcheggio, oltre una modesta muraglia di radi olmi e cipressi, volava ronzando gravemente un insetto affannato. Un insetto strano. Tozzo e corpulento, dal volo caparbio col capo reclino, rumoroso, vibrante di linfe e grassi in eccesso, mollezze intuibili sotto il corpo corazzato. Nero e dai bei riflessi metallizzati -un verdognolo scuro come quello dei cassonetti, un marroncino di aghi di pino invecchiati. Sull’estremità frontale della testolina omogenea, simile a una biglia nera, spuntavano finemente due lunghe protuberanze o appendici, con una certa parvenza ossea. Troppo spesse per essere antenne, troppo fragili all’apparenza per essere corna. Contribuivano però a conferire nell’insetto l’impressione di una certa prioritarizzazione nei confronti di un proprio compito, si direbbe quasi uno stacanovismo forse non necessario, ma certo ammirevole. In quel caso, tutto rivolto al volo. Insomma, vedendolo volarsene dritto e deciso, con quelle sue cornette puntate avanti, si aveva voglia di fare il tifo: “vai, insetto, vai!” -purtroppo però non c’era nessuno che potesse farlo. Il parcheggio era vuoto e non c’era niente salvo una vecchia macchina blu lì abbandonata, dai vetri appannatissimi sporchi di pioggia sabbiosa (in qualche modo, chissà come, assomigliava proprio all’insetto), e una nuvoletta temporalesca che si dilungava come una sottile macchia sinuosa lanciata a caso su un foglio dai toni pluvi. Pareva quasi incapace di farsi minacciosa in maniera seria, come indecisa se far piovere o no, e se sì un po’ svogliatamente. Nemmeno l’insetto, che percepiva le schizofrenie del meteo fin nel profondo delle viscere, riusciva a intuire cosa sarebbe successo. Ma non poteva avere dubbi sul fatto che qualcosa -forse non pioggia- andava irrimediabilmente a succedere nell’aria, e la sua priorità era il riparo. Un riparo adeguato, impossibile da decifrare a priori, una di quelle cose che si riconoscono solo nel momento in cui le si vede. Fremendo con colpi nerboruti delle ali concave, un eroe contro il fato, riuscì a farsi strada nella ventata calda che aveva preso a sferzargli contro, cambiando anche direzione più volte -strano comportamento- e oltrepassò definitivamente il parcheggio. Ora sorvolava un marciapiede costeggiante certi giardinetti privati di condomini economici, grigi a macchie bluastre come logore scarpe da ginnastica. In poco tempo percorreva centinaia di metri, rapido più di un uccello; vedeva con occhi invisibili scorrersi le strade di fianco, i loro riflessi di livrea biancastra, i granelli di asfalto sporco, orme di suole di gomma in principio di squagliarsi sulle superfici calpestate. Gli edifici, imponenti intrecci di vetrate e aperture, giochi di luci stordenti e di labirintiche insenature celanti enigmi vitali: entrando qui, ci si ripara, o si muore? Li sentiva soffiare, alti e imponenti, ammonenti la strada e le piccole creature: il solo incrociarli portava confusione, disorientamento. Si perdeva ogni grazia del volo, si diventava ridicoli, andando a sbattere ovunque in un sovraccarico di stimoli sensoriali eccessivi e istinti alla fuga, ogni genere di paura sommato. Per questo la sua memoria non sapeva riconoscerli del tutto: solitamente, meno li guardava e meglio stava; già bastavano le volte in cui entrava per sbaglio in una casa, e a stento riusciva a cavarsene fuori, tra concitate forme confuse, colpi provenienti da chissà dove, pareti lisce, geometricamente perfette e stringenti, che facevano sembrare il nord sud e il sud nord. Ma alcune strutture caratteristiche, alcune guglie inconfondibili o terrificanti schermate vitree come occhi celesti penetranti si facevano associare all’idea di un certo edificio, che stava in una certa zona. Ne ricordava poche.
(Una arancione, quella vicino all’uomo grigio immobile pieno di buchi, sembra di una consistenza meno aggressiva rispetto alle case, ci sono meno ostacoli e rumori al suo interno, più vasta… poi, sì, quelle grosse e lunghe murate attorno a campi verdi, dovrebbero trovarsi molto lontano da qua… fungo, alto fungo bianco e austero. Una tana affollata dove in un angolo soffia un drago, ne escono vapori che puzzano di grano bruciato. Ma questa… questa cosa a punta. Tutto questa membrana. Non bene. Troppo, troppa membrana, è cielo oppure…? Quella cosa contro cui vado a sbattere. No, è cielo, no, non è…? La evito. Sì, basta che vado dritto. Cerco un riparo. Sì, volo dritto sopra alla banchina, il marciapiede si chiama, sì, costeggio la strada e supero le cose che stanno a ridosso. Ecco, l’ho passato. Visto, era facile. Non ci ho sbattuto contro. Però, perché stava qua quella cosa? Non si trovava da un’altra parte? C’era un prato recintato vicino, non…)
L’insetto proseguiva. A volte una macchina di fianco nella strada, più veloce, fendeva il vento allo stesso modo. Una bicicletta. E poi, quell’edificio che aveva superato. Una sorta di piramide, dalle molte pareti di vetro inclinate, finestre blu come mare profondo perennemente ghiacciato in tessere, come tesori mai visti o acidi letali. Blu, riflesso, vetro, non si sa se è cielo e il volatore lo impatta. Ma quella piramide, da quel che ricordava, si trovava da tutt’altra parte. Un’altra zona di Aprilia la ospitava, non quella là. L’insetto volava forse attraverso un sogno, che cambiava di posto alle cose, oppure ancor più stranamente attraverso epoche diverse, e lungo la sua via incontrava cose che non dovevano esserci. Una bicicletta, ma sembra che abbia suonato il clacson. Un ritardo, una mescolanza di suoni di momenti diversi? Quanto diversi? Era il clacson della macchina passata prima, dislocato soltanto di pochi minuti, oppure era un clacson di vent’anni fa, ultimo grido prima di un incidente, in questa o in tutt’altra zona? Stessa frequenza magari, di un clacson che ha fatto incidente davanti alla piramide, per questo la vede qui. O semplicemente, o addirittura, una bicicletta mutante, un ibrido ignoto che poteva produrre quel verso, una chimera deforme di ruote e ingranaggi. Tutto questo provava l’insetto, questo sovrapporsi di indovinelli irrisolvibili. Tutto questo era forse l’effetto del suo stordimento sensoriale senza ritorno, del trauma percettivo che un troppo piccolo essere pativa nella troppo brusca transizione dal nulla -il buio di una tana o il nulla inesorabile di un immenso parcheggio, precedente al caos primordiale- al cuore frenetico di volontà in contrasto della quotidianità apriliana. I movimenti sulla superficie manovrati dal fango là sotto, vendicativo, capace di pazientare millenni in attesa del suo colpo. Malevolo, causa questo deliberatamente. Se si è troppo piccoli se ne cade vittima. Ci si mescola nelle epoche, tra i sogni e la realtà.
E allora l’insetto credeva di volare in cerca di un riparo, ma scivolava attraverso un sogno, o forse quel sogno era Aprilia stessa o il volere di lei. Maledetta, edificata su un territorio maledetto. Gli spiriti paludosi repressi, esiliati, attuano dal primo momento il loro gioco manipolativo. Vola, insetto, vola, fa il tifo anche lei. Stordisciti, come tutti gli insetti, delle luci sovrabbondanti, dei rumori freddi come metallo divoratore di foreste, di odori catramosi dove ribollono carcasse scomparse. E da stordito goditi il tuo viaggio drogato.
Una brusca svolta al prossimo incrocio. Risalendo quella via, diverse centinaia di metri, si sarebbe ritrovato alla piazza, presso quello spazioso edificio arancione. Là dentro? Era fresco come una vera tana di insetto. Troppi piccioni, ma non sempre erano vigili. Avrebbe potuto intrufolarsi, le porte spesso aperte. O, addirittura, usare come riparo l’uomo bucherellato. Strisciare dentro una di quelle fessure, usare le sue spoglie pietrose come un bozzolo, un sarcofago dove attendere i tempi. Passano pochi spifferi, la cavità è fresca e accogliente, oscura come una carezza dentro l’addome, i raggi del sole penetrano attraverso quei tanti occhielli seghettati (seghettati quando? La statua non era stata sostituita? O sono forse passati pochi anni dai proiettili?). Riuscirne un giorno lontano, quando tutto -qualunque cosa fosse- sarebbe cessato, ormai calmo. E così facendo magari completare una metamorfosi, assumendo quella stessa forma, alata, armata di pungiglione, alta: immune agli inganni che la città riserva alla microvita. Doveva raggiungere comunque la zona della piazza. Lo avevano detto i palmidroni, quegli esseri del futuro, eppure così primitivi: anche il cervello dell’insetto, rozzo ma non meno complesso, come negli umani andava a plasmarsi sui luoghi. Aprilia è il mondo, ci governa e controlla.
Andò a sbattere. Praticamente impossibile per un insetto non finir vittima della durezza dei vetri onnipresenti, dei falsi cieli. Un altro palazzo che non doveva essere qui. Un altro colpo. Era la piramide che si spostava, l’aveva inseguito? Attraverso la superficie vitrea, come un lago increspato, un fondale ammantato del suo blu micidiale mostra opachi movimenti di umani che si voltano per pochi secondi, udendo le testate attutite dell’insetto. Identificata la causa, laconicamente tornano ai loro affari. Un altro colpo, e l’insetto indietreggia, cercando di individuare un apertura grazie alla distanza, sembra far retromarcia pazientemente. Ma non c’è rimedio, ogni volta che retrocede e si riavvicina finisce per andare a sbattere di nuovo, produce un movimento indugiante, una sinusoide di cozzi. Già reso ridicolo e impotente. Finché, reso completamente cieco da innumerevoli capogiri, muovendosi senza criterio per la sola volontà dell’istinto e dell’inerzia, per caso finisce in una vera apertura. Il corpo passa attraverso due lamine scure, non trova un ostacolo: ma invece di condurlo lontano dalle pareti trasparenti, fuori attraverso la via che percorreva in volo, questa apertura lo getta all’interno, al chiuso, con brutalità inaudita. Venti, tempeste, caldo e freddo, si affrontano qui dentro, scaraventano e soffiano, trascinano verso l’alto come eruzioni di geyser. Un condotto di aerazione. Buio, molto buio, pareti anch’esse perfettamente geometriche e stringenti, soffocanti, i sensi dell’insetto non possono librarsi nella loro efficacia. Non è un’oscurità benevola. Il sogno diventa un incubo, il vento sembra quello che avvertiva crescere là fuori nel meteo incerto, quel presagio bizzarro, ma qui cresciuto a dismisura. Forse in queste budella dentro al vetro e al cemento, queste voraci trappole d’acciaio e tempesta, il tempo è accelerato, il vento già spira al suo estremo limite, dopo anni di crescita nella violenza. E i poveri sensi dell’insetto sono drogati, accentuando la sensazione che i secondi i minuti i lustri i millenni precipitino inesorabili attraverso i cerchi di un vortice, riaffiorando ora gli uni ora gli altri, senza altra linea lungo la quale disporsi che quella anarchica del caos. Per questo, quando riemerge dal suo lungo esilio in quella profondità burrascosa, in un’ampia aula conferenze, ode gli umani discutere di un progetto futuro, quando la grande città col nome di Aprilia necessita di una rete metropolitana. Fuori brilla un sole malato, la gelida aria condizionata che avvolge i quadri eleganti e le piante da vaso languisce sforzandosi di uscire sempre uguale e corretta, prosciuga la terra; al mondo compaiono i primi palmidroni, uno, due, e così via; quasi tutti i servizi pubblici e l’arbitrio dei cittadini sono sotto il controllo di una malvagità avida, che distribuisce i suoi personaggi senz’anima a ogni angolo delle strade, e ogni giorno appicca incendi tossici diffondendo malnate epidemie; e ancora (per poco) non sono giunti i conquistatori dal ronzio tossico e gli sciami di risate, che apparvero già a un osservatore della cui esistenza è ormai svanita ogni traccia.
C’era un angoletto insulso, una scanalatura polverosa e insignificante, che percorreva un lato di una di quelle scatole piene di rimbombi, dove il vento non soffiava; o meglio, questo era sempre inarrestabile, ora caldo, ora freddo, furente di furie mutevoli. Ma in quell’angoletto, appena più scavato rispetto al livello costante dell’incavo nello spigolo del lungo parallelepipedo metallico, nasceva per l’insetto un punto in cui acquattarsi ed evitare l’impatto diretto con le sferzate. In alcuni momenti gli sfioravano il dorso corazzato, consumando un po’ le ali. Ma doveva resistere, e non poteva esistere in quegli inferi un luogo migliore in cui sostare al riparo. Così si era rannicchiato lì e aveva atteso, atteso interminabilmente. Non mangiava, non beveva. Tutto era buio e non c’era altro. L’oscurità era tutto, l’oscurità densa era il mondo. Il cervello diventava come l’oscurità, una poltiglia di nero informe e folli ombre proiettate dalla solitudine, bisognosa di un minimo dinamismo, foss’anche quello di un incubo. Solo immobilità contrita, pazienza e terrore. Non fame, non sete. Il sonno pressoché indistinguibile dalla veglia. Alla fine, l’insetto aveva trovato quello che stava cercando: un riparo.
Non era possibile che l’aria multiforme incedesse sempre allo stesso ritmo ossessivo, doveva calare ogni tanto, diminuire d’intensità. Difatti questo accadeva, ma l’insetto aveva troppa paura. Ogni qual volta avvertiva che il vento sfrusciante sul dorso andava a rallentare, a farsi meno denso di particelle inferocite, titubava ad alzarsi. Non voleva rischiare che una volta messosi in cammino la tempesta riprendesse. E sapeva anche che non era tutta oscurità: quelle minime forme distinguibili, nel contenitore tutto uguale, che ogni tanto affioravano, dovevano esser tali a causa di una luce lontana, dal fondo remoto di un tunnel. Ma era più abituato a ripararsi nel buio, e non sentiva il momento di abbandonare il riparo… si era nascosto, pensava per sempre, e nascondendosi aveva fatto sì che si nascondesse anche un pezzo della sua mente. Gettato, rinchiuso in un pozzo, dimenticato. Non sapeva immaginare più la sua esistenza fuori dalla sedentarietà asfissiante nel profondo, com’era stata prima, il polline e il vento libero, la pioggia. Umidità: ce n’era, ma non muffita: un odioso e onnipresente sentore chimico acidino impediva alle muffe di proliferare. L’umidità consisteva in sparute goccioline, sudore di frescura sterile, che scintillavano lacrimevoli nella penombra. Anche queste dovevano provenire da qualche parte. Avrebbe potuto strisciare, arrancare e raggiungerle, puntare le cornette da qualche parte. Un nuovo obiettivo. Ma raggiunta la stasi del rifugio faceva troppa fatica, anche a pensare, anche a generare un’intenzione. Si convinse di non esistere. Regredito all’uovo o la larva -non un individuo, nella filosofia di alcuni esseri del nuovo mondo e della nuova spietatezza, diversa, rara.
E senza che nulla accadesse, un giorno (cos’è un giorno?) mutò comportamento. Così come si era rassegnato, sfinito dal continuo tormento dei sensi allucinati, all’improvviso aveva deciso di alzarsi e proseguire lungo il condotto, diretto al suo termine. C’erano state tante volte (quante?) in cui il vento viziato aveva ceduto ampi spazi alla bonaccia, e in ciascuna di queste volte l’insetto avrebbe potuto sollevarsi e procedere indisturbato, raggiungendo l’esterno -in realtà un altro interno- e dunque una diversa fase. Un passaggio rispetto allo stadio neolarvale. Invece non si era mai alzato, senza motivo aveva rinunciato, pur se in minime sue parti consapevole della possibilità. Forse, banalmente, era più facile restare nel cantuccio. O forse c’era qualcos’altro, forse qualcosa di misterioso e inspiegabile si insinuava nell’essere di chi era sprofondato nel nulla di cui si è dimenticato l’ingresso, nell’abisso segreto presente in qualsiasi punto del cosmo spietato, ma la cui voragine si apre solo a pochi eroi di favole in momenti e luoghi prescelti. Fatto sta che a un certo punto, così per caso, i passetti gommosi delle sei zampe sottili proseguivano in salita -il condotto si inclinava e più in alto tornava in piano, nell’ultima trave che conduceva direttamente allo sbocco nell’aula conferenze; ma dalle radici del pendio non era visibile il tratto orizzontale e non era visibile la luce penetrante al suo interno. Le cose si distinguevano talvolta grazie a infiniti rimbalzi, del tutto fortuiti, delle onde luminose o corpuscoli raminghi attraverso l’inclinazione ripida e i numerosi contorcimenti del labirinto gonfio di turbolenze. Doveva salire ancora molto prima di vedere la luce. E infatti, senza farsi poi tanti problemi, l’insetto saliva. Sgombro da dubbi e fardelli, c’era solo da salire. Che altro poteva esserci al mondo?
Così la luce comparve. Nella grande distanza, un singolo occhio bianco, lucido in fondo come il termine ultimo di ogni cosa al mondo. Un odore nuovo, strano, dalle molte sfumature: nuova aria artificale, sempre fresca come acqua di dighe, la zuffa tra polveri e unguenti loro nemici, terriccio e linfa in cattività, metalli, stoffe e sotto di esse carni pulsanti che continuamente reiterano il proprio aroma attraverso esalazioni d’ogni specie, e infine qualcosa che assomigliava a una percentuale di aria dall’esterno: un intruglio non necessariamente spiacevole. Arrivava come un’ondata sul volto cornuto dell’insetto, rifluiva intorno al corpo, avvolgendolo tutto. Infondeva un ricordo ai bordi delle ali, che impercettibilmente cominciavano a fremere e battere come se eccitati da un’estasi cavata fuori da chissà dove, eppure così familiare. La distanza si accorciava nella tranquillità. Il vento sembrava del tutto scomparso, una storia spaventosa ormai lontana. “Ah, sì, c’era una volta un vento furibondo, dalle teste di un’idra e i ruggiti di mostri notturni. Chissà che fine ha fatto ora. Secondo alcuni è solo una leggenda.”
Nella vicinanza l’uscita assumeva sfaccettature che all’apparire primo della luce si perdevano nel suo semplice rifulgere chiaro e globulare. Da occhio singolo all’altro capo di uno strettissimo tubo, prendeva forma rettangolare, dotata di spigoli. Da omogeneo e sempre spalancato che era, mostrava ora tante ciglia parallele, attraverso cui la luminosità si frammentava in lame fendenti l’ombra più periferica. Raggiunta l’estremità, l’insetto attraversò queste strisce di luce sul terreno, sentendosele sulla pelle coperta come un tiepido solletico. Poi, ormai senza più alcun istinto di fermarsi, compì lo sforzo di arrampicarsi su queste grate, passarvi attraverso, e uscirne fuori. Per ripiombare dentro. L’insetto cadde dall’altra parte. Batté capofitto su una superficie dura -sembrava legno- e rimase lì accasciato. Subito dopo esser stato investito da un chiarore frastornante, la più solenne opposizione al ventre della sua reclusione, annegò in un letargo profondo. Nel mondo in cui il sonno tornava ad avere una sua ragion d’essere, non aveva tardato a impadronirsi della coscienza dell’insetto. O sarebbe meglio dire a riprendersi il suo meritato posto dopo una lunga assenza.
L’aria condizionata era accesa freddissima. L’emersione tra le forme dell’esperienza era un eccesso di bianco. Un’altra forma del vuoto in cui i dettagli dovevano faticare per separarsi. Al risveglio, non distingueva bene nulla di ciò che aveva intorno. Un mal di testa, una sinestesia febbrile spiraleggiava le confusioni uditive e olfattive da una tempia dolorante all’altra. Tutto era un ronzio attutito, un fischio di sottofondo. E intanto la vista ricomponeva qua e là qualche fumoso contorno senza padrone. Naturalmente, provenendo dalla tenebra e la prigionia, una stanza ampia e ben illuminata rappresentava un notevole shock. Lo sarebbe stato comunque, ma per diversi motivi: ora non era il sovraccarico di input, ma il letargico riabituarsi alla loro ricezione, la paralizzata lentezza che si impiegava a captare anche il più vicino stimolo, distinguerlo da quell’ondata accecante di bianco monopolio. Cominciava a sentire -ma non sarebbe riuscito a ricomporre del tutto, al massimo delle sue possibilità, la scena in cui si trovava prima di lasciare la stanza-, con le zampe rabbrividite tastava il legno sotto. Era su una mensoletta di legno verniciato bianco, come la parete, come tutto. Piuttosto rialzata. Di fianco, ombre monolitiche, libri mai aperti ma costantemente spolverati, depliant, brochure. Gli animali di grossa taglia nella stanza non vedevano l’insetto, erano più in basso. Umani: è tutto confuso, ma li si può identificare con certezza per via dell’odore sentito in galleria, inconfondibile incontro di stoffe e quella carne unta nutrita di strane sostanze. Per via di qualche parola del loro linguaggio balenante qua e là, in mezzo a tutti gli altri frammenti del ronzio generale. Forse, senza rendersene conto, l’insetto ronzava in risposta, per impulso e per confusione. Istinti riproduttivi inscrivevano nel suo dna i testi delle canzoni di accoppiamento, sottostanti al comando di librarsi sempre per rispondere ad altri ronzii. Ma gli umani parlavano ad alta voce, discutevano, e molti rumori -messaggi, passi, ventole d’aria o hardware, clacson per strada- coprivano la debole canzone ubriaca dell’insetto, stremato sebbene al suo miglior picco d’energia in tempi recenti, dopo la lunga dormita. Cominciò ad accorgersi che percepiva anche qualcos’altro, che contribuiva ad accrescere la quantità di immagini nella sua testa, e dunque a sgominare gradualmente la totalità del bianco. Accanto a ciascun elemento -un suono, un movimento, una sagoma- vedeva un’ombra. Non un’ombra materiale, ma… qualcosa che ricordava la tenebra interna al condotto d’aerazione, certe di quelle tenebre mobili che forse si creava da solo per la disperazione. Continuavano a seguirlo, dunque, o c’erano sempre state e la sua vista si era solo abituata a riconoscerle? Qualunque cosa facesse ognuno di questi elementi, la loro ombra si comportava diversamente. Uno scatto a destra, e quella irrigidiva sul posto oppure svolazzava a sinistra; un odore amaro, e l’altra stillava un olezzo dolce e insidioso; un discorso pronunciato da labbra carnose, cambiava completamente quando schiuso da un foro aperto in una sottile nube senziente, uno spettro quasi inesistente.
Nel biancore esisteva un tavolo. Tavolata lunga, curvilinea, tante sedie girevoli attorno. Alcune vuote. Oscillano, mollemente, corpi stravaccati su di esse, imprimono forza a un singolo piede attaccato a terra e si cullano così nel bel mezzo di discorsi importanti. Evidentemente a loro agio. Quadri astratti, quadri per nulla astratti, cioè floreali. Pianta: verde, gambi grassi e foglie larghe, tanti pallini marroni granulosi nel vaso. Schermo per le proiezioni, spento. Un calendario. C’è un’immagine. Ma quello è l’uomo grigio! Non c’è dubbio, è un calendario che celebra la città, e quella è la statua. Perché delle dita battono insistentemente su di essa? Lo indicava per sottolineare un passaggio. L’uomo tarchiato a cui appartengono sta davvero facendo un discorso su San Michele davanti a tanti figuri vestiti elegantemente, in un’aula con l’aria condizionata e una parete di vetro nel cuore di Aprilia? Certo non parevano gente di chiesa.
-è un simbolo, IL simbolo imprescindibile. Uscire dal sottopassaggio, e ritrovarselo sul lato opposto della strada, che attende fermo e guarda: “sì, cittadino, ti riconosco e ti saluto”. La fermata “San Michele”. Qualsiasi progetto pubblico, anche ferroviario, deve tener conto dell’immagine. Specie se è così importante.
Una voce ringhiosa e porcina, in cui si incontravano l’idealismo di un’aurea gloria quasi patriottica e un gretto attaccamento a soldi di ogni provenienza. Si sopraffacevano di continuo.
L’ombra della voce faceva eco con un discorso molto diverso e strano.
“ho fame. Fame di terra. Si deve sprigionare il buio là sotto.”
Poi parlò un’altra figura di carne e ossa. Alzava il tono, e si alzava in piedi, pareva all’insetto nel caos di silhouette.
-no, è assurdo. I contatti con l’amministrazione di quartiere sono stati presi con approvazione unanime, e gli accordi per la fermata dei Lauri ormai conclusi. Sarebbe ridicolo, un treno del genere impiegherebbe dieci secondi da una fermata all’altra. Ridicolo! Se ci tenevi così tanto, avresti dovuto farti avanti e opporti al momento della discussione di quel progetto.
Una voce precisa, smilza. Si intuivano le sue abituali frequenze monotone e cerebrali, ora soggette a una sorprendente deformazione. Demandavano, esigevano, dileggiavano l’incapacità di comprensione negli altri. Sbalzi acuti in un continuum rauco che perdeva la sua imparzialità, ritenuta da tutti così affidabile.
L’ombra della voce faceva eco con un discorso molto diverso e strano.
“sarà un’oltraggio alla palude, oppure la sua vittoria. Troveremo acqua melmosa sepolta?”
-e perché non posso avere entrambe le fermate? Perché l’hai detto tu? Questo, è ridicolo! Privare gli apriliani di una fermata col nome di Via dei Lauri, e di un’altra col nome del patrono. Sono entrambe azioni criminali.
“lo vogliamo, o lo temiamo?”
-ma ti rendi conto della quantità di denaro, materiali, manodopera, pratiche, accordi, e ancora materiali, e denaro, e tutto per coprire una distanza irrisoria, e… oddio!- l’uomo magro e alto si mise le mani nei radi capelli. Gli occhiali sottili quasi scivolarono dalla punta del naso affusolato. -sei un totale incosciente! Credi che la costruzione di una metropolitana sia un gioco? Come un bambino!
“sotto Aprilia, l’inferno. Fatto di stagni salmastri.”
-tu, vecchio mio, hai un tale eccesso di buonsenso che sotto sotto non sai come funziona la politica.
“sotto Aprilia, nuova tana per demoni. Sotto Aprilia…”
-e tu dovresti andartene a progettare le giostre in Via Caligola, che meglio si confanno alla tua età mentale.
“...una serpe sferragliante…”
-coglione!
“...che striscia in quel cosmo…”
-testa di cazzo!
“...che è la nostra città.”
-oooh, state buoni…-, intervenne ferma una voce di donna, mascolina, tabagista. Aveva previsto lo sfociare nelle volgarità, contro le quali sembrava nutrire un’avversione battagliera, almeno in simili contesti.
Anche l’ombra della sua voce faceva eco con un discorso molto diverso e strano.
“vaffanculo, città di merda.”
L’insetto non sapeva leggere la data sul calendario. Quelli volevano costruire una metropolitana ad Aprilia. Il fango sapeva. Le sue melmose direttive avevano voluto smuovere la crosta, poi le bestie, poi il vento e il meteo. Questo col favore di mefitici spiriti d’acquitrino si era mobilitato molto in anticipo, preludendo i cambiamenti della terra. Le future temperature, il calore insopportabile per gli esseri della nostra epoca. Una regressione a un fuoco antico, da non farsi nemico dell’acqua e dell’umido bensì suo alleato: alleato nell’impoverimento e la devastazione, nella dittatura del vuoto d’ogni cosa che non fosse desolazione. Le industrie a perdita d’occhio, un tutt’uno di liquami sia naturali che chimici, i fumi otturanti il cielo, le piogge acide, e ancora il caldo di una fornace sregolata. I palmidroni, strane creature, un po’ uccello, un po’ rettile, comparse chissà quando e in chissà quale frazione in periferia, potevano capire il messaggio del vento. L’Individuo1, intelligente e adattabile, attraverso i suoi movimenti; l’Individuo2, ingannevole e antagonistico, attraverso l’eterna ribellione insita nella sua parola. E poi tutti gli altri palmidroni dopo di loro, in futuro ce ne sarebbero stati così tanti, prolifici come ratti. Uno degli addetti al progetto, lì presente nell’aula al momento della discussione, avrebbe in seguito fatto fuoco con piacere su molti di quegli esemplari che si riunivano in colonie chiassose in un prato d’erbacce dietro casa sua, a Campodicarne: c’era da liberare il terreno, rivoltarlo, cominciare anche lì dei lavori di scavo, fermata Turbogas. Come del resto era stato fatto anche a Carano, una prima carneficina. Si diceva anche che fossero stati fatti spolverini del piumaggio bruno e grigio, e pezze per lavare la macchina della pelle seccata.
“dopo i palmidroni, verrà qualcosa di peggio. Qualcosa che non avrà bisogno di fucili per sterminare.”
Così disse a un certo punto, facendo un discorso diverso e strano, l’ombra di una di quelle voci che si parlavano addosso di bilanci, consensi, pianificazione.
L’insetto era stremato come si trovasse in fondo alla più definitiva sconfitta. Tutto era assurdo. Tornava pian piano a essere l’insetto che era sempre stato: intontito non perché era recentemente riemerso da un incubo interminabile, ma solo perché era un normalissimo insetto, che si stordisce in una stanza piena di faretti circolari, rumori, animali giganteschi che puzzano e rombano. Peraltro parlavano di cose impensabili, se le avesse capite. Ma gli erano sufficienti i discorsi delle ombre, che comprendeva benissimo, e che sperava fossero un sintomo solo temporaneo. Ritornava l’istinto che, molto semplicemente, comunicava questo: “vattene. Non appena senti di avere forze a sufficienza”. Inclinò il capo come soleva fare in volo: le protuberanze lunghe e testarde puntavano ora verso un nuovo obiettivo, finalmente. Strusciò le zampe posteriori, mise in moto le ali. Partì in volo. Molte grida terrificanti, molte ombre di quelle grida, terrificanti e strane.
-che cazzo è?
“vogliamo la profondità del sottosuolo”
-un moscone…
“divoreremo le viscere della terra”
-macché moscone! Ma l’hai visto che bestia!?
“schiacceremo. Così per i palmidroni…”
-oddio, che è un’ape, un calabrone? Io ho l’allergia!
“...come per ogni insetto che si muova.”
-ma è nero!
“e l’avremo.”
-un tafano?
“il fango vuol che si risvegli l'assopito là sotto.”
-ao e sticazzi, ammazzatelo!
“per questo la metropolitana: nel buio, si evocherà qualcosa.”
Un colpo degno di un battitore. Finalmente qualcuno usava una di quelle brochure. Non si sarebbe detto, sottili com’erano, ma quella carta faceva male, simile a una frusta. Lo videro, disorientato sul tavolo. La vetrata non era lontana, l’insetto percepiva la luce dell’esterno, ma non la direzione di provenienza. Tutto era terribile.
-oddio che schifo! Oddio oddio oddio oddio…
“paura.”
-c’ha le corna, ma che cazzo è!
“sogno.”
-e ammazzatelo, cristo iddio…
“incubo…?”
-che sei scemo? Io non la pulisco sta schifezza enorme spiaccicata sul tavolo nuovo…potrebbe corrodere, o fare una puzza tremenda!
“sbagli: benedizione.”
-apri la finestra, e non se ne parla più.
“anche Aprilia con le sue leggende.”
-vai, esci! Non vedi che è aperto? Esci, esci!
“e una storia. e una metro.”
Dopo una spinta, era a terra, laddove la parete vetrata si congiungeva al pavimento. La moquette urticava anche attraverso la spessa corazza: in fondo, era un insetto molto fragile.
-sto rincoglionito! Che schifo, madonna…
Un calcio. Un graffio dalle tende a pannello. Completamente per caso, si ritrovò fuori. Volò via, deciso, veloce, sperando di andare il più lontano possibile. Il vento era putrido, ma riconosceva qualcosa. La mente tornava finalmente a plasmarsi su Aprilia, che era cambiata, certo; ma alcune cose rimanevano, e forse attraverso esse poteva far ritorno alla sua epoca. La statua: sapeva per certo che c’era la statua. E forse aveva i buchi. Ripararsi, attendere, e uscir fuori in un mondo diverso. Era già successo. E, sembrava adesso, tutto nell’arco di una giornata.
-tutto sto casino pe un bacarozzo!-, ringhiò l’uomo tarchiato dalla voce porcina, giochicchiando con la barba unta sotto la pappagorgia.
-hai fatto più casino tu di lui.-, sentenziò il vecchio smilzo ma energico.
-voi due, avete rotto il cazzo.-, si concesse la donna dai capelli rossi e gli occhiali di tartaruga, accanita fumatrice che detestava veder mescolate professionalità e volgarità.
Sul pavimento si contorceva una sostanza collosa, viscida e inerme. Uova vive, o larve, venute al mondo nell’appiccicume, subito trafitto da irsuti peli di moquette. Prematuramente penetrata la loro cullante membrana, si affannavano, disgustosi agli occhi di altissimi esseri dediti allo sterminio. Che ne sarebbe stato di loro? Nessuna madre in giro. Dov’era? Ce l’avevano? Persa in un’allucinazione priva di limiti, cominciata ad Aprilia, passata per l’abisso e culminata di nuovo ad Aprilia, aveva dimenticato i piccoli respiri dentro il grembo e la loro attesa di uscire. La parte che avevano avuto nell’intenzione di ricerca di un rifugio. L’istinto inconsapevole di trattenerli ancora, per non farli venire al mondo in una tenebra maledetta. E invece, colpi violenti e un rinnovato stordimento avevano deciso il parto per lei. Tessuti molli, linfe, embrioni erano volati fuori, sparpagliati, forse continuavano a caderle da dietro mentre volava via. Ed erano venuti al mondo in un posto probabilmente peggiore della tenebra; ma forse dalla madre avevano anche ereditato la capacità di comprendere ciò che alla tenebra assomigliava: quelle ombre, infinite ombre che danzavano come magre nubi attorno a ogni cosa che si parava davanti agli occhietti atrofizzati, entusiasti di aprirsi e vedere. Magari le ombre e i loro discorsi li avrebbero aiutati, con qualche suggerimento. Avrebbero saputo discernere le falsità dei discorsi che restavano in superficie, fuoriusciti dalle labbra di carne. Avrebbero individuato il pericolo prima della madre.
…
..epilogo- impulso a scrivere, di nuovo prologo: ciclicamente..
Sono appoggiato alla macchina. Tornato da poco in città. Su, nel nord, le paludi non hanno lo stesso odore. Come si fa, penso, a non sentirne il tanfo, meraviglioso nel suo orgoglio impettito, quando si guarda questa paglia scolorita ai lati della Pontina? Non appena gli si dà un po’ di spazio, il canneto regna sovrano, guarda l’Italcarni dall’altro lato, si gloria dei venti umidi e della guazza piena di larve di zanzara. E nessuno è vincente alla stessa maniera. Ma ora lo vedo da lontano, con la coda dell’occhio a un angolo del campo visivo. Sono coi piedi sullo spiazzo asfaltato e vedo la doppia fila sfrecciarmi davanti nell’incipiente arancione del pomeriggio tardo. La fiumana di macchine sotto l’aria torrida, densa di miraggi. Cosa apparirà nella distanza? Un animale selvatico -o randagio-, un nemico, ostacolo, in questa vastità sconfinata. Mi riscuoto: il meccanico ha fatto. Sì, è meglio che vada. Dopotutto, non dispone di un parcheggio che si possa definire tale. E, forse, ogni macchina è ansiosa di andarsene da un piccolo parcheggio poiché tende sempre, come ultima meta della propria esistenza, a un parcheggio immenso. Una prateria sconfinata, solo pali senza fili, blocchetti di gommapiuma, erbetta malata. C’è qualcosa, sì, ho appena descritto diversi elementi… eppure è il nulla. Squallore. Non finisce mai, non finisce mai il tempo nuvolo. Monto in macchina e vado: magari finisco in un parcheggio del genere e me ne sto a guardare l’orizzonte come un uccello, o qualcosa di alto e bipede che gli somiglia (vedo due palmidroni da lontano. Stanno all’erta. Esclamo: “hey!”, come si fa a un cane randagio. Saltano su, poi spiccando un balzo strano si uniscono a mezz’aria. Diventano un solo essere a due teste. Individuo3 se ne va, scappa via nell’immensa pianura). Chissà perchè, ho un dejavu. Il parcheggio di Bricoio che diventa la sola cosa visibile. Un oceano senza macchine, vuoto.
E in questo nulla mi ritorna in mente quella questione, che tra tutte quello che riporto negli Appunti Del Fango, difficilmente trova eguali nel senso di nausea ed emicrania che lascia. Spero che alcune di queste cose non siano vere. Spero che sia soltanto la conseguenza naturale di una fantasia innocente (Aprilia metropoli, ma suvvia) che, come ogni cosa di questo mondo, possiede un’ombra -che a noi umani appare spesso sgradevole. Perciò un’innocua fantasticheria diventa un racconto cupo.
Necessito di immaginare un sottosuolo più benevolo. Scendo le scale, il banale garage del palazzo. Alla fine, mi dico, le tenebre profonde si assomigliano tutte, e se posso immaginare una quiete qui, allora… no, basta così. Arresto i pensieri. Belle immagini vengono stimolate, mi cullo. Gocciolare, sì, gocce di umidità ticchettano come da stalattiti sul terreno freddo della cavità dove i rumori esterni sono attutiti, pare di stare a metri sotto il suolo e invece si è appena al livello del terreno. Un’ombra, forse un ratto. Creatura dagli occhi lucenti di sangue nel buio, fantastico. Fiochi fiati spettrali, strani bagliori, eco acquose, fresca umidità sulle superfici rugose tastate a tentoni. E la sensazione di poter avanzare, per centinaia di miglia, attraverso quel densissimo buio stretto tra un’auto parcheggiata e una pila di rottami (sono solo pochi metri alla saracinesca. Ma il buio è così fitto, così eterno… e quaggiù così pacifico). Tutto è come un sogno. Anche se più sotto riposano mostri mefitici, o cose ignote che non vanno immaginate né tantomeno liberate. Preferisco star quaggiù, per ora, che là fuori dove i rifiuti bruciano all’aperto, mortificando il cielo.
A volte il vento finisce sottoterra, spirando tra ventrigli intricati come lombrichi, ora caldo, ora freddo. Sono spifferi che si ficcano qui e rimangono imprigionati, come tutti prima o poi. Anche il fango imprigionato uscirà. E io a un certo punto risalirò le scale, e magari butterò giù qualche appunto.

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