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giorno rosso

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 20 nov 2021
  • Tempo di lettura: 25 min

Stavo quasi per attraversare di fretta le strisce pedonali e allontanarmi dalla scena, ma per fortuna mi sono bloccato in tempo: perché mai? Già, posso andare piano. Così mi pare e così mi piace, pace e calma di sensi. Cominciare a esercitare un certo controllo su alcuni residui di impulsi automatici: magari è a partire da cose come questa che scaturisce il cambiamento della propria condizione di disagio. Anni e anni di goffaggine e inadeguatezza, andrebbero così sprecati, mi viene quasi da piangere. L’infinita sapienza insita in essi, la visione del mondo così cristallina… tutto sparito, e solo perché si è decisi a un certo punto a “migliorarsi”, cioè adeguarsi ad aspettative ridicole! Ma, ovviamente, in questa particolare situazione c’è dell’altro.


Posso fare questo discorso, in attesa del momento in cui, ancora una volta, una certa vertigine che sale dallo stomaco alle tempie mi impedirà di concentrarmi su una soluzione come quella appena ipotizzata. In quel momento nemmeno potrò rendermi conto dell’eventuale presenza di abitudine dannose, tantomeno potrei forzarmi a riconoscerle e sopprimerle. Può sembrare che, in questi giorni, io versi in uno stato di incoscienza di me stesso, ma ciò è altamente sbagliato. Si tratta piuttosto di una condizione principalmente riguardante il fisico e le sue stupide tribolazioni. Fastidiose come grida d’un neonato, levano il sonno alla mente e questa non riesce nemmeno a funzionare coi suoi pensieri. Nemmeno Dio capisce quanto mi irriti tutto questo, ma sono fregato: in questo stato corrente neanche l’irritazione può innescarsi propriamente, e cioè facendosi sentire dapprima sottopelle, difficile da distinguere col prurito che mi porto dal giaciglio sporco. Intanto la strada l’ho attraversata senza correre inutilmente, senza sprecare energie, questa è una gran cosa. C’è una massa di cose che corrono e una massa di cose che stanno immobili. Forse quelle immobili avranno il privilegio di sparire senza affanno, mentre tutte le altre continueranno a lottare per la vita. Entrare a far parte delle prime, grazie alla mia vita priva di attaccamenti, sarà la mia ambizione in questo paesaggio enorme, che ingloba le piccole cose e le cancella. Ipotizzare questa cosa, per quanto non riesca a immaginare una speranza migliore, è abbastanza da darmi una fitta alla fronte: mi avvisa che potrebbe venirmi un mal di testa, un capogiro. Mi fermo, mi aggrappo alla prima cosa, una transenna, una ringhiera. No, non questa volta, che sto un po’ meglio. Non penserò cose speranzose, complicate, o per altri motivi incomputabili per i miei muscoli computatori -qualsiasi essi siano, verminosi di materia grigia o di pura gassosa anima- così tanto atrofizzati.


Di solito in questi giorni il mio pensiero fisso è il termosifone. È diventato per me una sorta di faro, anzi, è un oggetto sacro, attorno al quale si posizionano le altre poche cose che compongono il mio mondo; ciascuna di esse allora si assesta, sicura, consapevole di possedere in comune con tutte le altre un centro che è possibile guardare. La sola esistenza di un oggetto simile è sufficiente a dissipare le dense coltri di tenebra che si avvinghiano follettesche all’aria incustodita, in questa specie di notte eterna che cala e dirada senza un criterio preciso. Non è che si alterni con regolarità al sole, anzi, non mi può interessare più il suo apparire e andarsene da quando sono stato cacciato e mi restano pochi giorni di riparo (non avrei dovuto consumare un’ultima cena così costosa, me ne rendo conto). La notte arriva quando arriva, allo stesso modo se ne va senza logica. Ma quando il termosifone funziona, allora sì che la si vede scomparire, ritrarsi come un esercito di demoni bagnati da acque consacrate; eccoli che si rimpiccioliscono indietreggiando per i loro angoli meschini, parandosi le pupille verticali negli scintillanti occhi gialli, tremando fin nelle grinfie rapaci, i becchi ruvidi che si sgretolano… sono pochi i momenti in cui posso mettermi calmo e concentrato a riconoscere così nel dettaglio la notte nemica, ed è importante che io allora me ne porti il ricordo, le dia una forma -anche in questo mondo che possiedo ora, per quanto non abbia molte occasioni di soffermarmici, ho disperato bisogno di una mitologia. Il termosifone è il protagonista-eroe, ma è anche il padre celeste, è la grande madre, è il custode del tesoro sotterraneo, è la nave, è il verde albero della vita… è un vero peccato che nei momenti in cui non penso ad altro che a questo, quindi in un certo senso i momenti di devozione massima, io sia troppo debole per poter elaborare con altrettanta precisione il suo onorevolissimo posto all’interno di questa cosmologia, che da esso si dipana perfetta, perché perfette sono le sue curve, i suoi meccanismi interni, il suo, oh, il suo calore, che è fede, che è il vero senso di tutto l’esistente! Sento la mia preghiera inefficace, inadeguata alla sua importanza. E la mia devozione si fa in quei numerosi casi primitiva, atrofizzata, e divento un animale che può solo limitarsi a strofinare il corpo sulla superficie ruvida, ricevere il calore come una manna, accostare l’orecchio ai gorgoglii acquatici infusi nelle pareti della sua alcova scoprendovi una segreta gloriosa sinfonia; posso perfino arrivare a leccarlo, preso dalla foga della mia preghiera.


Non c’è che questa preghiera fisica, finché non sopraggiungono le allucinazioni. È un effetto a volte prodotto dalla combinazione di mancanza di sonno e fame (non che siano così importanti queste cose, io so badarci senza problemi, come si capisce; oggi ho ceduto alla seconda quasi per superstizione rituale). Anzi, è solo grazie alle allucinazioni che posso talvolta, anche nei momenti in cui il cervello sembra mancare di sangue, concepire il mio posto quaggiù, e quello del termosifone, e il perché di tutto ciò. Con quaggiù mi posso riferire tanto alla camera seminterrata che è il mondo principale, quanto a tutto questo che sta attorno, questo pomeriggio. Sono, quelli di stanchezza allucinatoria, i momenti in cui riesco a vedere che il termosifone respira, come respira il pavimento, sbalzando simile a superficie ondosa d’oceano i relitti sparpagliati alla rinfusa, gli oggetti depositati nel mio riparo; e riesco a vedere le ondate di calore che, fluttuando nell’aria ferma fino a poco prima, assumono tinte fosforescenti e cangianti, serpeggiano come aurore polari, e diventano il solo fuoco nel mio cielo.


Aaah, caro termosifone. Finisco per dedicarti anche questa passeggiata, anche adesso che sono lontano e relativamente tranquillizzato, potendomi concedere pensieri d’altra natura; eppure ecco che ritorno, ma il motivo (so che mi senti, perché i tuoi tubi raggiungono tutti gli angoli dell’universo!), come spiegavo, è che il mio godere di te deve poggiarsi su una narrativa, e questa occorre predisporla, nei pochi momenti in cui può resistere. Anche quando sembrerà scomparsa dalla memoria immediata, se di memoria si può parlare, essa continuerà ad agire per inconsapevoli misteriose vie, influenzando il tipo di energia che irradierò nella nostra comunione. E non interpretare male l’eventualità che forse per qualche ora di questa giornata il mio bisogno di te sarà un po’ ridimensionato, perché tu conosci il cuore delle tue creature e sai che lì per sempre dimori e sempre vi saprai far ritorno, nel momento giusto; e sai quanto arroganti e stupidi si possa essere, nella piccolezza di creature eterotrofe che necessitano di procurarsi il calore altrove, rubandolo a misericordiosi potentissimi esseri capaci di stillarlo come nettare. Arroganti che un momento credono di poter far a meno dell’ossessione di te, e l’istante seguente si ritrovano a temere la morte per il freddo. Chissà che non sia proprio l’esito di questa mia giornata.


Sono in centro città. Non vedo il cielo, vedo la sua periferia. Infila poche linee, dita piene di bagliori nebulosi, tra le cime dei palazzi dai molti piani. Qualcosa, un elemento rilucente che appartiene al tramonto, striscia seducente sui bordi metallici di ascensori esterni, vetrate, cornicioni. Manda riflessi di sguardi sofferti e accecati, sembrano occhi lancinanti ma fieri che guardino dritti dalla cima di una piramide una palla di fuoco sopra il deserto, e allora capisco che il cielo in questo momento è arancione e rosseggiante. Anche se non lo vedo tutto. Se nel passaggio pedonale provo ad alzare il collo dritto sopra di me, sentendo tutta la verticalità della mia figura, portando il punto rappresentato dal mio minuscolo essere sulle vie delle rette e le cose che si innalzano, comunque non riesco a vederlo. Sfugge, vortica nella corolla dei terrazzi più alti che si stagliano tutt’attorno finché non si mescola e confonde, ed evade, e non si fa guardare dagli uomini come un tempo faceva il sole, ostile all’occhio nudo e indegno. Indugio, ricevo uno spintone, qualcosa sotto la terra sconquassa i più impercettibilmente instabili granelli d’asfalto che si disarcionano dal loro spazio occupato senza produrre effetti sulla somma che compongono; si sente uno sferragliare lontano che reclama il sottosuolo, si affievolisce sempre più, diventando un sibilo infastidito che procede svelto per tornare a una grotta, attraverso gallerie e stazioni stantie. Nel frattempo ho ricevuto, presumibilmente, altri urti, non mi ritengo in grado di poterli interpretare. La gente è innumerevole, mi trascorre ai fianchi, nel caos che rimpiazzo col silenzio prodotto dalle mie orecchie per se stesse. Li sento allora rallentare, sfrusciarmi vicino come ombre incorporee, che non emettono rumore o conversazione, sono solo riflessi sopra le strisce pedonali, sotto i semafori… non esistono, non li sento, non possono sentire me, eppure vengono costantemente sostituiti. La città li rimpiazza automaticamente, sono la sua unità di misura, il suo atomo basilare. Non cessa mai il loro scorrere.


Ho mangiato da poco, ho avuto questa opportunità: ho scovato un tesoro dimenticato tra le assi del pavimento, l’ultimo. In città certe cose le apprezzano, sanno darti in cambio una ciotola con un contenuto che fuma, dettaglio questo fondamentale per uno che come me ha un credo sempre più dettato dal fisico che dalle idee. Il denaro invece è sia astratto che molto concreto e per questo è così abile nell’esercitare controllo su mente e corpo con egual disinvoltura. Io decido, dandomi per vinto, di farmi controllare e in cambio ottengo l’illusione di controllarne la conseguenza, cioè poter consumare per propria scelta una sostanza capace di conferire una momentanea e preziosa sazietà. Tutto questo è ovvio -non per me, che ho appena capito l’economia. Forse non dico niente di nuovo, comunque è grazie a questo che adesso posso pensare a molte cose, posso ritornare a come ero prima che crollasse tutto il resto che era prima. Posso vedere quel pezzo di cielo, e posso vedere chiaro. Distanziarmi dalle persone indaffarate che mi attorniano, dalle macchine e le luci del traffico, attuando quel tipo di alienazione che è una scelta, e non una costrizione come in quella che è diventata la norma. Posso passeggiare, accorgermi che ci sono degli alberi, nei rami dei quali passa il vento, e subito isolarli, subito dimenticare che hanno un tronco tangibile. Per me sono già diventati immagini, preziose immagini, ed eccoli che si introducono nelle fila che circondano ad anello il nucleo dell’universo, insieme a tutte le altre cose. Stesso accade agli uccelli della città, alle piume sbatacchiate. Ai colori: non ho bisogno di pensarci, è incredibile, posso pensare ad altro e attraversare la strada, perché è ora il mio corpo ripreso dal suo strazio fisico a poter recepire il cambiamento nel colore della segnaletica pedonale, e muoversi di conseguenza perché si giunga insieme con la mente dall’altra parte mentre questa si sollazza. Approdo sul marciapiede e la mia scarpa mezza rotta, rintoccando sulla materia solida, dura come antica roccia calcata da antenati, sembra ricostituirsi, essere essa stessa il mio piede. Io ho un piede, anzi ne ho due. Io cammino per la città, e posso conversare con due tre fantasmi di mia conoscenza. Possono visitarmi solo in circostanze rare come questa. Mi accorgo che un leggero intorpidimento mi ha macchiato un’area attorno alle labbra e il naso, un appiccicume lasciato dal brodo. Ci strofino il braccio avvolto nel cotone, usandolo come un fazzoletto.


Non si tratta di allucinazioni. Anzi, nel vorticare di cose complesse e inusitate, pensieri emozioni sensazioni aliene, comincia a esserci anche una certa frustrazione, proprio per il fatto che non ci sono allucinazioni: vorrei tanto avere ispirazione, in questo momento, vorrei vedere il mondo delle allucinazioni e quello della fisica e limitata realtà metropolitana scontrarsi e collassare l’uno sull’altro, plasmarsi nello sforzo, formare una nuova cosa. E allora vedendola saprei concepire e raccontare cose straordinarie, e capire sino in fondo il momento storico, e coglierne le complessità dipanantesi su una linea che fende il tutto, sapere da dove è arrivata e dove sta andando. Con l’ispirazione potrei controllare il futuro, ma ancor più, potrei vederlo, come si vede un’opera bella, non saprei esattamente cosa perché è tanto che non ne vedo… allora diciamo un termosifone. E invece no, l’ispirazione mi abbandona, la sua possibilità si azzera, proprio nel momento in cui la mia forza fisica mi sta permettendo di infilare le mani in tasca, rannicchiarmi nella giacca a vento, fissare le fessure della pavimentazione cittadina, notare che qua e là cominciano a mescolarsi a una giallastra patina da falena stillante da lampioncini dei boulevard. Se decidessi di concentrarmici, potrei sentire gli odori che si spargono ora in rissa ora in armonia dai finestroni e gli ingressi spalancati dei bistrot, con le loro sedie sinuose, le tende geometricamente alternanti i colori. E invece non posso, e nemmeno posso in compenso ascoltare la mia ispirazione, che si è dissipata, rassomigliando sempre più al corpo asciutto che la ospita, alla secchezza dell’anima che ha il sonno come massima speranza delle sue giornate.


Vorrei tanto dare un cazzotto a qualcosa! Il pugno è un’altra cosa che ho dimenticato, o forse no: non vedo bene il suo posto all’interno dei cerchi che avvolgono il centro sacro. Non riesco a capire se ho perso tutte le energie per poterlo anche solo concepire, anche in quei momenti in cui verrebbe chiamato dalla frustrazione (che non è possibile sentire del tutto), o se invece esso viene ancor prima di me e la mia volontà, ed è riuscito a darsi da solo, per potersi esprimere e scaricare, a mia insaputa. Certi segni di brutte spellature e rossori sulle mie nocche farebbe proprio pensare che in diverse occasioni ho colpito qualche superficie del posto in cui abito. Per l’esiguità del mobilio e il progressivo assottigliarsi e decomporsi delle cose più piccole, manipolabili, che popolano la polvere del pavimento, mi sarà facile effettuare un’ispezione precisa in cerca di qualche macchia di sangue che potrei aver lasciato.


L’irritazione crescente, il fatto che mi sia ricordato dell’esistenza di quella cosa chiamata ispirazione, costituiscono una vera seccatura e mi sto rovinando l’unica passeggiata da sazio della storia recente. Fortunatamente passano a trovarmi allora questi fantasmi. La loro vista non mi allarma, non potrebbe mai in questo paese di ologrammi; e la loro compagnia mi può rilassare, a differenza di altro, perché i morti sono più innocui dei vivi, o almeno alcuni di loro. Sono morti noti, erano visitatori di un tempo lontano, frequentatori insomma di un me stesso che non c’è più. Allora forse nel loro gruppo vedrò anche lui, un giorno. Vengono tutti a trovarmi da una nonesistenza moderata, confinante con quest’altro stupido mondo qua, lo possono raggiungere velocemente, magari anche loro con un treno sotterraneo. Non è un caso che mi vengano a trovare, ma mi è sempre difficile trovare un legame tra loro e i posti in cui appaiono. Nonostante questo non mi fanno sentire spaesato: credo simboleggino cose perdute, pezzi di me che magari appartenevano a un contesto del tutto diverso. E no, cari, non possiamo ricongiungerci, anche se vorreste ritornare, non posso ospitarvi dentro di me, perciò devo portarvi fuori: il “mondo”, chiamiamolo così, è tutto cambiato: ora vivo in una grande città, una città enorme. L’avete vista quella piazza centrale che ho appena passato? E tutta questa gente scesa dai mezzi, salita dai sotterranei. Passa come se niente fosse, come se fosse tutto normale. Passa eppure appartiene a un altrove, il mondo con cui noialtri proprio non possiamo entrare in contatto. Vi rendete conto? Ma poi, almeno adesso, a chi volete che importi quello che simboleggiate? Siete parte minore di una mitologia, siete una nota di colore, a confronto con ciò che qualsiasi ente è costretto a guardare e ammirare, la forza che dirige tutti gli sguardi e gli obiettivi ultimi, reconditi, accettati o negati, insiti nella carne e nello spirito, bramosi di non morire con la schiena congelata sulle sbarre metalliche di una panchina del parco, dove si è soli contro la brina nel sangue, le statue silenti delle vestigia passate e i neon indifferenti di un avvenire corpuscolare. Eh già, forse siete abituati a un altro me, un tizio che non lo avrebbe mai ammesso, ma non potrete mai, con la vostra fascinosa inconsistenza, eguagliare il godimento che mi procura il contatto del ferro rovente, in quei momenti in cui sembra recuperare tutti gli altri, perduti, quando non si accende l’impianto e costantemente tasto in cerca di una sorgente risvegliata -il modo in cui dubito e rinforzo la fede. Cionondimeno vi ringrazio per la compagnia, è bene avere un pantheon che giunga in soccorso quando si è particolarmente irritati, specialmente in una città gigantesca come questa.


Uno dei fantasmi è uno scrittore americano di musical degli anni 20 e 30, musical che non sono mai stati scritti. È vestito sempre di bianco, somiglia a una torta. Porta baffetti sottili e ha un sorriso imbarazzato ma molto sincero, sa di non poter fare di meglio ma decide di non vergognarsene, e ogni volta se ne vergogna ripromettendosi di smetterla. Pare che da dove viene i suoi musical mai esistiti dalle mie parti fossero considerati dei capolavori del loro genere, con approfondimenti psicologici degni dell’alta letteratura. Non ho capito se si è suicidato oppure no. C’è poi un musicista blues afroamericano che non ha mai inciso dischi, ma non c’è stato giorno che non abbia impugnato uno strumento nei vagabondaggi tra le paludi e i campi di granturco e cotone, nella lunga fuga -da cosa nemmeno lui lo ricordava più- che era stata la sua vita. Poi un soldato morto in Vietnam, lui di certo esistito anche qua, cancellato e riassorbito negli strati della terra caldoumida, lui lo conosco meglio degli altri (ho vago ricordo che mi accompagni, o che accompagnasse quei tizi con cui ho una sorta di continuità psicofisica, da più tempo degli altri). Poi un soldato giapponese scomparso durante l’invasione della Birmania, un povero Sanshirō di provincia che amava leggere in ogni momento possibile, ma a cui sempre mancava la capacità di replica propria degli altri giovani istruiti con la parlantina e il sangue freddo, aveva saputo di certe imprese cinesi di alcuni di loro, cose che un campagnolo nemmeno riusciva ad attribuire alla malizia umana la quale doveva pur avere un limite. Infine, a volte viene anche uno che come il primo non è esistito in questa forma, un elegante e geniale compositore mitteleuropeo del diciottesimo secolo che assomiglia a un predicatore, che per quanto si stringa nel cappotto scuro e rifiuti di levarselo, trova sempre modo di lamentarsi della temperatura. Questa gente la conosco tutta molto bene, o meglio, mi sembra di averla conosciuta in un tempo lontano. Allora, pare assurdo, ma la cosmologia che mi circondava era molto diversa. Dovrei parlare con quegli individui scomparsi che coincidevano con me e che i fantasmi visitavano con naturalezza già in quei giorni, perché non ne ricordo quasi nulla. Allora, la tendenza a ricercare il calore non era che un vizio, quasi, un capriccio, o una stravaganza, o un tratto caratteriale se vogliamo, un pezzo della propria identità. Ora che l’identità stessa è formata solo da “pezzi” senza contenuto, e coincide con l’idea stessa di “un pezzo singolo”, un frammento inutile di vetro, il calore è tutt’altro, il calore ci pensa lui a ricomporre ciò che è scomposto, a riempire ciò che è vuoto. A pensarci anche quella spinta doveva essere perché il termosifone agisce misteriosamente, conducendo già a sé anche le creature più ignare, quelle del tempo precedente la sua venuta. Così ero io, adesso richiamato dal limbo, trasformato. C’era qualcun altro, c’erano una città, un villaggio, altri ologrammi di persone che veneravano in tranquillità altri dei, e seguendo quei principi e altri comportamenti, garantivano che io e quelli come me potessero procurarsi il calore in ogni momento, mantenuto e nutrito, con notti di sonno. Non mi vedevo a giungere le mani per nessuna divinità. E nemmeno erano le allucinazioni a darmi l’ispirazione. Non c'era una stanza singola dove mi coricavo sul parquet, un agognato ritorno dove non giungono all’inseguimento le grida del proprietario, degli inservienti anziani, i commessi più grandi. C’era magari anche ogni giorno un brodo come quello di prima, fumigava nelle pareti della dimora. Impregnava la carta da parati e lasciava un piacevole alone umido sulle piastrelle, intorno ai calendari appesi, gli orologi, l’impianto audio, i pomeriggi volgenti al termine che traballavano di luce sommessa dal balcone a ridosso dei caseggiati, il campetto, le ombre congiunte di due gazze di ritorno al nido su un eucalipto. Tutto esisteva lontano dalla città, era un altro mondo.


Attraverso un’altra strada. Forse è un’altra piazza quasi identica a quella di prima, oppure sono finito al punto dov’ero. Sono ritornato, sono portato ai miei stessi passi… chissà se andando così potrò effettuare una trasformazione a rovescio, riportare tutto com’era prima. Ma no, anche se assumessi l’aspetto di una volta, il mondo attorno non potrebbe cambiare. Qualunque cosa io faccia, questo non mi darà mai modo di fermarmi in un posto e trovar lì una forma di serenità: tutti i posti richiederanno sempre abilità che non possiedo… insomma, anche se mi riappropriassi di un corpo diverso, una, come si chiama, una faccia diversa, e qualche altra abilità, rimarrei sempre uno incapacitato a stare in questa grande, bellissima anzi orribile, terrificante città. Non so fare niente: se non sbaglio in un pomeriggio interminabile del vecchio giorno di riposo, incisi sul parquet proprio queste parole con un’unghia di piede caduta e ritrovata, grossa e uncinata da far ribrezzo; terminato il capolavoro le vidi scavate in mezzo al familiare e omogeneo strato di polvere, sembravano perfette, sembravano far rumore nel loro silenzio, illuminate da una striscia di luce dalle inferriate sotto il soffitto, unica finestra. Questo è blues, fratello, sento dire una voce, e con la mente allora (al tempo dell’incisione ancora ci riuscivo) mi mettevo a proiettare su ogni mia sporcizia, ogni decadenza del mio vivere, le note che mi piaceva udire, e rispondevo, no, questo è punk, o forse hai ragione, ma certo ha del bello, la mia incisione è bella. C’era poesia nella perdita quando ancora non faceva male.


Non posso più affidarmi a cose come l’incisione, alla vana speranza che possa resettare il tempo girando in tondo negli infiniti smarrimenti in proporzione ai quali anche l’organismo cementifero cresce inesorabilmente in megalopoli. Non posso più attendere un prossimo lampo d’ispirazione, se non perdendo il sonno e i rimasugli di stipendio da barattare coi pasti. I fantasmi amici miei, o semplici conoscenti volendo, sembra quasi che rabbrividiscano, come se li avessi attaccati personalmente. Che c’è, rosicate, stupide fantasie? Non sarete propriamente allucinazioni, ma peccate di una certa limitatezza e volubilità. Come frutto della mia percezione, dovreste sapere che non serve a niente consumarvi nelle vostre rispettive arti: io posso concepire solo un finale tragico, perciò siamo tutti morti orribilmente nelle nostre incarnazioni passate, e così le vostre ipotetiche vite non sono che un esempio di annaspante ricerca di un significato, che nessuno dei posteri riesce a dire se è mai arrivato. Anzi, ci si riuscirebbe pure, ma si evita di esplicitarlo, perché la risposta è no. Nonostante abbiate prodotto cose tanto belle.


(Eh, già! Uno morto suicida o in circostanze misteriose, coi suoi spettacoli pieni di luci e musiche, aspirazioni, conflitti, lacrime! Non hai retto, non hai visto nemmeno il compiersi della crisi economica e spirituale, dei tuoi ultimi anni e di tutta la tua gente, non è vero? Ma avevi presentito qualcosa, e quasi per ribellione o per infinito terrore, sei scomparso. E tu, un ex schiavo, quanti di quelli che ti sentivano cantare credevano al tuo dolore? Pochi, scommetto. Bianchi e neri credevano nella durezza, di animo e di corpo, temprata da ben altre cose che le corde di budello, i plettri di corno. Credevi di avere in mano il diavolo e il suo potere trascendente i corpi e le anime, quando sferravi come posseduto le tue pentatoniche sul delta. E invece finisti in un angolo buio della palude, una notte ubriaca in cui fosti separato dai compagni, un angolo buio da cui non ti videro più uscire, in quella notte di grilli lugubri e strane pire di fantasmi baluginanti a tratti dal fitto delle mangrovie. Chiedi pure a chi si mise in salvo, o alle lucciole del bayou, se qualche essere ancora ricorda i tuoi canti di donne, di disperazione, di liturgia e d’una speranza che proprio non riuscivi del tutto a sopprimere, fino all’ultimo istante di coscienza appigliata agli occhi che si chiusero quando finisti appeso alla luce di una croce bruciante. E voi: avete servito la libertà, avete servito l’imperatore? Anche quando i campi di fiamme e corpi e legna bruciata vi infusero la follia, uccidendovi prima di morire, anche quando intrisi di malaria alzaste urlando la spada inerme contro l’artiglieria che vi disintegrò uscendo dalla giungla? E ancora, hai tu conosciuto il sublime dell’arte e del bello, mentre in una cupa stanza un male ignoto ti logorava il respiro e la mente che aveva partorito le melodie del cosmo? Hai visto il volto di Dio nell’ultimo delirio o soltanto una vuota materia che sa solo scontrarsi su se stessa in inermi ottusi urti e produrre fenomeni figli del caso? Mi sono dilungato troppo, ragazzi, lo so bene, e di questo perdonatemi. Ma i tempi sono cambiati, e non posso più fingere che la vostra presenza stia a significare un qualcosa di così ideale, così bello. Perché guardate, guardate la piazza, così piacevole all’occhio e ordinata: così piena di inganni, di morti di fame uguali a me, di storia e quindi di crisi del denaro e del benessere e della libertà e dell’anima, e guerre e stermini che hanno permesso che lei ci fosse proprio qui nel reame rosso della vita e l’abbondanza: guardate, e superando la lucentezza commovente sotto il tramonto, andando oltre la tranquillità apparente che scende dalla sera, vedrete che non c’è proprio un cazzo di bello.)


Detto questo, dov’è che sono? Non mi sembra di riconoscere questo incrocio. Ah, no, che sciocco. Ovviamente è lo stesso da cui sono sbucato prima, o almeno credo. Perdermi in città, indipendentemente dalla quantità di brodo nel mio sangue, è sempre stato facilissimo.

Era una locanda di queste, è da una di queste viuzze tra gli agglomerati giganteschi che ero sbucato. Lasciai monete e cartacce e la ciotola vuota sul tavolo e scomparvi fuori. La gente è costantemente sostituita, di nuovo. Mi sembra che la metropolitana la possa rigurgitare all’infinito, c’è sempre un’anima laggiù nel sottosuolo, pronta a essere scagionata, mandata liberamente per le vie, i negozi, gli uffici, queste cazzo di cose qua. L’autore di musical sta avendo una discussione con il soldato morto in Vietnam, e io ascolto, non sapendo proprio decidere a chi dare ragione. Cominciano tutti a innervosirsi -insomma, ma che c’è oggi? Invece di essere grati…- e mi incalzano, mi fissano tutti circondandomi mentre procediamo. Faccio per fermarmi sotto al semaforo, o una stupida fermata del tram, una qualche cosa che spunta insomma che diavolo ne so? Si aspettano tutti che dica qualcosa, che decida di dare ragione a uno dei due, non standomene soltanto a guardare come se me la godessi. Dopo la sparata che ho fatto, dopo l’ostentato cinismo, non avrò mica l’insolenza di snobbare i loro problemi come se nulla al mondo mi toccasse! Dovrò pur dire qualcosa, no, visto che con loro non ho risparmiato una certa spietatezza, che non sanno da dove mi proviene, che non mi riconoscono più, spettri bonaccioni. Questo dicono, questi fantasmi che d’un tratto cominciano ad avere un linguaggio contenente cose come “ignavo” e “non fare il vigliacco e schierati”, e quindi a parlare come persone normali, come gli ologrammi che passeggiano per via. Potrei perfino impazzire se una cosa del genere accadesse regolarmente. Vatti a fidare di una combriccola che ha tra i suoi membri due militari… saranno anche stati coscritti, più o meno consapevolmente, ma quella vitaccia deve averli modificati, tipo come è successo a… oh, all’inferno loro, all’inferno la fantasia di un tempo che li ha prodotti in questi modi, ricalcandoli da certi significati che ancora mi tormentano a quanto pare, ancora mi seguono fino all’ultimo momento di parziale sanità in cui ancora riesco a concepire dei significati, prima che sparisca del tutto. Stiamo quasi per litigare quando all’improvviso mi sento chiamare. I fantasmi fanno tutti una faccia scema.


Qualcuno, qualcosa, mi batte una mano su una spalla. Mi induce a voltarmi. Siamo nella gente che sfruscia, nei corpi ammantati di giacche e camice e cappotti, le andature trafelate, i pensieri turbolenti o addormentati, le cuffie, le telefonate, le lingue morse e i languori di vario genere. L’ora di punta, l’approssimarsi del crepuscolo tra le finestre abbaglianti e le fiammanti scie dei fanali posteriori, il ritorno a casa o l’arrivo di una sera attiva. Siamo qui su questo ciglio a ridosso del caos e della quiete e vedo diluirsi le sagome luminescenti di questi infiniti estranei. Lasciano proiezioni di se stesse al passaggio, diventano un flusso che omogenizza i colori. Ma noi due siamo fermi, non so dove. Vicino a un palo, un cartello, un albero, qualcosa di dritto che fa ombra al tramonto, fuoriuscendo dal suolo. Ma l’inganno metropolitano si espande, e io vedo solo un… niente. Chi mi ha cercato è una macchia indefinita, una cosa spuntata da un vecchio nulla, una cosa che posso riconoscere ma che non ha un volto.


Comincio a preoccuparmi, mi giro qua e là, come faccio sempre -o facevo- in questi casi, per impulso. Potrei ricavarne qualcosa di buono, mi dico in un millesimo di secondo, potrei chiedere un parere a loro che hanno maggiore esperienza di tutto. Ma mi accorgo allora che i fantasmi sono tutti spariti. Maledetti!


Non so dire chi è questa persona. Mi dispiace, vorrei dirle, ma ti vedo, in questo momento, come vedo tutti gli altri: sei una proiezione dell’inesauribilità, nonché della natura fondamentalmente frivola ed effimera, di tutti i secondi che si susseguono nell’esistente, sei un organismo responsabile dell’esistenza del gigamostro urbano, ne protrai indefinitamente la sussistenza, questo suo ergersi regale e sfrontato nel cielo con le sue conformazioni da insetto eusociale. Posso mai dire così in risposta? Evidentemente non va bene (qualcosa devo pur aver appreso dalle giornate a sentire clienti dire buongiorno e buonasera e vaffanculo come quella volta). Potrei salutare, chiamare, ma che posso fare se non vedo niente? Risalgo dalle scarpe: bene, le vedo. Di tanto in tanto un’ombra fulminea le attraversa, il corpo, l’immagine di questo essere è intermittente. Continuo a salire, le gambe, le calze. Stessa faccenda. Ecco una gonna, è verde, ha dei lembi giallastri come involti frondosi di pannocchia, ha bracciali ad anello grossi che rumoreggiano sull’osso del polso calandoci contro, ha un sacco di segni caratteristici che potrei associare a qualcuno, idealmente. Qualcuno dal tempo di allora, ma chi? Ho la sensazione di ricordare qualcosa, in una parte di me che urla a un deserto sordo, che si crede deserto solo perché immagazzina il calore e non riceve nient’altro che questo.


Ricordo qualcosa eppure di certo non ricordo niente. Non solo, non ricordo nemmeno un nome di quel tempo che mi ha lasciato solo fantasmi nostalgici, ho cancellato tutto. Anzi, perfino i fantasmi se ne sono andati. Ho dimenticato com’ero, la paura che avevo di dimenticare com’ero. Superata non con il coraggio ma con l’annullamento, come un banco di nuovi bagliori antropomorfi che adesso muove la sua massa pluricefala e plurimamente vuota per sparire all’interno di una bocca scura di metropolitana, ed eccone un’altra rigurgitata in un reflusso scambievole senza sosta tra il sopra e il sotto… un’intermittenza dell’esile corpo che odora di tabacco e menta si sovrappone con l’ombra fuggevole di un uccello nel cielo, mi sembra di sentire una voce. Quella con cui mi ha chiamato, ma è proprio me che chiamava? Mi ha messo una mano sulla spalla, e in quel momento ha detto un nome, che ha risuonato in me, che mi ha voltato, mi chiedo quale fosse. Basta, mi sono soffermato troppo su questo petto sottile dove l’ombra in volo è trascorsa. Devo risalire ancora. Salgo, salgo, una collana di pietruzze smeraldine… arrivato in cima, parlerà di nuovo, facendo riconoscere la sua voce? Mi chiederà cosa faccio, dove vivo, in cosa credo? Lo può capire, che la risposta a tutte e tre le domande è un oggetto fisso a una parete che serve a riscaldare l’ambiente? Oppure è una profana, il cui volto, nell’ordinatissima schiera ciclica delle creature del cosmo, ereticamente non si volge al solo impulso univoco del tutto? Chissà come devo apparirle. Spaesato, in cerca di una risposta a quella che nemmeno è una domanda, è un semplice interpellare. Così fanno queste ombre, lo fanno di continuo tra di loro, rendendosi a me invisibili -infatti io non seguo il loro linguaggio quando, potendo sopravvivere per un po’ con un pasto in corpo, mi muovo nella stessa città, e tra le untuose pareti del fast food non funzionava il mio udito se non per buongiorni e insulti e ordini. Chi avrebbe mai pensato che un esempio di tale linguaggio si rivolgesse a me fuori da là! Ma che razza di giornata nefasta è? C’era una luce strana nel tramonto, quella cosa intravista tra i palazzi alti, riflessa sui megaschermi pubblicitari e le insegne, sulle sedie e le piante in vaso di là dalle facciate di vetro, fin sull’asfalto che si specchia nel cielo, doveva essere un presagio. È un inganno astuto di qualche genere particolarmente difficile per chi non è abituato ad affrontarne.


Non so reagire, ecco come deve vedermi, una cosa mezza tremante, avvolta in stracci, forse (e chi ha avuto modo, d’altronde, di percepire se con il pasto si è prodotto un rinvigorimento anche negli abiti…). Quest’ultima che emerge è una preoccupazione del tutto aliena, aliena al me di allora e al me di adesso, ne sono certo, e vorrei chiedere conferma a quegli infidi fantasmi ma se ne sono tornati tutti ciascuno nel proprio mondo… lentissimamente continuo a salire lungo il corpo bidimensionale di chi mi sta di fronte, che invece di respirare sparisce in lampi scuri e ricompare sorridente. Sorridente: scintillio di denti un po’ incerti, forse delusi nel vedermi poco reattivo, cala fin giù sui tacchi che indossa, è l’unica cosa che si mantiene costante lungo la linea verticale della sua corporatura. Ed ecco che dovrebbe esserci il volto… ma non vedo niente. Non ho speranza di ricordare.


-…hey…!-, dico. Potrei non aver detto niente, potrei aver tossito e basta. Mi sento ribollire dentro le vene tutto il brodo, mi sembra che si trasformi in nausea, e che vada a infliggere il suo tepore liquido e oleoso fin sulle corde vocali, capaci di produrre soltanto fili striminziti, ora anche appesantiti dalle calorie. Il calore non mi viene in soccorso.


Mi dispiace, vorrei dirle, ma non ti vedo, non riesco a veder niente. Salendo dalla collana, a eccezione di uno sporadicissimo comparire di incisivi e canini e molari aleggianti a spicchio di luna, non c’è altro che un vortice d’ombra nera. Lo sento sfrigolare nei cerchi e tentacoli che agita incessantemente. Ma il volto non c’è. Mi guardo intorno, per cercare se anche in tutte quelle altre sagome inconsistenti, di cui non ho mai cercato le facce, c’è un fenomeno simile. Non proprio: non posso vedere i volti, ma sono ostruiti da una diversa intemperia. In loro c’è solo un’opacità, simile a una ditata di matita su un foglio, o una nebbiolina sporca che si accumula sopra al collo. Tu, invece, davanti a me, sei un punto impazzito che esplode in linee, sei un caos di sporcizia nera che grida “indefinito, indefinito”, non ti identifico. Anche la tua identità è andata in frammenti indistinti, o è solo la mia che, essendo così, riflette tutto alla stessa maniera? Mi sembra che dalla tua testa la notte si riprenda il mondo. Come sangue a fiotti da una decapitazione, la tenebra che hai dentro al tuo corpo senza profondità, dalla tua sagoma bidimensionale, oppure proveniente soltanto da me stesso e il mio sguardo, si espande irosa e incontenibile. Se c’era un oggetto capace di far luce, anche questo prima o poi verrà raggiunto e si spegnerà, lasciando attorno a sé un pubblico di esseri spettatori o idolatri d’un nulla. Forse quell’oggetto lo dimenticherò. Un semplice incontro, in una giornata un po’ diversa, può rovesciare di nuovo il mondo, introdurre ancora una nuova fase al culmine della quale non può attendere altro che l’ignoto? E pensare che fino a ieri sarei stato trepidante per un tardo pomeriggio di camminata scaturito da una scodella di brodo…


Mi viene in mente nel giro d’un millesimo di secondo un vecchio episodio. Me ne stavo in camera, ovviamente, gattoni a cercare monetine che speravo di aver perduto tra qualche interstizio del legno o sotto la roba che a volte poteva servirmi o almeno così andavo dicendomi. C’era lì con me l’autore di musical che mi osservava in silenzio, incuriosito. Guardava la chitarra a cui mancavano due corde, dormiente a pancia in su con barbe di polvere sul manico, e diceva tanto per dire che il nostro amico del profondo sud avrebbe potuto un bel giorno trarne fuori un paludoso assolo. Certo, come no, faccio io. Scavavo, lanciavo dall’altra parte della stanza un paio di pantaloni che portavo al locale, con una netta impronta di suola stampata sul posteriore. L’autore di musical la guardò per un po’, e gli feci capire che non era il caso di far domande. Allora si soffermava su tutte le cose che lanciavo a formare un nuovo mucchio dall’altra parte. Vide volarsi davanti calzini, una forchetta, una specie di trapunta bucata, i kanji di un Akutagawa in lingua originale fotocopiato male che non sapevo più leggere, Electric Ladyland orfano di dispositivi capaci di farlo risuonare per queste quattro pareti di silenzio e insonnia. Anche lì stava per aprir bocca, ma doveva aver capito che doveva essere per forza così la camera di uno con una paura folle di quello che gli capitava tutti i giorni nel locale dove andava soltanto per pagarsi l’affitto. Il riscaldamento era il bene più prezioso. Lui, non avendo il corpo, fortunato bastardo, non poteva capirmi da quel punto di vista. Si incuriosì a un certo punto per una specie di diario che capitombolò spiegazzato tra l’Akutagawa e una sciarpa intrisa di sudore notturno. Lo raccolse, nel modo in cui riesce ai fantasmi, e si mise a leggere. Sperava di trovare altri motti illuminanti come quello che avevo inciso sul legno malleabile per l’umidità del piano seminterrato, sperava in altre parole capaci di racchiudere l’essenza stessa di un tale ambiente: e invece trovò scarabocchi e certi miei appunti. Mi indicò un passaggio, chiedendomi che c’era scritto, e io seccato gli spiegai che parlavo d’una città rossa, cioè quella stessa metropoli del cazzo, che mi sembrava farsi rossa in una specie di tramonto finale, come fosse il suo ultimo giorno. Io l’attraversavo e all’ultimo momento mi sentivo chiamare. Mi voltavo e cominciavo a correre, cercando qualcosa, ma la via aveva subito una metamorfosi, erano spariti gli alberi del boulevard. Mi chiese se una roba del genere fosse, secondo me, un risultato dell’ispirazione che sentivo mancarmi. Non ricordavo perché l’avessi scritto, risposi. Disse che gli sarebbe piaciuto tornare a scrivere, un nuovo musical, dalle cui pagine i personaggi si levassero danzanti ancor prima della messa in scena, più vivi del cuore che batteva laconico, più intensi della disperazione serbata negli appartamenti e nelle gabbie toraciche delle innumerevoli esistenze dei palazzi tra le cui pareti un tempo avevano echeggiato agrodolci dai teatri e i cinema le melodie intessute sui suoi drammi… lo avremmo scritto anche insieme, se avessi voluto. Gli dissi d’andarsene all’inferno.


Comunque, proprio non so perché, anzi, lo so benissimo, come mai mi sia venuto in mente questo episodio guardandoti. Ti sto fissando da un po’. Non vedo se hai paura, sei un punto impazzito. Ho modo di credere che faccio paura. Sei una faccia senza niente, sei un ignoto. Così, all’improvviso, per una buona volta senza necessità di chissà quante spiegazioni, ti do un pugno dritto in faccia. È stato molto veloce e mi sto già guardando le nocche, come se cercassi sulla mano i segni lasciati dal tocco della strana sostanza che ti compone. Fa un po’ male e capisco di aver effettivamente urtato qualcosa di duro.


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