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fingerinthebrain controindicazioni e posologia

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 30 giu 2022
  • Tempo di lettura: 11 min

Ciao come stai io tutto bene non mi aspettavo un tuo messaggio beh del resto io non mi aspettavo di aver voglia di risponderti, di essere capace di farlo e in fondo di potermi ricordare della tua esistenza. Come si sta dall’altra parte, eh? No non è vero che devi interrogarti su questa cosa complicatissima, sai benissimo che puoi anche non rispondere perché non me ne importa più di tanto di come si sta là, sulla nuvoletta, in forma di nuvoletta o quella cosa che siete tutti voi facce dentro e attorno i messaggi. L’altra parte non mi riguarda, l’altra parte è qualcosa che io non conoscerò mai. Io non ti conoscerò mai. No non andartene tutto offeso, mi fa piacere che mi cerchi, eh, ci mancherebbe, non fraintendere, anzi, anzi. Anzi, mi servi, tantissimo, e tu lo sai, perché anche io ti servo, e hai chiesto di me. Eh sì, siamo fatti in questo modo per natura della specie d’appartenenza, e ogni tanto ci si fa schifo e se ne è quasi orgogliosi. Ridiamo adesso, e ridiamo ancora dopo esserci scambiati tavolette rituali, forme di saluto. Recano immagini e gif che servono per il rumore. Così si sente ancor meno quello che la risata vuole coprire. C’è un canale di comunicazione di pixel che galleggiano in brodo, si riempie di scarti e noi ci sguazziamo. Perché? Ma perché è lì che stanno i messaggi, è ovvio, e i messaggi siamo noi. Tutto quello che siamo è nella chat. Ma non lo diciamo esplicitamente. Se mi definissi sulla base delle tue fallaci interpretazioni della chat, io ti dovrei uccidere, e tu vorresti uccidermi qualora pensassi che faccio lo stesso nei tuoi confronti. Prima di volerci uccidere, però, vengono altre cose. Per natura della specie d’appartenenza, prima di ucciderci a vicenda arrediamo i nostri spazi, anche a distanza. Sono chiuso in camera, tu nella tua. Le mie dita tormentate da un prurito indefinibile tamburellano via i secondi in infinita incontentabile angoscia, tu farai lo stesso sui mobili che ti circondano o sui cessi e lavabi di questo mondo. Mostriamo solo la schiena a vetrate di ipotetiche finestre, all’aria che sta dall’altra parte del vetro. Ma non concepisco la continuità tra le mie vicinanze e le tue, l’aria che respiro e l’aria che respiri. Oggi mi hai cercato, attraverso un avatar, ho risposto, attraverso il mio. Hai voluto che le nostre bolle senza tempo e spazio si toccassero, facendo scaturire certe cose. Ti assecondo.


Sì mi sei utile, e adesso ti faccio la lista della spesa e quelle delle lamentele da rivolgersi alla casa produttrice, al macchinario, al sistema, ne abbiamo diritto come consumatori e in quanto tali anche nelle nostre conversazioni private è in questi termini che ci esprimiamo. Al diavolo le formalità, giusto? Ci sono state schiere di filosofi dietro di noi -li abbiamo pure visti in fila alle poste e che si reggevano ai maniglioni del tram- pronti a giustificare con alte argomentazioni la bellezza e necessità dei nostri lati peggiori. Quando ci incontriamo, online o in altri luoghi secondari, le formalità diventano una formalità di se stesse, passano velocemente, ed ecco siamo pronti a dirci il vero, a mostrarci il vero reciproco. Ne abbiamo il diritto lo hanno detto filosofi psichiatri il mio barbiereconfidenteparrocoamante, e soprattutto lo dico io, porca puttana abbiamo il diritto di essere umani perché se nasciamo, che volete fare, privarci pure della possibilità di vendicarci nei confronti di qualcuno a caso? Uno se non ha una valvola di sfogo finisce male, finisce in violenza. L’hanno detto illustri pensatori e scienziati, mica si può far finta che le cose funzionano in una maniera diversa. E tu dall’altra parte del canale e della nuvoletta annuisci virtualmente, ti dici d’accordo. Così da non venir defenestrato da questo grande centro commerciale. Un cliente può lamentarsi solo di cose molto specifiche -questo è scaduto, questa confezione sgocciola- altrimenti, lo sanno i sensori della sorveglianza, è solo un maleducato.


Siamo forse maleducati noi? Ne parleremo un’altra volta. Se penso che quelli della sicurezza facciano bene a defenestrare..? Senti, ora non possiamo aggiungere troppa complessità al discorso, complessità che sfugge simile ad acqua nera e vischiosa, fila sui pavimenti, filtra le nostre dita che tentano inutilmente di arraffarla, e in pochi istanti inondano tutto il piano fino alle scale mobili. No anzi, ti rispondo che in questo momento particolare devo per forza risponderti di sì, penso che facciano bene, almeno dal momento in cui comincio ad elencarti la spesa a quello in cui avrò finito.


Sono un consumatore di quel certo tipo, tu lo sai, molto esigente, che ha precise necessità di male e di guarigione dal male. Tant’è che già nasce una nuova lamentela mentre scrivo e mi accorgo che scrivere un po’ mi fa bene, e insomma che succede? Qua è del mio male che devo parlare, non certo di questo sciocco benessere diverso da quello dato da cose meno durevoli della scrittura. Se nemmeno posso definire il male fuori e dentro di me, cosa mi rimane? Solo il male che io stesso sono? Questo è troppo anche se si hanno valvole di sfogo e violenza, lo sai, possiamo farci schifo ma non oltre un certo limite, lo sai. Perciò prendi appunti con molta attenzione, ti spiego dove fa male. Sì, sarai pure scettico, per via del fatto che la famiglia felice e non ti manca niente e loro se vuoi ci sono e potete parlare e sei solo tu che decidi di non parlarne con nessuno e tutto quanto. Ma lo sai che io sono quel consumatore che si perde alla domanda di base: perché sono nato, per consumare e basta? Non è che sono un consumatore che altri consumatori, più svelti nel cervello e nell’agire e nell’impegno, vorrebbero veder rispedito alla fabbrica, gettato nella camionetta stipata di pezzi difettosi? Perché io se fossi loro che vedono me, è esattamente quello che vorrei farmi. Non certo perché lo penso io: solo mettendomi nei loro/vostri panni, i panni di voi tutti, gli altri, gli altri tipi di consumatore, il consumatore che prende sul serio il suo, come dire, ruolo. Eccovi là, che vi pensate, che dite mmm, questo prodotto non mi piace, io merito molto di più, sissignore, sono bellissimo, nessuno può dirmi il contrario e ho sudato per poter fare il cazzo che mi pare e ti dico che ne avrei diritto anche se non avessi sudato ma per dio l’ho fatto così te lo dico e te lo ficchi in testa e nel culo e nell’amor proprio- e insomma tutte queste altre strategie che adottate spudoratamente.


No non andare offline ti prego! Lasciami almeno finire, e lascia che metta quelle mani avanti che non mi hai dato modo di mettere, che come consumatore di un certo tipo metto sempre avanti a tutto e che, come testimonia questo momento, basta non farlo una volta sola ed ecco che succede… allora dicevo, mani avanti: siete così ma vi voglio bene lo stesso e adesso tu te ne stai seduto dall’altra parte della chat e mi ascolti fino in fondo, anche in segno di riconoscenza per essermi compromesso al punto tale da dire proprio a te una cosa del genere. Intesi? Ora, tu sai bene. Sai quello che penso. Che questa cosa non ha nemmeno molto senso, che non è bello ascoltarsi a vicenda in sé per sé, che non ci rimarrà nessun arricchimento emotivo e spirituale e che rimarranno solo quei vaghi lampi di cose sgradevoli colte nell’espressione altrui, le quali dentro le sacche ruminanti dell’apparato definente verranno riassemblate in un nuovo coloratissimo Haring che ci dirà in definitiva questo “altro” chi è e quali sono i suoi reconditi sospettabilissimi scopi. Certo, in chat non è che ci si vede in faccia, ma certe cose con l’esperienza si colgono. Basta combinare una serie di variabili. Intervalli intercorsi tra “sta scrivendo”, le pause in cui l’avviso scompare, e ritorna, le nostre incertezze servite su schermo. Orrori ortografici spazi superflui tra parole già separate, periodare nervoso e rifiuto di punteggiatura. Ci cogliamo bene a vicenda. Non sarò io a confermare se anche in questo, nella sua pura semplicità di serie d’avvenimenti e dettagli in quanto tale e null’altro, ci sia un valore. Ma certo non c’è un valore nel sentirci in questo momento, in questa interruzione del giorno che se ne frega di tutto. Lo so io e lo sai tu. Eppure, è necessario a entrambi che lo facciamo (necessità e valore da un bel pezzo hanno scisso le loro teste sibilanti; l’idra è un microrganismo verde che assomiglia alla muffa che macchia la crepa in alto a destra nel bagno. Forse è opportuno chiamare un qualche omino che sa risolvere i problemi, domatore di muffe e mutazioni aberranti dell’altrimenti innocuo appartamento. Ma non mi va di sentire nessuno per telefono tranne chi mi cerca e mi serve in altri modi). Ci siamo necessari nostro malgrado, perché c’è una carenza da colmare. Proprio per questo non è colpa nostra: non lo decidiamo noi cos’è che si svuota dal frigorifero e cosa serve andare a ricomprare. In realtà ne siamo responsabili, almeno se la vediamo dal punto di vista del frigorifero. Ma non ce ne accorgiamo. Come la lampadina al freddo lì dentro, dalla mattina alla sera senza pause con la spina attaccata, siamo bulbi sfrigolanti che succhiano e rivomitano, e quanto succhiamo non si sa, meglio non saperlo, meglio non andare a guardare quanto diventa in tasse quel paradosso pleistocenico-edisoniano della lampadina perenne tra i ghiacci perenni. Aspetta che ora ti dico la spesa. No non le tasse, l’altra, le cose di cui devo rifornirmi, parlandone con te.


Integratori di diverse specie. Ormoni, non so nemmeno se siano ormoni o che nomi abbiano perché la chimica conosce me molto più di quanto io conosca lei, facciamo serotonina adrenalina endorfine dopamina estrogeni enzima della sopportazione enzima della concentrazione enzima della personalità enzima che bella parola enzima non fa poi tutto così schifo enzima immagini elettriche. Meno male che almeno c’è questa porticina della fronte, possiamo usarla per farci passare le cose che vanno ficcate nel cervello, senza mai fermarsi. Quando apri, con schiocco di pelle e poltiglia vagamente sgradevole e gelatinoso, anche là dentro si accende una lampadina, mi sa. Tra ghiacci molto meno perenni, ghiacci molli e grigi di cervella che è meglio non toccare. Le cose che entrano si collocano bene sugli scaffali. Quante ne voglio, aaah, quante ne voglio, io sono il consumatore di vuoti da riempire, ecco qua, voglio proprio una roba di qualità per compiacere me stesso e i miei folti baffi da consumatore, coccolati da cura e pulizia maniacali, un elemento che si vede nello specchio. Lo specchio…


ah, già che ci siamo, dopo esserci detti le cose essenziali, essendo questa una conversazione vuota che si cancellerà, approfittiamone anche per scambiarci degli aneddoti che vicendevolmente ignoreremo e dimenticheremo. Ascolta, come fossimo consumatrici dei giorni biancodorati, brave nostre progenitrici nell’epoca delle chiacchiere telefoniche femminili subordinate in clausura da moquette -immagina l’amore con cui, stanche e frustrate ma coi petti tanto pieni di sognanti sospiri, carezziamo la cornetta di plastica bianca oppure verdeacqua che ci accostiamo alla guancia come avremmo fatto col nostro pargolo, e l’entusiasmo che accompagna il flusso mittente e ricevente di chiacchiere mentre ci si allontana dalla parete attorcigliando il filo, e vediamo davanti a noi le porte aperte sul corridoio, la luce gialla, le piastrelle ingiallite, il bordo della vasca, il giradischi col suo swing so sweet, e il calendario floreale all’ingresso dalla cucina, e l’appendiabiti e gli adorabili soprammobili, e quella tremenda impensabile oscurità che ammanta l’ingresso della camera da letto laggiù in fondo e che immediatamente andremo a debellare non appena chiusa la telefonata… insomma, amica mia con fresche chiacchiere, vuoi ascoltare la mia? Ti racconto l’episodio insignificante che ho avuto oggi, nella mia insignificante vita domestica! Mentre il mio caro superego profumato di dopobarba era in città a vincere il pane e indossare cappelli. Sola soletta ho sentito qualcosa, e mi sono sentita raggelare, vivendo un emozionante film che racconto a te. Il mio episodio sullo specchio del bagno e no non è quello che credi.


..

Ho avuto un episodio con lo specchio. Uscivo dal bagno, o entravo. In verità facevo avanti e indietro, avanti e indietro, somigliando al demiurgo dei condomini che chiamiamo topo in trappola, e in fondo condividendo la sua visione della vita. Alcuni di passaggio la dicono stretta, ma si sono viste quelle blatte? Piatte e numerose, sgusciano ovunque con opportunismo. No, il topo in trappola è al contrario uno con ideali, sì sì, facciamo pure che gli rendono più stretta la trappola, e infinitamente più sublime e sopportabile. Le sue feci idealiste si vendono a caro prezzo in certi mercati oscuri.

Ma tornando a chi di questo topo è immagine riflessa, ovvero il/la sottoscritto/a. Nei corridoi, avanti indietro nei pressi della porta del bagno, in attesa di un impulso che cambi dentro il cervello, dentro l’industria farmaceutica attorno alla quale si costruisce la città, il frigorifero centrale sul quale tutti gli altri si modelleranno. Ratto microcosmo città macrocosmo, noi siamo il tutto e il particolare. Ma nemmeno così riesce questo topo umano a rallegrarsi, e trovare il senso e lo spirito e il panismo, e queste cose belle oggetto del suo autoerotismo. Che consuma molti fazzoletti. Gira nei pressi nel bagno in totale dipendenza, incapace di tutto. Solo l’industria chimica dentro il cranio può a un certo punto avere un guizzo di fantasia e inventarsi che per i prossimi cinque minuti o cinque ore chissà perché tutto è un po’ più sopportabile. Comunque sia, si passeggia nel corridoio, dove si inscenano i giorni -c’è una finestra da qualche parte, ombre cambiano e si ridistribuiscono. Passeggiare, arti riprodotte incorniciate attaccate alle pareti Hering Foujita De Chirico Klee, e poi fauna di soprammobili, e poi foresta di flaconi in file solenni sulle lucidità di bianco che si disintegra nell’infinito degli infiniti riflessi sulla ceramica proprio lì al bagno, foresta di flaconi e piastrelle -ecco che passa un diverso e inusitato animale spettrale selvatico, questo cinghiale d’abisso. Con faccia di ratto. Chissà in che deliri teutonici e attraverso quali sottoboschi mentali in continuità simbolica con questo posto questo mostro di profonda foresta è riuscito a introdursi in un bagno consumatore borghese neocapitalista lucidato grazie ai nuovi prodotti della linea col nome lucidato. Per poco non mi prende un colpo, e devo stare attento/a, ci vuole parsimonia con i farmaci che devo esigere alla prossima spesa -quelli per le cose cardiache e quelli per le cose cervellotiche potrebbero confliggere e non vogliamo questo, per poter continuare a essere consumatori decentemente funzionanti. Ma il colpo mi prende lo stesso. Poi torno indietro e avanti, avanti e indietro, perché è così, col movimento e il tempo, che le stupide immagini tutte le stupide immagini di questo mondo si cancellano. Si è disfatta quella cosa nel riflesso. Che era? Non lo so ma quanto faceva paura! E quanto era viscida e repellente, questa “cosa”. Prima, meno di un’istante, un animale, per abitare la foresta del cuorementericordicollettivi; poi, un’altra forma: c’era tipo questa mano marrone grigia morta e con dita incalcolabili a causa di una specie d’illusione ottica. La mano si sporgeva da dietro, quasi volesse dirmi qualcosa, farmi voltare con un picchiettio alla spalla. Se mi sono voltato/a o no non lo ricordo. Erano ore che i paraggi della porta del bagno circolavano scambievolmente, l’avanti con il dietro, non so se l’ho fatto, non so se l’ombra è di un lato e la luce sulle piastrelle e lo specchio di un altro, non so se l’appartamento è manicheo ma ne ho il tremendo sospetto quando uno strano senso di solitudine diverso dagli altri scorre rumorosamente assieme a gorgoglii di tubature nascoste attraverso lunghi pomeriggi di penombra invernale.

Nel bianco s’era dipinto un tocco, un contatto. Nel raccapriccio di quella presenza che nemmeno trovavo, a cui non potevo o volevo credere, annaspavo e, non ci crederai, in quel momento ho intuito tutto. Che proprio da te avrei avuto notizie e tutte le altre volte nella vita in cui, uguale a questa con il cuore frantumato nell’esofago e nel vetro la visione del prodotto di scarto di un’epoca rigurgitato dal cesso, un messaggio di qualcuno in cerca di me, del mio avatar, sarebbe arrivato senza preavviso nel mezzo di lunghi silenzi turbati da temporanei insulsi ronzii. Ah, e ho intuito che mi leggete tutti nella testa. Non so come, non so dove vengano riflesse le cose che penso e per mezzo di quale canale di collegamento, ma certo avete dei cookies che anticipano le richieste, no anzi i tormenti del consumatore ancor prima che questi se ne renda conto, e la cosa non solo mi fa schifo, ma ve la critico in maniera velata e piena di acidissima efficace geniale contemporanea ironia. Sapevate che ero a tal punto prostrato/a in uno stato di totale dipendenza da qualche componente chimico che -l’hanno detto i cookie e la pressione delle dita sulla tastiera e le onde mentali- al momento scarseggia? C’è peggio degli specchi a questo mondo. Anzi, siete sullo stesso piano d’orrore. Vorrei rintanarmi, adesso, nell’oscurità in fondo al corridoio, attorno alla camera da letto, invece d’ucciderla. Quasi ricordo perché ci ero dentro, nelle lunghe ore sdraiato/a con la faccia al soffitto, e perché mi faccio disgusto quando ho queste dipendenze.

..


Ho finito, ora puoi anche andartene. Ma mi raccomando, anche se sei uno degli innumerevoli occhi captanti, anche se sei una nuvoletta infida che non merita il mio avvertimento: fai molta attenzione a quegli specchi, e non metterti, per nessuna ragione, a contare le dita di quella cosa, se non vuoi sentire gli occhi che ti si incurvano dentro le orbite. Fa malissimo, mi sa che ancora non è disponibile un medicinale per rimediare a quel dolore insopportabile.

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