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gli aghi

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 22 dic 2023
  • Tempo di lettura: 26 min

Aggiornamento: 14 nov 2024

Sempre nel clima di festa, brinoso nelle aiuole prive di neve e negli incroci tra le vie, si rende conto di quanto quel punto del corridoio sia la sua parte preferita della casa. Come nelle sale da concerto legno e curve architettoniche materializzano la manichea perfezione numerica delle composizioni, indirizzando le esclamazioni dell’orchestra verso una conca d’amplificazione naturale, tutto striscia fin lì, in un punto d’arrivo. Ed è bello star fermi a ricevere e basta. Le sembra che scandendosi col battito cardiaco, le vada coagulandosi dentro, in un vago centro, un ricordo, come quando, durante una febbre, s’accorge all’improvviso di tutte le cose bollenti nascoste nel suo corpo, mai dormienti, soltanto dimenticate. Ma non riuscirebbe a spiegare che cosa ricorda.


Un coro della chiesa, simile agli strascichi fibrillanti delle vesti neurali di un’emicrania, pulsa ancora negli angoli della mente, ove prende forma di candele bianche, numerose, disposte in file; e sembra che la loro luce di miraggio residuo s’amalgami a quella accennata dall’angolo in fondo, quella parte di salotto visibile, col bracciolo sbiadito della poltrona o forse del divano: improvvisamente umidori di parete e condense della finestra mandano odori d’acquasantiera, e un davanzale con bordi di simil pietra accoglie nella propria ruvidità bucherellata un gelo di preghiera sussurrata in raccoglimento nelle ore fuori dal sermone; si potrebbe poi perfino scorgere un sottile fumo come d’incenso librarsi dai profumi dell’interno, distribuiti in opposizione alla polvere dalle piante ornamentali, dai dolci speziati lasciati sfusi nei vassoi, dal prodotto chimico pruriginoso di cui è imbevuto il tappeto bruno-rossastro.

Quella stessa tinta di campi autunnali valica poi i confini rettangolari del tappeto e assottigliandosi striscia nel pavimento, nella libreria, in tutte le cose che si riempiono di segreti riflessi rubizzi: tutto è un albero coi rami secchi al vento libero di sferzare, e pernici e volpi in fuga tra spighe acuminate svettanti come aculei nel cielo biancogrigio, e qualcosa che fumiga nella campagna.

Così un tessuto di riflessi la raggiunge fin là, dov’è in piedi, circondandola: Ale si adagia, ha il vizio di lasciarsi abbandonare, d’appoggiare le spalle dove capita. E anche lì, senza punti d’appoggio, in piedi, riposa le membra in una teca o crisalide, nuova, da rinnovare ogni istante. Ale non si crede fifona, o non ci si sente ancora, non accarezza morbosamente le pareti delle crisalidi che si crea costantemente attorno come per ringraziarle, né per specchiarcisi dentro e innamorarsi del proprio riflesso: in questi giorni non si chiede affatto cosa la spinga a comportarsi così, l’abbandono è una ragione totale in se stessa, di quella specie di ragioni simili a microgalassie autosufficienti e internamente quiete nelle proprie leggi, al punto di riuscire più comode di cuscini. Le risposte giungono senza domande, facilitandole lo sprofondo in una membrana. E prendendo sonno nelle sue pareti, si sente il cuore calmo, pacificato come una serena cavità, simile all’interno stesso del bozzolo.


Ale sogna, in piedi nel corridoio, e tutto ciò ch’è nel suo sogno è anche reale, è il reale, da lei distillato, una bava capace di cristallizzare preparata per quando emergerà, volando via, lepidottera con ali di carta da parati, per poi morire, rinascere larvale, e ricominciare una vita di pareti -la sua parte preferita, in ibernazione. E in queste particolari pareti, dell’edificio in cui fa sempre ritorno dalla scuola o dai giochi, vengono integrati senza sforzo tutti i possibili guizzi di rossore: addobbi sparpagliati qua e là anche negli angoli più impensabili, maglioni di lana abbandonati su schienali in stanze troppo riscaldate, teche e credenze custodi di pezzi di tessuto fin troppo cerimoniale per questa casa in cui si mischiano storie contadine, storie operaie, storie borghesi, storie militari, aneddoti policefali e storie che s’incontrano tutte nelle carte da gioco che sente sfrigolare flessuosamente venendo scagliate sul tavolo, altro legno bruno color campagna fredda, altra cioccolata calda fumante in una stanza attigua, fluttuante in vassoio. Lei ne ha già bevuto, già si stufa del torpore appiccicoso rimasto agli angoli delle labbra. Ma non va a lavarsi i denti e rimuovere la scia zuccherina dalle labbra, troppo indifferente agli impacci del fisico, troppo presa da tutto, dalla musica. Non necessariamente si riferisce a quella che sente attraversare i muri spargendosi leggermente ubriaca dal vecchio pianoforte un po’ scordato, dalle dita di un parente taciturno che compare solo durante le festività. Non necessariamente qualcosa che graffia (il gatto è stato chiuso in un’altra stanza, per tenere le zampe lontane da cose che non avrebbe comunque toccato), non sa dove, non sa in che stanza a lei vicina, si è abituata a credere la casa abitata da scricchiolii liberi dall’obbligo opprimente d’avere per forza una sorgente: fanno la vita di spettri che si svegliano in un momento casuale, esistono per un po’ d’un esistenza incorporea, poi spariscono.


Certo, ci sono anche questi suoni. Ma sono una parte, una particella confusa nella miscela di musiche brunorosse di tutta la casa, degli altri corridoi paralleli a questo che palpitano simili a un ritmo condiviso tra vene vicine, lei immersa nel singolo flusso di sangue che s’è scelta; e musiche di bestemmie accompagnate da sospiri, “eh, almeno oggi no!”, e copioni ripetuti, “il solito culo” dei vincitori ai giochi ai quali -ne è contenta- non le viene chiesto di partecipare, godendo invece di una partecipazione tutta sua, che la riempie di gioia distaccata; nauseanti bagliori di brodi e carni e tuberi e spezie, il loro colore stilla grasso e appesantisce l’aria respirabile, sopprimendo perfino le ondate invisibili del caminetto. Qualcuno che ha calato una buona mano intona Adeste Fideles per pochi secondi con voce baritonale come per lanciare un ruggito di vittoria appositamente sincronizzato al periodo, e arraffa la sua vincita. Ale alza gli occhi e le sembra che un cristo che vola alto sopra di lei, appena sotto il soffitto (sempre in quel punto, sempre uguale, sempre morente, in qualsiasi periodo, re delle decorazioni) emetta dalle sue braccia di legno i ticchetti dell’orologio a pendolo, gli scricchiolii della casa, tutti quei rumori che, meno prevaricatori di quelli appartenenti all’esuberanza festiva, nondimeno non cessano mai di passare velocemente e nascondersi e spuntare tra gli anfratti del quotidiano.


E dire che tutto questo è il respiro flebile di una manciata di secondi, pensa Ale inconsapevolmente, senza scandire parole.


Nella crisalide di attesa, di solitudine quieta scontornata tra uno scossone e l’altro della lunga riunione famigliare -abbracci, inviti, banconote arrotolate sottobanco, tintinnii di bicchieri che le dicono esser veleno per lei-, Ale crede di essere amata, non sa da chi, non sa in che modo. Ma è come se anche in questa città che non diventa mai bianca, qualcosa scendesse dal cielo, no anzi, dal soffitto e dal pavimento e dai muri, per ricoprire e attutire tutto.


Ma deve già andare. Non perché l’abbiano chiamata (prima o poi succederà anche quello). È solo che non può più far aspettare oltre l’animale che è uscito dalle pareti.


-ale, ale, vieni qua-, ripete la voce ruvida, facendo roteare le vibrisse e i peli neri e d’argento del collo, che cerca di disincastrarsi all’indietro per far ritorno alla rientranza da cui è uscito e dove lei lo seguirà come in un tunnel. Potrebbe essere una frase che ripete senza rendersi conto, come i pappagalli o i cucù degli orologi, solo perché è la frase che deve dire, perché una bambina segua lui, bestia sconosciuta. Ma non c’è da temere né da sperare.


Ale guarda un’ultima volta in fondo al corridoio, crocevia di salotto, ingresso, cucina. Tra lo zerbino e la base del portaombrelli rotolano ancora eco di camminate nel viale o nella strada fredda per arrivarci, frammenti di terra e brina staccati da fantasmi di stivali che hanno varcato la soglia facendo tintinnare il campanello d’oro fioccato di rosso applicato alla parte superiore della porta. Tutto quanto succede nella casa intera, in questo e in altri momenti, risate alterchi sospiri un arpeggio di tradizione irlandese un fischio un borbottio un qualcosa che s’incrina inascoltato e inesorabili tristezze di donne di diverse età e canti liturgici, tutto è un’onda che confluisce in quel corridoio, e l’investe, e arriva dov’è lei, crisalidata, e sembra abbracciarla oppure scuoterla quasi fino a farla cadere, e per un momento, prima d’andarsene, sembra persino un’ombra, d’un nero che è la somma di tutti i colori campestri della casa calda, è il peso centuplicato d’ogni sua singola parte. Ma non fa in tempo a domandarsi che tipo d’ombra sia, se faccia paura, se la opprima, bassa com’è, se venga per catturarla, no: si è già voltata, sorridendo lievemente all’animale.


-ale, ale, andiamo.-, e Ale ripete muovendo solo le labbra senza emettere suono, “can’t let it wait any longer”, usando la nuova espressione inglese imparata e ripetuta durante uno degli ultimi giorni prima della chiusura delle scuole. Ale è sempre la prima a impararle e ciò la inorgoglisce. Continua a ripetersele, ogni tanto, da sola, dopo averle ascoltate la prima volta.


-..andiamo… brava… fa freddo, dove andiamo.-, avvisa l’animale, usando una cortesia selvatica senza affettazioni, e Ale afferra da una seggiola e un attaccapanni due sciarpe di lana bianca e vinaccia che non sa di chi siano. Le mette al collo, inforca poi dei guanti, e si arrampica nel buco che si è aperto tra lo stipite ligneo di una porta chiusa e una specie di altarino pagano della nonna tutto pieno di santini. Per meno di un secondo le ci cade l’occhio, non si ferma però a pensare ad aruspici in assorta lettura di visceri all’ombra d’un bosco etrusco e sotto l’approvante barba di un’effige di Padre Pio. Infila invece la testa dove è sparito il capoccione di quello strano animale e vede biancheggiare appena nel buio la punta della sua coda, già lontana laggiù in fondo.


Ale sistema i piedi e le ginocchia in modo da entrare assieme all’animale, tutto ricurvo, nella tana dentro l’albero. Anche il tunnel per arrivarci odorava di bosco e tutto arrivava ruvido al tatto, come a contare gli anni concentrici di un tronco risalito dall’interno. Ora gli occhioni ramati dell’animale le toccano la fronte con un brivido gelatinoso, le alita in bocca lanciandole un pungente solletico verticale nelle narici, e lei ride e si scuote tutta. Si vede tutto bene, pareti di corteccia beige simili a una luce nonnesca di abat-jour che non ha bisogno di alimentazione elettrica. E molto forte sente il pelo, lo sa ascoltare, la sinfonia di fruscii che s’accordano ondeggiando al respiro ampio, i colpetti che riceve dal ventre quasi incandescente, che a mantice si gonfia e le raggiunge il petto. Un sentore molto intenso -pioggia che intride le foglie, urina, vento invernale- si sparge netto, sollecitato al risveglio dagli spostamenti d’aria, quando la punta della coda, gironzolando inquieta per scacciare invisibili mosche, va a posarsi sul suo ombelico, facendole un altro solletico. Quanto tempo hanno trascorso in questo modo? Il tempo, dentro il tronco, diventa una questione strana. O lo è sempre stata?


-ma poi andiamo.-, dice l’animale.


-sì sì, poi andiamo.-, risponde Ale. Il dialogo si ripete più volte. Sembra quasi una prova, in attesa che ascoltino prima o poi davvero le parole che hanno detto, e se ne domandino il significato.


(o è sempre stata una questione strana? Valicare ticchettii, valicare le strutture dove si producono gli scricchiolii uditi, compagnia nella solitudine di ore dormienti, dentro pareti. Le strutture di legno e cemento sono strutture del giorno. Dei miei giorni. Sono nella pancia del giorno, del dietro, del sotto, del sopra, della soffitta, della cantina, dei buchi nel muro, del… del buco che ho fissato, visto aprirsi nel portaombrelli vuoto quel nero profondissimo, primo natale in cui ho scoperto il corridoio. Stavo ricurva con la testa che voleva entrarci, come una bimba che vuol cadere in un pozzo, solo per sentir gocciare la condensa una volta atterrata nel fondo, e vedere tutto d’uno stesso colore di acque sotterranee.)


Ale comincia a sentire mal di testa. Fa troppo caldo qui dentro, l’odore è troppo forte, e troppo rischioso è abituarcisi. Sembra di stare con quel martellio di fronte e tempie dei pomeriggi in cui la crisalide non le riusciva nel modo che prevedeva, e si ritrovava a pensare a cose più difficili del solito, non filtrate da protezioni che le trasformassero in sinestesie amichevoli.


(c’è un tasso-procione lungo sei metri dentro l’orologio? Il pendolo, la sveglia, tutti i quadranti. Nascondono una spirale dotata di artigli che graffiano nelle pareti, fanno muovere lancette che non avrebbero ragione di muoversi senza qualcosa che le voglia in movimento o che per sbaglio le fa muovere? Ha i denti? Potrebbe mordermi? Perché non ne ho paura?)


-andiamo, allora, eh??


-ah.. sì, sì, andiamo.- Ale capisce: è normale che si faccia quella domanda, dentro al tronco. E solo ora si accorge dei battiti ai lati dello spazio che hanno occupato standosene stretti stretti, il bussare del venticello fuori, colpi di pigne che cadono. Si deve uscire, affinché la testa non si spacchi dall’interno. E c’è forse un posto dove devono andare. Sì, una passeggiata tipica, qualcosa da fare. Come al volgere dell’anno, come la mattina ancora ustionata di botti ma piombata nel silenzio irradiato dai giardini mezzi ghiacciati ai lati della strada vuota, in attesa che un ennesimo pranzo resusciti, diventando commiato, spazio temporaneo sul quale già incombe l’ombra di giorni faticosi e identici, producendosi in saluti sazi e sfiniti e già frettolosi, col fiato sul collo.

Sì, conosce queste cose, Ale, e si accorge all’improvviso di saperle riconoscere, pezzi d’un puzzle che non chiamati convergono assieme nel suo campo visivo. È il tempo di una cosa del genere, un appuntamento del genere, e allora l’animale si muove, srotola le sue spire pelose per far uscire le zampe tozze e spostarsi, arrancare contro la corteccia gialla, star mezzo abbarbicato verticalmente al legno e andare a tentoni come per una porticina. Lei si fa sballottare divertita da quel rimescolio di membra urticanti di pelliccia bianconera, tutta variegata a striature, chiazze, illusioni ottiche. Una via d’uscita si apre, ma per fortuna la luce non investe spietata la loro intima cavità. Un tranquillo traballare di luce serotina fluttua nel buco, e lei, seguendo le indicazioni dell’animale che strisciando e arrancando scende per uscir fuori, si rialza intera nella tana per prepararsi a lasciarla con un saltino. Con le scarpette unite atterra su un suolo ghiacciato, ma non scivoloso. La neve, di cui non conosce il tocco, ha steso un tappeto celestino ovunque, sulle radici, sotto di loro, sotto il cielo.


Cammina radente col suo corpo lombricale, il ventre strascicato al terreno, ma è veloce, l’animale, è svelto quasi cercasse provviste per il letargo. Non si può dire però con certezza se sia uno di quegli animali che dormono tanto a lungo. Ale lo segue, vedendolo talvolta agitare il capo a captare l’aria, cauto, e le sembra piuttosto di riconoscere, in un baluginio fulmineo negli occhi a biglia vitrea, l’afflato di un eterno notturno, di una bestia irsuta che nel suo piccolo mondo di crepuscolo senza fine non s’addormenta mai. Ma nemmeno si stanca. Continua a cercare qualcosa nell’emulsione di luce fioca e buio non ancora completo, quasi senza affanno, snasando nell’atmosfera nitida e trasparente, quasi tagliente.

Che bello! Ale, seguendolo, può stare come lui senza stancarsi mai. È vicina alle sue zampe posteriori, saltella, giravolta a braccia aperte da un lato all’altro di un sentiero che comincia appena visibile nell’uniformità monocromatica del terreno, mostrandosi meglio più avanti. Asfalto o terriccio o foglie, chissà cosa c’è sotto. Alberi magrolini e nudi, di quelli che durante il giorno sfoggiano una corteccia rugginosa, formano radi boschetti qua e là, i tronchi ben distanziati tra i quali i fantasmi dell’inverno e degli scricchiolii, tanto noti ad Ale, potrebbero liberamente improvvisare un’acchiapparella invisibile, lasciando effimere impronte negli spazi tra le radici.

Ogni tanto, nei tratti in cui le interruzioni tra un albero e l’altro si fanno più ampie, si vedono un dondolo, uno scivolo, casette di plastica. Il sentiero prende poi una curva accerchiando un basso edificio giallastro, con un singolo occhio di finestra orizzontale accesa. Potrebbe essere una stazione, o un asilo, anche se Ale non sa cosa possano avere in comune questi luoghi, e non sa se ci è stata. Perché d’un tratto si ricorda di viaggi in macchina così lunghi da far cancellare la meta, sbiadita come le montagne violacee dell’orizzonte filtrate dalla distanza e dal finestrino, nel cui vetro sgraffiato un cerchio lipidico puntualmente prendeva la forma della sua fronte appoggiata in immobile osservazione. E si ricorda dei mondi galleggianti come arcipelaghi tra una superstrada e l’altra, tutti uguali, di edifici identici ai margini di curve sopraelevate, recintate da ringhiere di plexiglas decorato a immobili sagome nere di falchi e rondini spesso indistinguibili da mosche intrappolate. E le sembra d’aver afferrato manciate di tutto questo, d’essersi messa in tasca chissà che tesoro di immutabilità della nazione in cui vive, tale da farle sentire di aver già visitato, forse fluttuando nell’assenza di gravità d’un sogno scaturito naturalmente dai pensieri, ogni nuovo mondo sul cui suolo dovesse muovere i passi.


Eccetto che per il suolo scricchiolante. È insolito ed è divertente, è divertente, ripete a se stessa Ale, girando ancora dietro ai passi dell’animale, alla sua coda che traccia una linea interposta tra due schiere asimmetriche di impronte. Finché quello scricchiolio non scompare, forse diventato indistinguibile dal sangue nelle orecchie, da parole e immagini che rimbalzando le esplodono nella mente, raccontandole ininterrottamente una storia.


Sotto i suoi passi c’è come un vuoto.


Questa è la neve?


-ohi, ma è questa la neve?? Così… vuota?-, chiede facendo uno scattino in avanti, raggiunge la testona spigolosa della sua guida, che bada alla strada senza mutare una strana espressione immusonita.


-mph. Tutto ti diventa così, dopo.


-tutto? Così come?


-diventa una non-sensazione.


Decidendosi soddisfatta, Ale non gli fa più domande. Torna indietro, fa la trottola, segue, saltella nelle impronte, constatando ancora l’assottigliarsi dello scricchiolio, del cuscino farinoso attorno ai piedi. È perché non conosce questo paesaggio tutto bianco -o meglio cobalto, per la sera che lo intride-, e dunque non può ricordarsene, nonostante la sua memoria prodigiosa che ha viaggiato ovunque? Oppure, è davvero tutto a diventare così.


(il giorno otto dicembre di quest’anno, nel vialetto d’ingresso, hanno posato una sagoma di cartone, una slitta, contorni di renne rampanti stilizzate. Mi sembra di avvicinarmici e vedere che sbiadiscono, quasi avessero già ricevuto in un singolo istante tutte le intemperie e le piogge e le ore trascorse di innumerevoli natali venturi, in cui identiche appariranno là, tra la lanternina di pietra e il cespuglio di eriche e brughi, fino al giorno del loro smantellamento. E in un altro nuvoloso otto dicembre dando loro le spalle proseguo senza saltare sui tre scalini, attraverso la porta rimpicciolita e riconosco l’ingresso, ma è il saluto di un attimo fugace: mi raggiunge presto un tanfo, sottile ma presente, di qualcosa di stantio: affacciandomi verso la porta semiaperta della cucina, vedo quel fumo di muffa levarsi dal pentolame gorgogliante disposto in gran numero sui fornelli, per sfamare come sempre squadroni d’invitati -ma cosa bolle lì dentro, che crede di poter sfamare con un sentore simile? Una bava di schiuma biancoverdastra raggruma un rivolo fuggitivo che evade dal labbro della pentola liberandosi del coperchio grazie alla pressione gassosa delle bolle, poi scivola lungo il bordo e supera la stufa, il mobile, cola fino al pavimento, in un vuoto rettangolo opaco dalla forma identica a quella della lettiera del gatto che è sempre stata lì. Ma sparisce l’idea di scorgere una forma in quella macchia, subito dopo, e sparisce la nausea provocata dal pranzo, e stando in piedi là all’ingresso, quasi come se non esistessero più corridoi in cui rintanarsi, non si capisce più cosa ci si sta a fare, dove si vuole andare. Forse i corridoi esistono ancora, da qualche parte, ma hanno smesso di essere luoghi ospitali.)


Ale vede che un movimento d’ombre confuse apparso in lontananza si fa sempre più vicino, simile a un affluente del sentiero pronto a rientrarvi dentro, e stanno per incrociarsi, tornano all’unità. Vede passi che le ricordano, al contempo, un branco di cervi in fila indiana in un corridoio di foresta, e una coda interminabile in marcia davanti a un supermercato tappezzato di annunci relativi ai saldi -cervi e umani che accorrono tutti per la buona novella.


-e dov’è che andiamo?-, chiede senza vero motivo, intanto che quel gruppo sparpagliato s’avvicina, e altre forme si scontornano lontane tra gli alberi del bosco attorno all’edificio, alla curva e a tutto quanto, per ritornare alla stessa fiumana, e prender parte tutti alla stessa processione.


-mah.-, risponde l’animale. Ale avrà forse detto qualcosa per scocciarlo? Intanto l’omino alla testa del gruppo e l’ombra grande che lo segue si fanno più vicini, fra poco cammineranno fianco a fianco con Ale e il tasso-procione. Ecco, Ale finalmente lo riconosce.


È Blue! Ha quella stessa aria un po’ corrucciata che spesso mostra quando incontra qualcuno e che passa presto, e anche i suoi abiti ricordano quelli che indosserebbe in una qualsiasi tersa mattinata di vacanza girando per il vicinato: la testa gli affonda senza collo nel cerchio di peli finti del cappuccio, nascondendo le labbra dietro la zip tirata su al massimo, le mani che sembrano affondargli con superfluo sforzo nelle tasche fino a diventare parte inalienabile della livrea rigorosamente a colori freddi che lo imbacucca dalla testa ai piedi. Lo segue (o è lui a seguire lei) una grossa macchia scura e caotica, molto alta, con delle creste frastagliate che spuntano ovunque, a volte ritraendosi, a volte guizzando più lontane dal centro.


-ciao Blue!


-ciao Ale.- risponde lui senza entusiasmo, ma sanno entrambi che è un incontro gradito. Potrebbero far rimbombare uno scroscio di pattini o un cigolio di biciclette per le strade di questo vicinato sconosciuto di boschi radi e d’un singolo edificio, non diversamente da come farebbero nel quartiere in cui vivono, passando oltre i garage, i giardinetti coi cespugli rimpinzati di lucine multicolore, i vialetti sorvegliati da babbi natali, per incontrarsi davanti a un cancello, e radunare altri coetanei vicini.


-bello eh!


-sì. Abbastanza.- Blue manda uno sbuffo forte mentre parla, come a testare quanto lontano da lui può spingersi il fiato bianco, quasi un barlume di torcia nel buio che aumenta gradualmente di densità.


-e dove andiamo?


-mmh.. in fondo, no?


-in fondo?


-mh mh.


Ale guarda in fondo, cioè dove non si vede, dove l’orizzonte è già una linea nera, o di un blu che pare arrabbiato nello sforzo di farsi più scuro. Si riesce a vedere laggiù, al lato sinistro del sentiero che diventa a quel punto un rettilineo regolare, una schiera più fitta di alberi, e alla destra un mare insondabile, una pianura di monolitica oscurità. La notte raggiunge i posti distanti più in fretta. Ma anche una sottilissima linea di bagliore manda sporadici scintillii, affilata e quasi impercettibile dentro la nebula più scura dell’orizzonte e del bosco che diventa un vero bosco. Somiglia a un’anima aghiforme che taglia il centro di un globo temporalesco.


-in fondo… sì, mi piace. Bello!


-mh mh. Abbastanza.-, ribadisce Blue, seccato solo in apparenza. Dopo qualche passo, gli sono ormai vicini gli altri, arrivano uno dopo l’altro distaccandosi dalla massa scura in movimento diretta al sentiero come gruppetti di pesci separati da un banco colossale. C’è Robota, tutto avvolto in sciarpe a scacchi, che aguzza gli occhialoni sporgendo il collo, e ci sono altri compagni di classe, ci sono Lepre, Cannella, Meri, e gente di altre classi conosciuta di vista, Orso e Quattro e Muschio, e altri del vicinato, Argento, Fiore, e tanti che devono ancora farsi vedere, come ancora avvolti in nebbie antecedenti la nascita del loro nome. E tutti, vede Ale, sono accompagnati da un’ombra, una macchia alta alta, molto più del suo lungo e tozzo bassotto d’un tasso-procione, che se ne sta brontolone ad aguzzare il muso avanti a sé; tutte macchie scure, d’aspetto scarabocchiato e un po’ troppo grosso e intimidente, come quella di Blue. Tutte come quella di Blue. Ma con qualcosa di diverso.


-wow…-, sospira Ale, guardandoli tutti, salutando qualcuno.


Non si lascia disturbare dall’impressione che stiano camminando in quel modo, decelerando come sentissero sempre più il gelo dell’aria e della neve per lei così inconsistente, da un tempo assai più lungo della sua breve passeggiata in compagnia dell’animale. Mentre lei e lui sonnecchiavano nella corteccia calda e materna, tutti gli altri, gli amici e i compagni, erano all’esterno, colpiti da mille aghi dell’atmosfera in tutti i punti scoperti: sfuggenti alle sciarpe, guance d’ogni foggia sono presto arroventate da un ghiaccio invisibile onnipresente, e un lembo di pelle che soltanto un attimo fa capolino tra una manica e un guanto diventa immediatamente un bracciale arrossato. Ale non si lascia disturbare, ma è un po’ in soggezione, guardando diagonalmente le macchie accompagnatrici e captandone sporadici rantoli cagneschi, quando pone una domanda, testando la consistenza di un dubbio più per ostruirlo momentaneamente con il suono della voce che per risolverlo.


-e voi quant’è che camminate così?


Blue si volta e la guarda con fare insolitamente diretto. Sembra non capire la domanda.


-boh. Tanto. Mi sa che infatti non c’eri.


La macchia scarabocchiata vibra, sembra un latrato spazientito, sparge fiato congelato (respira, dunque, esiste, c’è, non è una metafora di Blue, anche se non si fa vedere da me). Blue obbedientemente si gira di scatto a guardare avanti, verso quel “laggiù in fondo” che è la destinazione, la fine del lungo sentiero da percorrere in marcia, tutti quanti, con le loro guide. Senza seguire ordine alcuno camminano tutti nella stessa direzione, e se ne accorgono, ora, che sono tanti punti scuri nella strada già blu, una parata alla quale partecipano per un appuntamento a loro ignoto, deciso dal Tempo in persona o da qualcosa che ha un nome ugualmente prepotente.


Ale annuisce. Decidendo che le è stata data risposta. In silenzio procede, gettando di tanto in tanto un’occhiata al suo personale accompagnatore peloso. Potrebbe forse dirle qualcosa di più confortevole rispetto a un nero digrignare di denti, concederle una nasata calda sui guanti. Ma questo tasso-procione sguscia con fare da anguilla quando sente un fruscio nel boschetto, poi torna a guardare l’orizzonte buio e a tratti lampeggiante, senza badare a lei. Ale lo guarda, passa dalla coda alle striature bianche e nere così confuse da darle le traveggole, ai peli argentei che spuntano anche nelle parti nere come i capelli incanutenti di certi zii. La punta del naso palpita e tremola in fondo al muso fino, facendo ondeggiare le vibrisse. Perché non torniamo nel tronco e non ci abbracciamo passandoci il calore? Ale non lo chiede.


-senti…-, Ale si avvicina infine alle sue orecchie, gommose da pipistrello.


-mmh.


-ma io e Blue possiamo chiacchierare?


-mmh. Perché chiedi?


-no è che, quel, “coso”, sembrava arrabbiarsi e…


-sssstttt…-, la redarguisce sottovoce l’animale. Ale vede di sbieco la macchia alla destra di Blue, che le sta tutto dentro, come il nucleo blu di una fiamma scura. Un gorgoglio grave agita la creatura che forse ha sentito bene -forse qualcuna di quelle creste pasticciate è un’orecchia o un’antenna. Il rumore sparisce, scivolando in un sottosuolo di frequenze troppo basse per essere intercettate.


-è a posto.-, riprende l’animale, parlando di lato ad Ale, senza guardarla, rivolto piuttosto a un generico stato di cose in modo da forzarlo a modificarsi, non senza un prezzo. Con il tono di chi a malincuore ma con fermezza usa un favore che sa di aver conservato tempo addietro con un suo superiore. -potete chiacchierare pian piano tra voi. Ma a che pro?


-boh, così. Davvero possiamo?


-più o meno.


-più o meno, ovvero- recita come una lezione appresa Ale, in un’ispirazione di perspicacia -si può, ma ci sono cose di cui non si può chiacchierare.


-mph. Più o meno. Non chiedere. Lo capisci quando arriviamo più avanti nel sentiero. Pazienta.


-va bene, non chiedo. Senti…


-che c’è?


-ti posso dare un soprannome? Mi spiace non poterti chiamare…


-mph. A che pro?


-eddai…


-mph. Negazione.


Ale sorride e si mette le mani nelle tasche del cappotto, strofina le dita lanose dei guanti producendo piccoli campi elettrici. In effetti è la sensazione più netta da un po’ di tempo, e adesso sa cosa dire a Blue, quale argomento tirar fuori, con un amico che sta facendo la stessa cosa, in modo da ottenere una qualche risposta, in modo da illudersi di orientarsi in un corridoio più grande e sconosciuto e strano di tutti quelli in cui è stata a osservare il mondo girare. Perché in alcuni momenti sente ancora di stare nel tunnel che l’ha portata da casa a questo posto, e di essercisi persa dentro a un certo punto imboccando bivi imprevedibili, la cui unica traccia di familiarità è una vaga sovrapposizione geometrica tra il tunnel percorso allora e il sentiero percorso adesso -qualcosa che serpeggia, affondando nelle viscere di qualcos’altro, un tronco oppure il cielo, e qualcosa che è un punto distante, un’uscita bianca di luce, o un filo di tenebra e lucore che tremola nel posto più lontano di tutti.


-hey Blue, ti piace la neve?


Blue fa qualcosa di simile a un sorriso, e Ale gli risponde allo stesso modo. Si gira a dare un’altra occhiata a Negazione, cercando un ok. Ottiene un fremito indifferente di froge laboriose, inarrestabili. Negazione. In effetti -dice a se stessa Ale riguardandoselo come prima in tutta la sua lunghezza-, con tutto questo miscuglio di linee e macchie, bianchi e neri che gli si agitano dentro, pare negarsi da solo. E forse è qualcosa che accomuna tutte le creature viventi cresciute oltre una certa dimensione. Accumulano anni. Entropia. Diventano complicate e fanno come se non lo fossero.


Solo le macchie grandi grandi accanto a Blue, e a Robota e a Orso e a Fiore e a Meri e a tutti quanti, sembrano uniformi. Eppure no: anche quell’abisso che li riempie, che li scancella di continuo, pare fatto di vari inchiostri, varie tempere, varie foschie, varie oscurità. Che si assomigliano eppure si separano nette. Non si capisce niente. Come negazioni che a forza di contrastarsi sono collassate in un buco nero -un punto al quale Negazione non è ancora arrivato. Non si capisce niente e si fa prima a rinunciare. Ale abbassa lo sguardo da quelli, creste e musi che non può vedere. Inquadra invece il volto di Blue, l’incipiente rossore attorno agli occhi grandi e scuri, più scuri ancora in questo mondo che sembra custodire una più autentica notte invernale, simile a solitudine nordica, incantevole ma un po’ inquieta. Cerca di creare con lui quello che creerebbero a casa, senza però pattini né biciclette. Solo loro due, e il freddo e le nuvolette di fiato pallido.


A Blue piace molto questa neve, proprio questa sostanza che Ale non sente, e sembra preferirla a ogni altra cosa, da come ne parla. Chissà cosa riesce a sentirci, lui.


-per questo-, spiega Blue, insolitamente concitato o qualcosa di simile, sembra declamare il manifesto di un’ideologia ancora in prova -penso che sia meglio per noi arrivare laggiù. Non c’è di meglio da fare, per noi.


-cioè, vuoi andare laggiù, e rimanerci?


Blue abbassa la testa, si guarda i piedi mentre procedono. Non serve risposta: per un po’ si ascoltano i passi, il tonfo soddisfacente. Ale, accorgendosi d’un tratto che quel rumore esiste ancora, ha l’impressione che a produrlo siano soltanto le scarpe di Blue, non le sue.


-è che…-, riprende Blue -se anche nevicasse, da noi… se anche un giorno uscendo di casa vedessimo quei giardini brutti e quelle case annoiate coperti di bianco, non sarebbe come qua. Questa, è la neve migliore. Non c’è altro che tornare qui. Non sarebbe vero, quello.


-perché, questo è vero?-, chiede Ale solo per dar modo a Blue di spiegarsi. Sa già la risposta, dentro di sé. Ripensa al respiro delle grandi ombre nere. Ha il primo brivido di tutta la sera invernale trascorsa finora. Ruota le dita dentro i guanti, scaldandosi con un gesto familiare.


-è… un posto in cui non importa se è vero o no.


Ale cammina dubbiosa. Non lo sa mica, se è d’accordo. Cioè… saranno anche giardini brutti, stanchi, sempre morenti, bistrattati. Sarà, il loro, un quartiere di giardini brutti e case annoiate. Ma Ale non lo sa mica se riuscirebbe a dire ad alta voce quelle stesse parole. Blue è un po’ brusco, a volte, quando parla, e Ale pensa che sia perché, essendoci tante persone con le quali preferisce non parlare, finisce per usare parole più forti di quelle che ha dentro, quando trova qualcuno che le ascolti. Ma è solo questo il problema? Ale forse ha solo paura che se dice parole troppo dure succede che, non molto lontano dal punto in cui lei si trova in piedi nel corridoio della sua vita, in qualche stanza prospiciente qualcuno che l’ha sentita si offenda. E nemmeno le saprebbe indicare, queste orecchie suscettibili, nemmeno ci pensa così spesso, eppure, in qualche modo, ce n’è sempre qualcuna, nel mondo, ad ascoltare, a ferirsi, a vendicarsi. E che succede se si offendono?

Forse Ale ha paura che, dopo aver esagerato in quel modo, se provasse a tornare nello spazio e nel tempo da lei preferito in assoluto, quel punto della casa in cui stare in silenzio e soltanto ascoltare, lo troverebbe cambiato. Irrimediabilmente. E quel sottile sottofondo di incrinamento che ha avvertito, quella crepa serpeggiante sotto tutti i rumori familiari da lei archiviati in enciclopedie soggettive, s’espanderebbe fino a sostituire tutto. Fino a ridurre una casa in macerie, fino a sgretolare il suo ciclico tempo di festa.


Ma è questa la soluzione?


-quindi tu sei venuto qua perché l’hai voluto? E ci vieni spesso?


-ci vengo… ogni natale. Da qualche natale…-, Blue risponde soltanto alla seconda domanda. Intanto, di là dal lato sinistro occupato da Ale e Negazione, gli spazi tra i tronchi degli alberi spogli hanno cominciato davvero a restringersi. Non c’è margine per l’assenza d’ombra di posare un’alternanza tra le radici, già tutto s’impasta in un sottobosco, già una foresta secondaria s’espanderebbe infinita per il coniglio o il topolino che decidessero di volgere un passo oltre il primo tra gli infiniti microscopici confini tracciati dal buio. E più in alto, più in alto perfino delle torreggianti macchie scure che in massa ora migrano riempiendo il sentiero innevato, incombono le cime degli alberi, incoronate da corna nude, grottesche forme sorveglianti nell’oscurità del cielo.


-e gli altri?


-boh. Dovresti chiederlo a loro.


Ale non specifica cosa stesse domandando, né commenta la risposta. Hanno raggiunto una parte più profonda della strada, relativamente più vicina a “laggiù in fondo”. Voltandosi, vede che la finestra gialla, all’inizio della curva, è una fioca palletta gialla in un indistinto abisso blunero; piccola e radiante, nel punto più lontano della strada ormai percorsa, forse la saluta, o forse è la personificazione dell’indifferenza, materializzata in un lume sempre acceso sul ciglio di un percorso senza mai accogliere e dar rifugio ad avventori e viandanti. E Ale così se ne sente confortata più che se la invitassero dentro, offrendole una sedia e una cena calda posata su una grande tavolata, perché è come una luce senza nome nella campagna, che ha visto una volta da un treno notturno, che si è detta di voler cercare ogni volta che sale su un vagone, ogni volta che ha un finestrino vicino, ogni volta che può guardare, attraverso uno schermo, i paesaggi che si susseguono.


Ale, senza farsi vedere, ancora mezza rivolta indietro agita pian piano una mano: ringrazia la finestrella accesa, per averle dato una specie di portafortuna e una lacrimuccia infantile subito congelata, perché non sa dove sta andando, né se laggiù potrà portarsi tutto ciò che le è caro, al punto da volerci tornare ogni anno, ogni natale, come dice Blue. Forse perché le impressioni, che quietamente ottiene stando ai margini delle cose che accadono, davvero s’annebbieranno, si scalfiranno, scompariranno? Forse le verrà l’istinto di metterle in salvo e trovare un ripostiglio? Allora questa strada diventerà familiare, la ripercorrerà ogni volta con un senso di ciclicità, di festività, di trascorrere di stagioni e anni.


(Blue, sembri aver fatto una scelta, ma io, mi sa che voglio vedere altre cose, prima. Sto rimandando? Immagino che diresti così, e che, dicendolo, penseresti ad altro.)


Negazione è più guardingo che mai, ma è anche più eccitato. Il bosco lo riconduce a questo lato di sé, i suoi scatti adesso fanno più impressione ad Ale, che si ritrova la via interrotta da balzi e scatti fulminei arrestati a mezzaria, scuse borbottate e presto dimenticate, un più rumoroso fiutare stimoli innumerevoli.


(non l’ho neanche mai toccata, la neve. E neanche tu. Ma scegli di viverci dentro. Capisco, io capisco perché lo fai. Ma non so se… io… qualcosa. Qualcosa che mi ancora, che non so, non so se ogni anno posso venire qua, e a un certo punto decidere di abitarci sempre. Qualcosa che mi ancora alla casa. Per cui devo sempre tornarci.)


Negazione, tanto più ricettivo quanto i segnali del bosco si fanno numerosi, coglie qualcosa di nuovo nella respirazione di Ale. Affanno che prima non c’era.


-mph. Cominci anche tu ad aver paura, eh? È normale.


-io… no, paura no, ma…


La conversazione non continua, non può continuare. Si cammina e basta, e può venir sonno, come stando su un vagone o in una macchina che attraversa il paese tra il sud e il nord; come in un sedile, Ale, che avanza nel vuoto, solo meccanicamente, vede le cose ai suoi lati che scorrono, buie, rimescolate, una tratta che passa per un bosco interminabile. E sentendosi procedere, dimentica d’ogni sosta e letargo, vede alla sinistra le cortecce nere, i fruscii sinistri che le popolano; alla sua destra Blue e Robota e Cannella e Lepre e tutti quanti e Orso con la sua ombra e Argento e Fiore con le loro ombre che, sembra, cominciano a ghignare: il frastagliarsi incessante produce un’apertura dentellata nel loro centro, uno strappo, e un occhio laterale, e ora s’assomigliano tutte, più di prima, e si assomigliano di più le tonalità diverse che le riempiono, e s’assomiglia il modo che i suoi amici e conoscenti e sconosciuti hanno di camminare, come lei, al suo stesso ritmo, e Ale vorrebbe far sogni tranquilli conciliati dalla lucina della campagna che s’è portata nel petto e non sogni brutti di cose ostili, e s’assomigliano i passi e le sciarpe e le persone e le bestie e gli alberi e l’aria, s’assomigliano i contorni delle cose e ciò che ne sta fuori, e quel lato diventa tutto una nuvola nera, mentre una sostanza polverosa e plumbea le si inietta nelle palpebre, che s’incontrano a metà strada, come uno sbadiglio che si richiude, e non c’è altro, a parte tutto, che è troppo, che diventa foschia, che diventa notte, che si spegne, finisce.


(quest’anno mi sono data della stupida urtando con la nuca un architrave, mi lascia un dejavu più che un bernoccolo. Seccata, sono uscita massaggiandomelo. Vedo ripassare davanti al cancelletto facce già viste prima, a piedi verso la casa che li ha invitati, ognuno coi suoi appuntamenti. Ricordo facce, di xxxx e xxxx, incontrati stamattina, stesse rughe -o forse diverse?- di quando alla stessa ora di tanti anni fa li si ritrovava di ritorno da una messa costretta.

Grandi e grossi, ancora così, magari qualcuno ce li ha costretti davvero. Ma non sono da meno, io: sto qui, stupida, a massaggiarmi. Ci siamo chiesti a vicenda con ironia come andassero le cose. E come vuoi che vadano. Lui poi l’ho visto da lontano, sembravo una stalker che infesta il vicinato coi suoi galleggiamenti spettrali, l’ho spiato esitare davanti casa sua, temporeggiava, avanti e indietro, nervoso, a grattarsi la schiena, sistemarsi il cappuccio, le tasche. Tutto per non entrare in quella scatola, chissà che ci tiene dentro. Ma alla fine è normale così, va bene così. Me lo dicevo guardandolo da qua -ma sono uscita in strada, una volta rientrata nella staccionata? Mi sa di no, mi sa mi confondo con ieri.

Questi dubbi mi annoiano. Ci rimette il cespuglio, poveraccio, ma mi accorgo in tempo di quello che sto facendo e smetto di tormentare gli steli con queste mani indisciplinate. Sono tutte gelate, la pelle tutta tirata, me la guardo, la trovo brutta, rovinata. Mah. Voglio rientrare già, a prendere dei guanti in corridoio, o a restarci, ma mi chiameranno, serve aiutare. Rimpinguare il vapore che comincia ad appestare tutta la casa, con altre pentole accese o con parole, quasi solo rimproveri e battute cattivelle che richiedono una conoscenza dettagliata di specifiche interminabili saghe domestiche per essere comprese. Battaglie ai fornelli la cui posta in gioco è il diritto a detenere la frustrazione maggiore, riconosciuta collettivamente. Ecco, mi basterebbe passare accanto a questa soglia perché io venga prelevata, e dire che altre sagome non verrebbero nemmeno viste… lascio stare questo discorso. Almeno oggi.

Mi sorprendo a continuare liberamente, non presa in ostaggio. Mi affaccio: cucina vuota. Un tintinnare di oggetti da credenze e un vociare stridulo da un’altra stanza me ne annunciano la ragione, senza scendere nei dettagli. Errori di qualcuno, mancati ideali di perfezione di come devono andare le cose. Chissà chi ha messo lo standard. Non ricordo un solo esempio che mettesse d’accordo tutti. Supero il mobiletto del telefono fisso, fossile senza ragione d’essere, senza nemmeno nostalgia. Impressione brusca di un ticchettio sopra un orecchio, mi volto verso il soffitto: c’è il cristo appeso. Non appena ci poso gli occhi, una teofania di cattivo gusto fa scoccare le campane della chiesa più vicina al quartiere -per qualche motivo, non è nemmeno quella che frequentano. Din don, din don. Proprio in questo spazio mi rintanavo a lungo. Ma le campane non le sentivo, allora, le associavo ad altri momenti. All’andata, al ritorno, alla strada, l’asfalto aperto, vasto, un fiume con isolotti di lastre, ghiaccio che nei ricordi scintilla, che è ed è sempre stato un ghiaccio sporco, di fango cristallizzato, d’aria pesante incarnata in un vetro che non riflette. Le campane mi entrano in casa, non invitate. E qualcosa mi infastidisce, tremendamente, non so perché. E giustifico, sprezzante, dicendomi che non vanno poi tanto d’accordo, questi due simboli della cristianità. E come avrei fatto una volta, la mia faccia diversa rimane a fluttuare in questa penombra, a fissare, ancora per un po’, mentre i rintocchi svaniscono, e ritorna il ticchettio, e sto in piedi, irrigidita.)






(((ho pensato a delle canzoni che c'entrano vagamente con elementi del racconto e ne ho fatto una playlist: https://www.youtube.com/playlist?list=PLvkVNjQdjdtISNdFd_1qE86suKMDwSs6V))))

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