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Gli Appunti Del Fango- alla vigna (tigre e Via Cattaneo)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 9 ott 2020
  • Tempo di lettura: 13 min

Aggiornamento: 10 ott 2020

Qui, ora.

Anche se precisamente si tratta di un po’ di tempo fa, non tantissimo. La vigna ormai è chiusa. Niente passeggiate o pigri sollazzi, sui teli stesi a terra o nel contatto diretto tra schiene e pagliuzze. Non ci si può nemmeno infiltrare, furtivi, a fare le bestiole longilinee di tane e roveti. Non posso più vedere quello che succede là, posso solo intuirlo, immaginare che la tigre ci sia ancora. O forse è morta. Comunque, le cose che dirò sono cose di allora, quando ci si poteva entrare.


Era proprietà privata, tecnicamente. Due di loro -che chiamerò qui Schröter e Gid per rispettarne la privacy- raccontarono di essere stati inseguiti una volta, forse da un fattore iroso armato di fucile a sale, una fiabetta di malandrini. Non si poteva entrare, ma la vigna era vasta, immensa sembrava: cosa potevamo essere noi, quattro cinque insignificanti studenti, piccoli, ombre di animaletti di passaggio? In così pochi sotto una fronda che ricopriva la piana e poi il pendio, una nebula di foglie e ombra fresca su un pezzo intero di campagna apriliana. Non ci trovavano, e neanche ci cercavano tanto era nulla la presenza, quelle volte che andavamo lì a cercare un orizzonte diverso, chiacchiere di futuri possibili, o impossibili, tragici rocamboleschi o ridicoli. Chiacchiere equivalenti a un riposo. Il sole sembrava mandar lampi, come lastre scintillanti della sua essenza che avanzavano, lente partendo dalla sua figura piatta disegnata nel cielo lontano, conficcate in terra ma mobili negli spiazzi aperti. Oppure filtrava inverdendosi, fotoni a tessere un velo che dava sensazione di rifugio, una voglia di campagna mancata nei giorni di studio. Era il quinto liceo e solo così noi desideravamo uscire allo scoperto, sotto la luce del giorno. Schröter aveva scoperto il passaggio in un peregrinare inquieto che a sua insaputa ricalcava i passi di viaggiatori dispersi nella palude. Ologrammi sul limo. E la palude, la sua volontà indomita che ancora gorgoglia dal basso, lo aveva condotto dove c’era un campo antico, una piana erbosa come un occhio tra pozze e melma, lago di prato rosso e verde; l’asfalto occupa la palpebra, i solchi svuotati d’acqua. Le impalcature dove si attorciglia la vite seguono a reticolo i fitti torrenti del passato. Solo un canale sopravvive, residuo di bonifica e piogge marce, nido di zanzare e liquami versati nelle nostre notti di crimini e fantasmi. Soffia, sibila di esalazioni la palude, una voce da dentro la testa: “in questo paesaggio, dal limite sassoso che sfuma tra il cimitero e le prime paglie, fino al confine del terreno coltivato dove un rialzo si riempie di boscaglia, voi potete fare una temporanea tana. Una tregua, una concessione mia. Non fatevi vedere da chi si illude di possedere la terra. rifugiatevi sotto le fronde oppure alzatevi ad ammirare la campagna circostante, sempre attenti a ciò che proviene dall’orizzonte e protetti dal perimetro del cimitero. Ciò che volete, perché lo voglio io.”

Così la palude aveva donato a Schröter, e Schröter aveva donato a noi la sua scoperta, non sapendo perché l’avesse fatta, o perché avesse deciso di donarcela. Come ho detto, eravamo piccoli, degli esserini in un organismo più grande fatto di acqua terra e verde, con sopra altre bestie. Anche il fattore era piccolo, e chi si guadagnava la vita pattugliando gli ettari, e i cani da guardia, tutti. Qui soltanto la terra è grande, soltanto gli spazi dove torna a sbirciare il pantano da sotto le strade e il cemento. Soltanto la terra è grande, e l’ombra del grande blocco del cimitero, il largo obelisco di morte sorge su una fanghiglia in cui già sprofondavano ossa.


Qui chiamo così, per ora, quelli che oltre a me si recavano lì, alternandosi o tutti insieme o con qualche assente: Schröter, Gid, Dronte, Tyrtov.

-questo campo è bellissimo,- disse Schröter -sembra una campagna russa che si vede dal treno. Ci vorrebbe una vecchia locomotiva ad Aprilia, che costeggia questa zona.

Gid disse una cazzata epocale che non sto qui a ripetere, ancora oggi importantissima. Dirò che conteneva una metamorfosi, qualcosa che si trasforma in bestia.

-stasera mi sa che mi ammazzo-, disse Dronte, sia in conseguenza della cazzata che in generale, più volte. Ma era un periodo in cui lo ripeteva spesso.

-mi sa che è ora di andare via-, disse Tyrtov, già in disparte in direzione dell’ultimo asfalto periferico del cimitero, con la decima sigaretta della giornata in mezzo alle poche parole laconiche.

-in questo posto c’è una tigre.-, dissi io, l’osservatore.

-non c’è nessuna tigre!-, canzona Schröter in quel suo modo in cui è solito approcciarsi per gioco a certe mie ipotesi assurde, volto un tempo a “tenermi a bada”, ad approvare sotto sotto quello che affermo e distaccarsene in quanto sa che in fondo dico proprio sul serio.

Non mi servono prove, sono l’osservatore. Non voglio con questo rivendicare un privilegio su chi di prove necessita, soltanto guadagnarmi diritto a vivere per come mi viene naturale vivere. Ho visto il pendio dove cresce la boscaglia, le colate di terra e i sentieri smangiucchiati che si intravedono tra fusti e fratte di salvie selvatiche, ho visto le erbe lunghe e serpeggianti come liane, il modo in cui l’ombra cade sull’erba da sopra alla coltre che ospita uve e viticci. Ho visto le zolle smosse da un elusivo passaggio, ho sentito gli odori acri freschi o incensati o speziati della flora verde oppure rossa d’autunno perenne. Sento la presenza. Nell’eco di tesi nervi nei latrati di distanti cani da guardia che la videro fuggire nell’erba alta, poche volte, rara come un gatto fantasma di leggenda. Gli uccelli si posano e si propaga il pulsare ansioso del loro cuore striminzito, unico in questa zona, sento la presenza della tigre nel modo dei fruscii tutt’intorno, anche quando strusciati dal vento o un ronzio di fondo riempie l’aria e il caos -è un suono molto frequente della città, sarà un’eredità dello sciaguattare della palude traslata in moderno vibrare cupo. Sono passato attraverso il luogo e ho sentito la tigre.


(“non c’è nessuna tigre!”, comincia il processo.)

Il suo territorio si espande da tutto il campo scosceso, a tutta la vigna e la boscaglia circostante. A differenza di un coccodrillo che stava qua ad Aprilia -ma in un’altra zona- molti anni fa e forse sin dalla preistoria, a differenza degli spettrelli d’acquitrino e un’arpia, insomma di molte strane presenze di cui ho scritto, questa tigre non è una abitatrice antica dell’area paludosa che si estende dal litorale alle falde dei colli albani. Non è nemmeno come i palmidroni, generati nel futuro prossimo, o gli invasori e padroni, o gli umani che in un certo secolo hanno colonizzato l’agro pontino. Non si sa come sia comparsa. Forse è una presenza quasi sempre solo d’ombra, sfuggente, che si profila sulle pareti più fonde della mente che vede la vigna e ci si muove dentro. Prima di allora non esiste, un po’ fuori da ogni tempo eccetto che per un presente ipotetico. Non caccia grossi ungulati, perché non ce ne sono attualmente in quella zona di Aprilia, e nemmeno ha mai cacciato i bufali d’acqua perché non viveva in quel passato dove essi brucavano giunchiglie, la metà inferiore del corpo immersa nella guazza. Prevalentemente cattura in sveltissimi agguati gli uccelli di bosco e i piccioni a riposo, rane e libellule, roditori, ricci, talpe, qualche coniglio sporadico. A volte mastica bacche dai cespugli. A volte non mangia nemmeno, forse più spesso di quanto sarebbe normale. Chiaramente, non è un grande esemplare come quelli che vivono d’alci e orsi nella steppa russa. Nella sua forma adulta ricorda ancora un esemplare giovane, l’altezza di un cane di grossa taglia. Queste caratteristiche e la rarità, la meraviglia di quando inaspettatamente compare o si fa percepire dall’intruso, la rendono evanescente, sottile. Una sfumatura del paesaggio. Dotata di artigli che lacerano.


(“bugiardo. Non c’è nulla che lacera.”)

E di fianco, il cimitero. “La vigna”, semplicemente denominata in questo modo, solenne e completa in se stessa neanche fosse l’universo, è una scoperta per la quale mi sento grato. Un riposo di morti e una tigre a passeggio tra le numerose piante, la striatura frastagliata negli steli. Questa è una nicchia speciale del fango. Un guscio buono aperto sopra, simile a una barchetta che galleggia sul limo viscoso, dove prender rifugio come una noce friabile. Farsi teneri come il contenuto del frutto che si protegge indurendosi. Qui mi libro, si libra ciò che rimane chiuso agli altri e nell’altrove, prende consistenza la mia polpa celata da strati di rugosa corteccia. Non significa che nascondo la debolezza al mondo, tutt’altro; significa che questo mondo, anche questo fango di cui sono osservatore, schiacciano sempre alcune cose. Non è solo nella vigna maestosa, il suo ecosistema pulsante, che sono piccolo. Lo sono ovunque, insignificante. Spenta la musica nelle orecchie, levate le cuffie come ogni volta che sul luogo dell’incontro arrivano gli amici, per consolarmi e circondarmi di note protettive tra me e me traccio una congiunzione con la canzone fermata e quella che proviene dal cassone-obelisco, dal cimitero. È un canto a una nota sola, elettrica o sitar, un coro di tutti i morti, non solo quelli che al mio sangue appartengono e qui sono custoditi, non solo quelli di tutti gli altri. È l’elegia di tutta la materia che non c’è più. Forse anche della tigre, ormai che la vigna è chiusa, o forse è sempre stata anche da prima il direttore d’orchestra.


(“difatti, non c’è direttore d’orchestra più idoneo.”)

(morta. Una tigre morta che è sempre stata la forza motrice del coro della materia morta. Regina felina dei morti.)

(“non è mai stata viva perché non è mai stata.”), (dice il processo.)


Dietro gli occhialetti blu insulsi, quasi si spezzano al vento, scendono due lacrime che gli altri non vedono. Si sentirebbero nel tono perciò sto zitto: non voglio per ora dover spiegare a nessuno, neanche a loro che sono fragili e solitari come me, l’effetto assurdo che mi fanno i cimiteri. Io questa canzone bellissima, per quanto è forte, non la reggo. Sale, sale, sale… è come aria tremula del miraggio, ancora una volta, questa immagine ricorrente. Dalle viscere della terra, gli ossari e le ceneri, fino al cielo, fin su nel cielo e le nuvole. Come un’ondata, un calore vuoto. Mi investe e mette i brividi, caccia l’acqua fuori dagli occhi a forza. Schröter si alza in piedi, poi Gid che fa qualche passo e si allontana verso un fitto di foglie strane, felci tondeggianti. Schröter apre le braccia e grida qualcosa di sciocco al cielo e la campagna, Gid piscia sulla base di un paletto, piscia su una proprietà privata e si scrolla le gambe da erba e insetti, tornano a ronzare insieme a scintillanti coleotteri sul fogliame.


(“perché non ti prendi le tue responsabilità? Perché continui a parlare di questa tigre? Non ti rendi conto che è immorale, che fa male agli altri?”)

(non capisco come.)

(“tu lo diresti a una persona che non conosci, un nuovo arrivato qui? Avresti il coraggio di guardare questa persona in faccia e dire che non lontano da Via Cattaneo c’è una tigre?”)

(chiunque sia è libero di non crederci, lo metterei subito in chiaro.)

(“non rispondi mai sì o no, vero? Rispondi sì o no.”)

(queste frasi mi danno l’orticaria nel sangue nelle vene e nel cervello.)

(“perché sei un egoista e un infantile.”)

(se fossi stato infantile avrei detto “che palle” già da molto tempo e invece sto qua a processo con te, con voi, che sei, che siete una parte di me che imita quello che secondo me sono gli altri, in pratica una roba terribile.)

(“perché sei irresponsabile.”)

(e tu sei un’idra del cazzo.)


Io e Dronte seduti a terra a un certo punto mettiamo della musica, non si sente benissimo dal cellulare ma è solo, mah, così, un breve momento di atmosfera artefatta. Poi si tornerà come è giusto alle poche cicale pacifiche, al vento, i fruscii e tutti quei suoni che mi dicono “tigre, tigre!”... i pezzi che ho scaricato io sono quasi tutti tristi. Dronte si fa assorbire dall’umore dolceamaro di “Holland 1945”, lo stesso sentimento del canto assordante del cimitero che per poco sovrastiamo. Poi del depressive black metal che fa tornare il discorso sul suicidio. Una morte finta, immatura, adolescenziale: non quella che si sente qua, trascinata da una belva esotica e dall’idea perversa e poetica di raccogliere tutti i cari defunti di tutta la gente in uno stesso posto. Non metto però la canzone che stavo ascoltando prima, foriera di una sofferenza un po’ più letterale (Suffer, è il titolo) che contiene quel sitar. Ci vorrebbe più calma, non questa specie di atmosfera sottintesa di gioco che si è diffusa da quando gli altri si sono alzati in piedi. Contemplazione seria, magari guardare in faccia qualche buddha in un delirio tantrico. Diventeremmo con quelle note un manipolo di paria dei tumuli, amanti dei morti e della vita, signori perfetti della solitudine e coi piedi nudi callosi.


(“non c’è nemmeno un coccodrillo, non c’è mai stato, non la tigre. Perché questi animali esotici? Sono così lontani che è palese che te li inventi, non trovi? Lo sai benissimo perché lo fai.”)

(io non faccio proprio niente, esprimo tra me e me, senza importunare nessuno, ciò che ci tengo a esprimere. Mica ci devono credere tutti, sono le mie verità.)

(“non puoi chiamarle verità se non ci credono tutti.”)

(oddio, ma veramente ci sono parti di me così mollusche da essersi lasciate contagiare da queste cagate di discorsi? E va bene, non ho mai visto né il coccodrillo della palude né la tigre. Posso comunque dire che li “sento”, no? è così, li sento, non devo per forza essere schizofrenico.)

(“e certo, a dire che una cosa la percepisci senza far riferimento ai sensi si può giustificare qualsiasi idiozia. Questa vaghezza, questa vaghezza noi la giudichiamo male.”)

(eh, pazienza, la tigre è sfuggente. È teorica, spettrale, astratta, un concetto o un’allegoria, anche se ha gli artigli che lasciano segni sulle cortecce e pesa sul terreno e cadono ciuffi di pelo rossiccio.)

(“ammetti che tutto questo non ha senso, fallo.”)

(per me non c’è niente di incoerente.)


Anche le fette di caldo, irrorate di sole giallo, sembrano pezzi d’ombra, un’ombra diversa. Nera e gialla, si alterna. La primavera è quasi al culmine ma un bombo ancora ondeggia sopra tulipani -ne crescono, in questa zona, erano la primavera di questi campi. E in questo periodo di primi guizzi di estate cominciamo a discutere di cosa potremmo fare all’orale della maturità, finché qualcuno non ribadisce giustamente che non è proprio il momento di parlare di cose tanto insulse. Lo disse Gid con nonchalance e una certa rivalsa implicita, e dopo anche Dronte con nichilismo annichilente. Non lo sanno, loro -si tratta di una mia osservazione arbitraria, un po’ per gioco-, ma hanno appena dato voce a importanti rivendicazioni personali per questo nostro gruppetto rurale, siamo ora spiriti protettori della natura. Alberi parlanti mezzi folletti custodi e guardiani della campagna, non per gli uomini che la possiedono ma per gratitudine all’esistenza stessa di questo principio di rigoglio, indipendente dall’umanità, così prezioso. La tigre continuerà ad aggirarsi anche con la scomparsa dell’umanità, pensavo guardandomi intorno e riempiendomi i polmoni di pollini ultimi; ora è un po’ diverso, avendo visto che è bastato che chiudessero la vigna per indurmi a dubitare circa lo stato corrente della tigre. Magari invece è proprio destinata a scomparire insieme agli uomini, giacché non esisteva nell’antica palude originaria. Non è figlia del fango, lei. Non obbedisce: forse è una ribellione, è ciò che mi si presentava a significare un margine temporaneo di fuga dai principi indistruttibili che padroneggiano questa esistenza (esistenza nel fango, qui ad Aprilia, sempre e inevitabilmente. C’è poesia, ma anche terrore, dal quale ogni tanto fuggire…). Sfuggente per quanto contemporanea agli uomini, questi forse hanno bisogno di vedere incarnata una sfuggenza, per una qualche mancanza interiore. E mentre così rifletto, che siano riflessioni attuali a vigna chiusa, sprangata, o le riflessioni di allora con le gambe incrociate a scaldarsi d’un contatto diretto col sole bucolico, continua il brusio parassita di un processo dentro la testa, avente una testa a sua volta, una roba con mille voci che in realtà sono una sola (la mia, a essere precisi, che ne imita un’altra ipotetica, di cui ha paura e fastidio). Vuole incastrarmi, vuole farmi ammettere delle cose credendo di cogliermi sconfitto, come ci fosse da parte mia una pretesa di qualche tipo nello scrivere questi appunti di cartaccia.


(“qual è il senso, qual è il senso?”)

(se anche ve lo dicessi non andrebbe bene perché aborrite le interpretazioni, i simboli, le allegorie, non ammettete che una cosa possa essere al tempo stesso di carne e di immagine.)

(“tanto è solo un desiderio di chiuderti per sempre dentro la tua testa. il tuo desiderio più grande, solo in compagnia dei tuoi pensieri, che hanno forma di animali.”)

(...però, niente male quest’ultima considerazione, davvero accurata. Per essere una conversazione snervante che mi sto anticipando da solo così da prepararmi a quando qualcun altro mi ci ficcherà dentro, hai saputo cogliere abbastanza bene un elemento non superficiale. Ma del resto è solo perché sei una parte di me, se sai certe cose. Se non lo fossi non potresti leggermi tanto bene quanto vuoi farmi credere per mettermi paura.)

((i miei pensieri hanno forma di animali. Gli appunti sono un bestiario.))

(“è ora di prendersi delle responsabilità. Nella verità c’è la responsabilità.”)

(sì, la verità fattuale. Ma cosa penserebbero gli spiriti della palude, e quelli che la abiteranno in futuro secondo i presagi, e l’animale sfuggente che non appartiene al fango -cosa penserebbero tutte queste entità, se all’improvviso cominciassi a dire solo per far contenti voi che loro non esistono, che sono un’invenzione eccetera eccetera? Che osservatore sarei?)

(“sei uno che si è messo nome osservatore per non usare il proprio in questi scritti di cui si vergogna.”)


(ma come si fa, vivendo in un posto del genere, pieno di vuoto e dove tutto è proiezione di un’estinta vita palustre -come si fa a non credere nei corpi ibridi di carne e immagine? Come si può mancare di sentire gli spiriti tra esalazioni, artificiali o gassose, e asfalti imbruniti da ombre di canneti sporgenti? Negli sprazzi di verde in mezzo alla città, o quando questa riempie tutto il visibile portando a impero il tedio immobile del granito… tutto questo è strano, è misterioso, è volere del fango, è un sogno. A volte noioso, a volte si manifesta la sua eccezionalità. Percorri una strada pontina di notte con fronde rachitiche sporgenti sui lati, seguila e perditi in un’oscurità infinita, più densa dei traumi più cupi. Passeggia alla vigna, sentila respirare. E soprattutto credi in tutto questo, quando cammini vicino a questo cimitero, questo tumulo, piana di sepoltura. Là dentro c’è una tomba su cui leggo il mio stesso nome, piena di ossa che mi somigliano o di quello che ne rimane, di fianco a cenere che una volta sentivo parlare e sorridermi, di fianco a infinite altre ceneri e polveri che componevano cose che potevano parlare e sorridere e giudicare e odiarmi o perfino volermi bene e venire con me in campagna o con qualcun altro prima di me in una catena tentacolare senza fine ma senza idea dell’infinito o del nulla. E canta oggi questa cenere, come allora, e sentendola cantare, non dovrei io credere in qualcosa che non si vede ma che mi sembra di percepire ogni giorno?)


-un giorno comprerò la vigna.

Schröter fa una delle sue sparate imprenditoriali; dice che ha comprato pure la Turbogas. Vigna e Turbogas, e possiedi due importanti generatori di importanti forze in gioco nel fango, bella mossa.

-ma infatti sì, andiamo a zappare la terra.

Dice Gid, tra mormorii di approvazione. Ce ne andiamo sotto il tramonto, in un bagliore rosso scomparirà tutto. I colori caldi e acquosi torneranno al lago d’erba sempre autunnale, al campo che sembra estendersi senza confini. Poche volte ancora tornerò da queste parti, prima che chiudano l’accesso alla vigna. Ricordo che in seguito con Dronte e Schröter esplorammo i dintorni del canale, dove indicai le postazioni d’agguato della tigre. Nel vento un tanfo sia di vera acqua stagnante che di inquinamento maledetto, orrendo; insieme però anche un sentore di fumo della sera, e aromi di fieno del crepuscolo. Un correre di passetti, topi di campagna. Pace e sporcizia di questa città e dei suoi pezzi di contado. Anche allora per effetto del cielo l’erba alta e i canneti sembravano rossi.

Mi separo dagli altri e marciando solo incontro alla notte sento spegnersi le voci dietro di me. Il cimitero ha tantissimi occhi che mi guardano, le ultime strofe dell’elegia le prendo come un saluto. Se chiudo gli occhi mi sembra di aver conficcati dentro un tralcio e una pelle striata, come iniettati dalla freccia di un bodhisattva arciere. Rimetto la canzone nelle cuffie e il sitar lancia un viavai di immagini defunte. Un rituale di gente un po’ selvatica attorno a un fuoco insulso, nella terra delle nebbie dove si seppellisce e ogni tanto scavano le creature vagabonde in cerca di resti.



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