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fiatone e finta Disney

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 23 apr 2023
  • Tempo di lettura: 20 min

Ebbi un sussulto e nel televisore dal colore del legno comparvero, frettolose, le grigiastre ombre quadrupedi che si affollavano sull’orlo del canyon, veloci in curva, salvate dalla caduta solo dalla loro miracolosa anatomia di disegni. Sagome in movimento su un paesaggio di colori e matite e rudimentali ritocchi digitali, e i fogli puzzano delle diteggiature degli animatori e di quel decennio, quel secolo in cui dovrebbe esser venuta al mondo questa mia poltiglia, “coscienza” che, seduta sul divano per fissare l’incarnazione febbrile di quel suo tempo vissuto e dimenticato, si scuote, ribolle di eccitata e quasi stupidamente speranzosa elettricità. E le bolle che, affiorate sulla superficie del viscido malloppo neurale, scoppiavano dietro le mie cavità oculari imbrattando per sempre le pareti interne del cranio, secernevano quel liquido il cui odore non sarebbe stato più rimosso. Ricordava una vernice, stranamente piacevole come il profumo della benzina -nella maniera cioè di qualcosa che non dovrebbe affatto profumare-, esalata dalle maioliche smussate di una parete color crema, liscissima, sembra di toccare le gibbosità spermatiche della mascotte delle merendine al latte. Sì, questo era l’odore. Dentro il mio esserci.


Ebbi un sussulto e seppi che mi stavo alimentando: le immagini, scendendomi dentro, modificavano il recipiente. Elettricità sparpagliata. Vidi, molto vagamente e per un solo istante, il mio volto nello schermo popolato da animali parlanti e istrionici, vidi una forma spettrale e resa giallastra da quell’obnubilante qualcosa che permaneva sempre al di là del vetro, anche quando era spento. Volto semitrasparente e dissolto tra i ronzii lì imprigionati, provenienti dal buio opaco così indefinito da non essere nemmeno tanto scuro. Qualcosa di stanco prende dimora là da qualche parte imperscrutabile nelle interiora meccaniche che forse fibrillano impazzite di scintille bluastre, capaci di pensare, di farmi vedere delle immagini come se quello spirito elettrico lì nascosto, ammesso che esista e stia cercando di dirmi qualcosa, sia un vecchio in seggiola sul lastricato di un paesello arroccato privo di traffico, intento a dirmi un proverbio solo perché mi ha visto passare ed è inammissibile che me ne vada senza nulla in tasca. E facendolo fa rumore, ingranaggi, e impazziscono e fibrillano e si contorcono e attraverso strati di oscurità di plastica e componenti e circuiti fanno giungere quel loro vivere indaffarato, otturato da tutto, un ronzio ch’è quasi un silenzio, e la mia mente di gelatina e spugna a nemmeno tre anni è già abbastanza anziana da esser giunta al punto in cui un’emicrania che sfrigola al centro della fronte non è più distinguibile dal ronzio del tutto, o di un qualcosa di vicino, che sarebbe sempre stato vicino… come ragni in una casa, meno d’un metro ogni istante della vita. Un ronzio indefinito sempre accanto a te. Come elettrodomestici, giungla d’occhietti nella notte di prese lasciate accese.


Sapevo immaginare quella stessa sala d’ingresso con i posti a sedere per guardare lo schermo e i soprammobili nei paraggi come sarebbe stata una volta scesa la notte? Sedevo e vedevo le metamorfosi della luce -no, non le vedevo, le sentivo, fotogrammi paralleli, sfogliati in un taccuino che faceva fogli del tutto, il visibile un malloppo di fruscii. Ma la notte vera era mai venuta a posarsi attorno a me in quel luogo? Ci avevo mai pensato?


Proverbi elettrici sentenziano: non c’è posto per i dubbi, c’è solo il guardare. Perché? Te lo dirò un’altra volta. Ora va’ ragazzo: va’ a giocare, perché è questo il momento. Allora ascolto il consiglio, allora guardo.


Si sgretola, come da programma e sceneggiatura, un pezzo di paesaggio, pochi frame di sasso rossiccio rotolante dal precipizio, istanti di sollievo e terrore esagerati nei volti animali che non riescono a contenere sclere strabordanti. Va tutto bene. Nessuna iena cade. Io sono sul divano, questo divano che odora d’albergo, ed è verde, è gli abeti che ricoprono il declivio opposto all’altura dove sta questa specie di baita, questa estate di legno: va tutto bene. Schioccai ripetutamente un rumore di bocca appiccicosa, come se avessi impiastricciato sulle labbra un latte e menta invisibile, di cui non c’era nessuna traccia in cucina, nessun bicchiere lasciato sul tavolo con una singola goccia verdastra opaca a tremolare sul fondo, occhio sporco che lumacoso perlustra i paraggi in cerca delle forze che preleveranno il bicchiere, i principi regolatori del mondo che nei momenti d’incoscienza lo collocano nel lavello e fanno sì che le cose sempre proseguano mettendosi in disordine e poi mettendosi a posto, indefinitamente. Davvero non c’era sul tavolo nessun bicchiere del genere? All’improvviso c’era veramente, lo sentivo, solo perché potessi sentirmi appiccicoso ai lati della bocca e temporeggiare con una ritmica di me stesso. Tutto bene.


Avevo visto centinaia di volte, così mi sembrava, quello stesso film animato. Centinaia, in quei pomeriggi -quasi anche quelli si sprigionassero infiniti dallo stesso tribolare del nucleo cigolante di una videocassetta, rotelle cartilaginee che si possono far ritornare indietro, più e più volte, esasperando le durate. Le iene inseguivano qualcosa, questo era il loro compito, crani primevi per ospitare cervelli palpitanti della singolarità estenuante della caccia. È la natura: la si vede disegnata. Tempesta di colori che vedevo per l’ennesima volta. Perché volevo rimandarla indietro? Scena perfetta, scena tra le preferite, tutte quelle in cui si vedessero le bestie nella loro forma ben delineata, personalità intere, allegorie. Senza accorgermi di nulla mi alzai e mandai indietro la scena, senza saperlo fare. Non attesi l’arrivo di qualcuno di più alto e grosso e intelligente che potesse farlo per me: frastagliati scarabocchi bianchi e grigi, simili a frattaglie di nuvole temporalesche, ricevuto un input dal tasto schiacciato graffiarono orizzontalmente lo schermo mentre vi comparivano velocissime le sequenze che capitombolavano nel paradosso delle azioni diventate reversibili. Tornai a sedermi come se non mi fossi mai alzato da là, senza godere la soddisfazione di riconoscere il compimento di quell’operazione che tanto avrebbe mandato in estasi l’egoismo cosmologico di cui il mio piccolo corpo era perno, spina protagonisticamente conficcata nella zampa dell’universo. Fissai lo sguardo, ora allo schermo ora ai bordi dove finte venature imitavano gli anni collezionati da una conifera, o le pareti di una cascina, di cui tutto sembrava avere l’odore -misto a quello d’albergo, certo, è ovvio. Pensavo, mi addormenterò in un letto a castello, una scatola, un rifugio, un buco nell’albero. E tutto sembrerà proseguire naturale da dentro le cose -una schiusa, e poi dentro l’altra, e poi rischiusa, la mattina nel pomeriggio nel tramonto e il film di leoni e iene che vedo. Sempre lo stesso.


Osservavano, distanti, capaci. Eccolo, è là!, avvistavano, il leone che a valle si specchiava in un ruscello. Dovevano inseguirlo, il branco grigio e nero curvò ancor più velocemente iniziando la discesa dal canyon. Il leone non sente, non odora: per pochi momenti, quel leone disegnato, è soltanto un uomo: non è ibrido: sono più belva io che guardo di quanto lo sia lui: sono sospeso nel confine e lo schermo mi ha promosso sciamano: con un sussulto un cuore che mi sembra assai imperfetto, ancora malformato, mi dice da dentro una gabbia toracica troppo fragile agli urti che sono lo sciamano più magnifico nel raggio di chilometri, cioè lo sciamano più magnifico seduto su quel divano. Il felino adolescente, rimasto solo a vagare nella pianura brulla fino a incontrare l’acqua e il riflesso della sua peluria caracollante sulle spalle, era un mero umano che non sentendo l’avvicinarsi delle iene, ombre e repressioni della sua stirpe, rimaneva a guardare nelle increspature fresche e trasparenti un volto, e non udiva altro che un continuo rintronare di problemi. Dubbi e tormenti della sua solitudine, gli stessi che l’avevano accompagnata per giorni di vagabondaggio, circolando in volo di avvoltoi. Non poteva accorgersi di quello che qualsiasi bestia avrebbe avvertito, con allarme, scatto, infinita eleganza. Guardavo ancora tutto questo, all’improvviso sapendo senza ragionare che questa era una storia, una narrazione: solo, inseguito, da più tipi di inseguitori, il riflesso nell’acqua, le forme di vita più scure delle altre giunte da una terra più scura delle altre, il movimento, incomprensibile, ipnotico. Il branco di cacciatori instancabili, quasi una notte pluricefala al galoppo, scendeva dal canyon cangiando le sue espressioni e strattoni distribuiti tra le parti, rocambolesca esagerazione del partecipare. Cartone animato. Alcune cose sembravano eccessiva esuberanza. Le guardavo. Mandavo indietro alcune scene per rivederle.


Un diverso tipo di folgore, che anni più tardi avrei chiamato “flashback”, mi trapassa le tempie da parte a parte facendomi rivedere una scena: sono io, un altro posto che chiamo “casa”, e se lo faccio non è, come qui, per rivestire di quotidiano e ovvio la muratura della dimora temporanea così da illudermi che le vacanze si allunghino all’infinito; dal balcone dietro di me proviene uno spiffero freddo e un ruggito della notte urbana, sospinge la mia schiena in fuga per farmi appiccicare con più forza al televisore, intanto che non esistono voci capaci di rimproverare e avvisare che in quel campo magnetico in cui sono entrato valicando un’invisibile soglia di sicurezza gli occhi si logorano, rossi -no, peggio, ti rincoglionisci, no, peggio, verrai risucchiato là dentro, no, peggio, sarebbe stato quell’aggeggio a trasmettere qualcosa da sé a te, versandoti dentro un invisibile e inodore oro fuso che t’avrebbe ucciso nel sonno. Spesso voci dicevano che molte cose del genere potevano accadere. Ma so solo di una cosa che accade, in questo magnetismo che mi solletica come infilandomi in un sacchetto di caldo e quasi impercettibile respiro: i peli si rizzano su di me, anche quelli che non sono ancora cresciuti, nuotano in un flusso che è la forma quasi fluida, tangibile, respirante e a me così genitorialmente vicina delle righe verticali a colori che appaiono quando le trasmissioni si interrompono, continuando a colorarmi la retina, a intrattenermi la coscienza fino all’istante in cui si addormenta.

Definisci folgore: una cosa che succede ed è già successa che ritorna bruscamente, traducendosi in flusso sfrigolante, presentandosi generalmente nella fronte o in aree adiacenti.


(Anni più tardi sarei rimasto molto impressionato nell’apprendere di un comandante romano che, tenuto prigioniero, era stato costretto a ingurgitare litri e litri incandescenti di quel liquido che sta dentro i televisori e li fa funzionare. E lo vidi davanti a me nell’oscurità di una segreta umida e lercia, mentre attraverso l’imbuto veniva allattato da quell’inaudita morte che avrebbe cancellato ogni altra sua impresa dalle menti che avrebbero ereditato il mondo da lui lasciato con tanto strazio; ce l’avevo davanti, il comandante in persona, a contorcersi nelle funi che lo tenevano legato a un pilastro, a vomitare e defecare rivoli di poltiglia rossiccia che, ricevendo fiochi e striati riflessi solari dalle grate della prigione lassù al livello del suolo, mostravano nelle loro vischiose macchie sul pavimento di terra battuta un susseguirsi oracolare di incontrollabili disegni e colori: alieni e paperi parlanti e automobili con musi di cane e divinità egizie, Iside, e paganesimo technicolor, níðstang di teste porcine intenti a esibirsi in insopportabili canzoncine.)


Starnutii. Dimenticai immediatamente di averlo fatto. Il ricordo di “casa” si dissolse, smembrate le sue parti nella violenza dell’espulsione dei germi. Il subbuglio nella fronte fece scomparire il ricordo e tornò a esserci davanti a me, in tutta la sua essenza non filtrata da nulla, il tv che mi piaceva pensare fosse legno vero, un albero amoroso che mi invita a guardargli dentro come se veramente nella foresta i tronchi sorridessero in qualche loro pareidolia di corteccia, e attendessero una luce adatta per attaccare con una canzone allegra alla quale si sarebbero dovuti unire uccelletti, gnomi, procioni espatriati nella germanosfera dei Grimm. Ero tornato nel salotto. Nella casa di non so chi -uno di quelli grandi e alti, “Torri della Vacanza” li chiamavo. Barba e occhiali. Fratello di non so chi. Ci dà una casa come un albergo, ci dà notti una dietro l’altra, parlano di pernottamento, di notti, io ricordo solo i pomeriggi, io sono dentro i pomeriggi, io sono vivo quando le Torri muoiono in una tombale pennica pomeridiana e io scivolo, scivolo, scivolo, come adagiato sullo stesso tipo di fluido febbrile che compone l’animazione, scivolo verso il fondo di un’incoscienza di diverso tipo.


(Sognai, quella notte -ammesso ci sia stata una notte dopo quel giorno-, nuvole che si sollevavano dai fischianti orifizi dei corpi delle Torri Della Vacanza accasciate nei loro letti, sotto coperte buie, intrise dello stesso sentore delle dita di polvere tra le lamelle delle persiane; sognavo d’esser sgattaiolato in punta di piedi dentro quelle camere da letto dove il silenzio spirava da ogni granello di pulviscolo e striscia di penombra, e di afferrare quei malloppi d’aria viziata sopra i dormienti dal respiro a mantice, e di mangiarne manciate della consistenza dello zucchero filato, che trovavo rivoltante, che mi assuefaceva e allucinava come stessi mangiando meningi e mal di testa e tutto quello che nelle fronti delle Torri veniva ininterrottamente distillato, ogni loro momento d’esistenza e fretta, simile a una stanchezza diversa da qualsiasi cosa avessi mai provato e che non sarei stato in grado di spiegare nemmeno quando mi sognavo coi superpoteri: capacità di articolare ciò che penso, capacità di vivere in questo mondo. Hanno superato l’invisibilità e la tramutazione nella lista delle mie fantasie di rivalsa.)


Mandai indietro un’altra volta quella scena, sapendo cosa sarebbe successo e giocando a far finta di non sapere che non cambiava mai, tendendo come un brandello appeso a una cordicella quella finta speranza di veder comparire qualcosa che sullo stesso nastro registrato non era mai comparso. Coccodrillo che affiora dalla superficie del ruscello, imprevisto dalla sceneggiatura.


(Avrei sognato anni più tardi d’aver visto per la prima volta Lo Squalo in quella stessa casa -sognavo spesso alberghi, letti disfatti e abbandonati dai quali avrei guardato per la prima volta diverse immagini cinematografiche, come sfogliandole da un’antica biblioteca del sapere più vero, riguardante i segreti delle cose che affiorano o non affiorano dagli schermi o dalle profondità, spiegandoti proprio in questo modo che esistono proprio quando non ci sono, e due note gravi ricircolano infinitamente, E F E F E F E F E F…, creando un codice binario. Lo stesso che le fa parlare, le fa essere immagini. C’è un codice bicromatico alla base di tutto quanto precipita nella coscienza o minaccia di farlo sfregando rumorosi strascichi luminosi sulla sua atmosfera; c’è un codice che nuota sotto la superficie, tic tac, semitono più semitono meno, E F, Mi Fa Mi Fa Mi Fa Mi Fa, mi fa esistere dentro e fuori dall’esserci. Codice crea pigmenti e silhouette. Mi concentro, in una fase annaspante della vita, su ciò che si può vedere.)


Mi concentro sulle immagini. Una vecchia del paese, seduta sulla sua seggiola muliebre accanto al vecchio patriarca custode di proverbi, mi aveva detto, dandomi una pacca: tranquillo, Leonardo era mancino, non era mica il diavolo, era un genio, pensava per immagini.

Continuo a guardarle, allora (grazie vecchia per avermi mentito!). Mi ci avvicino, oltre la soglia di sicurezza, perché è come se volessi dare un bacio. Campo magnetico, ti prego, feriscimi con la tua mononucleosi catodica.


Il prisma con la sua iride dorme sotto la superficie dei tanti quadratini allineati dietro il vetro convesso, in attesa del momento in cui le trasmissioni oppure i collegamenti tra vari incomprensibili circuiti s’interromperanno e io rimarrò a guardare, impalato davanti alla danza di corteggiamento del rumore bianco, in volo su mefitiche paludi d’informazione che col mio occhio riesco a scorgere, intravedere dietro schermi -nuovi, apparsi strato per strato dietro lo schermo principale- fatti di trambusto. Arriva sempre quel momento in cui tutto formicola.

Eppure minacciava di non arrivare, scardinando l’ordine lineare del flusso al quale sentivo fosse necessario aggrapparsi, per vivere, in modo da nonvivere, per star tranquilli, per non cambiare. A un certo punto, ricordo, cominciai ad accorgermi attraverso i fremiti di qualcosa di molto periferico a me -quasi ricettori formicolanti nelle dita dei piedi uniti sul bordo del cuscino dove sedevo a gargolla- che esisteva attorno a me una spugna; un fluido, chiamato atmosfera, che si succhiava qualcosa da qualcos’altro, da “fuori” per esempio, da quelle spade sottili di luce che ferivano il contorno della porta, e accecavano molto più ostentatamente del chiarore che invece traspariva, in porzioni più grandi ma meno intense, dal vetro della finestra attorno alle tende giallognole.


All’improvviso fui distratto. Non avevo mai perso a tal punto la concentrazione.


Senza accorgermene avevo riportato il film alla scena desiderata e avevo schiacciato il tasto giusto affinché da lì ripartisse. Senza accorgermene stavo dirigendo un occhio alla scena senza l’attenzione necessaria affinché potessi captare la benché minima fittizia variazione rispetto alle mie innumerevoli precedenti visioni. Senza accorgermene un altro occhio diventava ginnasta di uno strabismo mai visto, e non era nemmeno rivolto alle finestre dove qualcosa, in fondo, stava davvero accadendo, facendo soffiare un refolo.


Le orecchie, la pelle con tutte le sue incalcolabili minuscole orecchie aperte come sgradevoli vesciche sfrante e assetate su una corteccia, cercavano il refolo e lo subivano, facendomi sentire al petto una strana sensazione, una sensazione che era come se… ma lasciamo perdere: le orecchie facevano questo: un occhio, quello che non era allo schermo, si storceva e cercava un’oscurità che era al contempo dentro e dietro di me, l’orbita oculare faceva il giro completo per rivolgersi a… non so nemmeno dove.


Non sfuggo alla verità: una sensazione che era come se quell’arrossamento che in certi momenti mi aveva circondato dalle orecchie al collo, confondendosi col cielo che sfumava granuloso in banchi evaporanti tutto attorno e facendomi credere che io stesso fossi solo una squama del cielo o che il cielo, sofferente della stessa mia congiuntivite, fluisse senza ostacoli in me -come se quell’identico stato di rosso smarrimento, provocatomi in quei casi in cui una mano mi sfiorava e sussurrava e il tramonto si spalancava gigante tra spighe e code spioventi d’uccelli e volevo veramente che tutto quanto bruciasse in una pira gigantesca d’amore e incapacità di reggere urti e tocchi di qualsiasi tipo -come se quella stessa esperienza, adesso, fosse sintetizzata nelle più minuscole particelle dell’aria proveniente da fuori. E martellandomi contro cercasse di scuotermi, di rompermi. Diceva: sta accadendo: ogni istante che esiste là dove vedi le intrusioni della luce e del vento e quei rumori che si avvicendano fuori dalla porta, è pieno di tutto questo ed esplode: scegli se fuggire o resistere.


(Anni e anni più tardi avrei appreso il verbo 崩れる, fa il rumore di qualcosa che crolla e si sbriciola. Ero uscito da una lezione prima della sua conclusione perché volevo ascoltare “Revolver”, perché c’era il sole, fiore caldo giallo, lo stesso che c’era nel ’66, ne ero sicuro, com’ero sicuro che tutto quanto esisteva era sbocciato dalle macerie di Hiroshima. Ma nelle orecchie oltre alle cuffiette avevo ancora il vocabolo, il rumore del crollo, inscritto già nel lessico: vedevo così una statua nanesca, in piedi in una specie di cortile vuoto dell’asilo che con illusorio cemento aveva preso forma a partire da un mucchio di anni ricostruiti da fugaci impressioni, frangersi in un polverone variopinto di crepuscolo, l’ora preferita che nacqui per attendere ripetutamente, in routine della mancanza.)


E attesi il termine del flusso, la bellissima fine prima del ricominciare ciclico al quale non sapevo dare un nome, attesi i titoli di coda nel nero dopo il film e il sonno e il risveglio e la ripetizione; lo attesi standomene paralizzato, come mai ero stato paralizzato. Il mio movimento in quei giorni era la stasi; la mia paralisi era sperimentarla in un paradosso, dove immobile mi muovevo, ero un concentrato di movimento; qualcosa di pesante si muoveva da qualche parte alla periferia della percezione, e non era un cartone animato. Eppure si comportava come tale: era la realtà, era il “là fuori” così drammaticamente disegnato dai raggi incorniciati dai contorni di porte e finestre, troppo lineari per non essere sospetti -erano questa “realtà” e questo “là fuori” a proiettarsi dai disegni in movimento, e non il contrario: non erano questi a trarre ispirazione dal concreto, passando attraverso il filtro vivente che erano gli artisti perché costoro convogliassero un tumulto interno, una ribollente insoddisfazione per la carne; ma ritorniamo a me (io, io, sicuro di esistere!), e non alla realtà: a me che dalla realtà venivo gettato in paralisi: dalla giustapposizione di due movimenti inconciliabili; e, sprofondando nel divano, sentivo un terzo movimento, il mio, sentivo un quarto un quinto un 1014esimo movimento di qualcosa che mi palpitava dentro provenendo da 1014 direzioni diverse, in immersione in un magma caldo che aveva lo stesso colore di quegli strani omini gommosi del cartone sull’anatomia, puntuale all’ora di colazione. Scendevo nel cuscino del divano sotto di me, e insieme scendevo in quel paesaggio d’immersione, perché stava avvenendo lo stesso fenomeno con partecipanti diversi: perché non stavo diventando i leoni e le iene, perché la trasformazione speculare aveva per soggetto e oggetto me e un diverso tipo di mondo nel quale specchiarsi e vedersi riflessi era come una tortura. Mondo che, per nessun motivo accettabile, aveva deciso di presentarmisi in vacanza.


Scendendo udivo sempre più nitide le loro azioni, di quelli là fuori -intrighi, tradimenti, e poi ancora gesti d’affetto non meno spaventosi, e amori che urlano fino a spaccare i timpani, e convalescenze che contagiano tutti come epidemie, e addi e calori e freddezze negli sguardi, e in un istante mi convinsi che tutto esisteva per intimidirmi, tutto era sguardi rivolti a me che prima non avevano mai fatto tanto rumore.


La “trama” era viva: avevo paura: all’improvviso eco concitate oltre la porta trascorrevano facendomisi quasi semitrasparenti, quasi riuscissero a proiettare in quel piccolo salotto d’ingresso i loro ologrammi diafani per costringermi ad averli in mente assieme a tutto quanto avevo ficcato nella mente in giorni di vacanza -tutti i fotogrammi, e tutto il profumo del giallo e beige e arancione delle travi lignee delle pareti e il parquet, tutte le striature brune del tv, il telecomando, un quadretto di una madonnina modiglianesca accanto alle chiavi appese, e i soprammobili sotto di loro, che riconoscevo, pastorello e angelo Thun e agrifoglio metallico fuoristagione e un’anatra dal dorso forato per farci entrare un fascio di gramigna ornamentale ormai seccata (mi sembrava però di vederla ancora un po’ verde, come spesso mi accadeva con tutte le cose. Qualcosa di vivo, un’aura, nel filo del gambo). E quei fantasmi si aggiungevano al novero, la mia continua enciclopedia di tutte le cose che sembravano, ogni giorno, guardarmi dall’altro lato di una gigantesca parete di vetro. Credevo fosse proprio il vetro, però, a renderle certe volte più grosse, più nitide e capaci di parlare di quanto sarebbero state se qualche mano prepotente e criminosa fosse calata, per rimuovere quel vetro, dal cielo o un’altra incommensurabile altitudine, quella dove fluttuavano, parlando e ringhiando e ridendo, i volti delle Torri.


Le Torri si avvicendavano di là da porte e finestre, mostrandomi la loro danza. Io non capivo la loro lingua. Io ero intimidito. Io avevo paura. Io cominciavo ogni pensiero con “io” e incontravo un oggetto multiforme e senza nome che non riusciva a specchiarmi come tutti gli altri. In una maniera tutta sua, mai vista.


Il sole passava dal suo autunno al suo inverno. Rosa brunito della mia ora preferita e dei fagiani mimetizzati nelle spighe cominciava a riempirsi di sempre più numerosi globi di tenebra, sprigionati da un cervello di neve conficcato nel cosmo che circonda la luna. E tutto ciò mi giungeva in raggi, dai vetri, dalle tende gialle, dalla striscia ammonitrice sopra la porta. Come un occhio. Ricordo che schioccai di nuovo le mie labbra, ritmicamente, in battute binarie. Sentivo avvenire là fuori le cose che si trovavano nel centro di quel cambiamento luminoso, che dava un nuovo nome al film ritornato a scorrere lungo i suoi binari di sempre: durata: tempo che passa: i numeretti nel videoregistratore correvano senza curarsi di niente, nemmeno del fatto che non li stavo guardando, che non erano stati loro la fonte della mia distrazione, come talvolta accadeva, e soltanto con loro.


Pensando ai numeretti pensai a casa. Anche là c’era un divano, sì. Convenientemente collocato a breve distanza da un display sul quale numeri fatti di stanghette luminose simili a Geomag correvano e si frantumavano e ricomponevano, sottoponendomi senza contatto all’unico solletico piacevole. Ma smisi di pensarci: non li avevo visti che con la coda dell’occhio, e l’occhio era un animale troppo nervoso in quel momento.


Vulcani sullo sfondo, eruzioni coloravano le ombre ingrandite di leoni e iene che rappresentavano lo scontro delle stirpi, L’Anima contro L’Ombra sulla roccia lavica. Ma non stavo vivendo abbastanza per goderne.


Torri della Vacanza -cioè quelli grandi, quelli alti e giganteschi- stavano fuori dalla porta, nel giardino della fiabesca casa di montagna che mi sembrava il posto più vasto che avessi mai visto, e lì, avrei potuto giurarlo, si accoltellavano. Uno usciva dal parallelepipedo di travi marroni scuro dove stavano attrezzi e un tubo verde per l’acqua attorcigliato in minaccia serpentesca. Era uno zio o un cugino o un vattelapesca di chissà quale delle due Torri che mi avevano portato là, e al petto stringeva un cuscino dove riposava un pugnale. Giuro che seppi immediatamente che, dopo aver sorriso alla sua vittima e atteso che anche questa sorridesse, l’aveva sollevato e con forza piantato più volte nel petto, che, sorpresa!, era esattamente un cuscino uguale a quello che avvolgeva l’arma, lo stesso ammasso di morbida fibra che si sfilacciava violentemente in zampilli dello stesso colore. E attorno guardavano, e sembravano ridere e commuoversi e intrattenersi, come spettatori di Shakespeare al teatro o al cinema, e parlavano in un linguaggio incomprensibile che tuttavia mi sembrava dicesse -solo una spaventata intuizione- quello che io dicevo sempre urlandomelo dentro la fronte per sentire l’eco, quando vedevo scorrere le ore dei pomeriggi senza capire il verbo “scorrere”: tutto va come deve essere. Questo dicevano.


E non finì là: la signora Torre con gli occhiali a mezzaluna e i capelli dall’aspetto di una zucca, somigliante al disegno di una maestra in un qualsiasi libro delle vacanze, si affrettò a portare un vassoio per posarlo su un tavolino messo al centro di un arioso spiazzo lastricato. Era un tavolo che mi sembrava fuori posto: nei miei lunghi scarsi anni di vita avevo captato abbastanza impressioni fugaci per sapere che quei tavoli coi bordi neri e il nucleo membranoso paglierino stavano in pianura, più spesso in balconi né troppo distanti né troppo vicini al mare. Mi aspettavo che di lì a poco comparisse un estraniante cestino con il logo dell’Algida stampato sul coperchio girevole, lì accanto alle sedie; percepii invece, intagliato netto in quello sfondo d’ologrammi, il bicchierone di veleno che la signora aveva offerto al crepuscolo prossimo a sparire. Bagliori violacei riempivano l’aria e filtravano fino al luogo del mio sprofondo, fino alle mie mani che s’agitavano oltre la superficie dei cuscini riuscendo a captare tramite il tocco della luce e del vento tutto quanto -il leone che vince il dominio della savana e sposa la leonessa, il ronzio delle cose, l’avvelenatrice là fuori che fa cin cin e solleva l’intruglio blu, schiumoso di morte. Il collo del primo assaggiatore si riempì di sangue e soffocò, stramazzò a terra, tra fili d’erba e mattonelle dove zampettavano scalzi i pastori tedeschi un po’ vecchiotti che gironzolavano attorno alla casa.


E no, non finì: seppi che un letto era apparso poco più in là: vi dormiva, con le mani incrociate al torace, una sagoma vecchia e spolpata, secca. Mummia. Al suo capezzale non si presentò però il dio testa di sciacallo. Due Torri vestite di nero stavano a piangerle davanti, e le loro lacrime precipitando da quella loro altissima vertigine si tramutavano in assordanti proiettili neri, e i più lunghi cadendo mutavano in obelischi quasi, il cui impatto bucava il petto moribondo e sollevava funghi atomici nel respiro.

Venne una campana, poi, dal paese a quota più bassa: vidi il campanile stagliarsi marrone e bianco in mezzo ai rilievi, simile a un biscotto tra verdi scodelle rovesciate. Il vento della sera spirò da laggiù portando la fragranza delle conifere e un ultimo raggio di sole iracondo, intento a trafiggere una nuvola a occidente prima di sparire completamente, quand’ecco che apparve, nel fruscio di arbusti boschivi che abbarbicavano la staccionata ornamentale al perimetro simbolico della casa, un orso, dal pelo quasi dorato. Abitante dei boschi. C’era la sua forma nelle ombre attorno, onnipresente nel nonvisto. Ricordo che ricordai d’aver creduto di sentirne l’odore dai finestrini in macchina. Ricordo che ricordai, quasi sentendomi male lì tra i cuscini, un vertiginoso e incredibile viaggio d’andata -io che mi ero mosso a velocità da brivido all’interno della sua trama, il suo nastro, correndo come i numeri del display. Chissà se era possibile allora rimandarmi indietro. A quando non ero ancora annegato nel divano. A quando ero in viaggio e le foreste lampeggiavano verdi e nere frustando il vetro contro cui premevo la faccia, come solo io la sapevo premere, sciamano, marmocchio, muso ammutolito schiacciato contro le cose, i finestrini o gli schermi. Orsi nascosti, fantasmi. Il loro emissario aveva atteso quell’ultimo raggio del tramonto captandovi dentro un fiato di tromba, e con fare professionale sbranava una dopo l’altra le Torri della Vacanza, sorridenti nel destino, poco prima di cena. E a ogni morso il rintocco scemava, e a ogni rintocco erano chiamati a raccolta banchi d’aria serotina che pian piano spennellarono il paese distante fino a plasmarlo, indistinguibile, all’anello d’aria montana e alberi che lo circondava.

Che diavolo sta succedendo?, pensai, distintamente, per la prima volta.


D’un tratto m’accorsi, il che è piuttosto strano, che ero diventato tutto verde e morbido. La mia faccia era un tessuto dove ero stato seduto poco prima, dove s’erano depositate le pelli morte sgretolatesi dalle mie caviglie, lì strusciate a causa della postura scorretta. Strano: il tempo esisteva, mi sarei svegliato, tornato a far colazione in una mattina di legno e solita aura da finto albergo in uno dei giorni schiusi da quegli stessi avvenimenti, come sempre accadeva, in successione. Ma chissà dove, da qualche parte tra un momento e l’altro della linea del tempo, c’era stata la mia faccia affondata in un mare di tessuto. Incastrato tra i cuscini e gli istanti ammassati in disordine, incidevo nelle narici la polvere e il buio diverso che c’era là sotto, o là dietro, o là dentro, dovunque fosse. Non so quando ebbe fine. Sospensione. Simile alla sparizione temporanea delle Torri, quando di pomeriggio dormivano, rifugiandosi e rendendosi intoccabili di là da schermi su schermi di emicrania e pulsante sonnolenza, un riposo che non riuscivo a capire. Appartenente a un altro linguaggio. Eppure ero sparito anch’io in ore che trascorsero letargiche, senza una sola illustrazione colorata e pullulante di fauna folle, e le sentii trascorrere in ticchettii ritmati, attutiti dal diaframma formato da cuscini imbottitura e telaio, che erano attorno a me, che erano me, cuciti alla mia carne sempre più indistinta.


In un presente infinito, cieco e isolato, mi giungevano in eco ovattata i titoli di coda, poi il rumore bianco; il respiro dei soprammobili, il chiacchiericcio delle sedie da giardino che sembrava stare su un’altra sponda del cosmo; gli insetti di montagna e il tramestio di una nuova luce; ore lunghe che strisciano e ancora si dilungano senza trovar pace attraverso la notte, diventando colate striscianti di liquami e bisce nere uscite da un pozzo; un risveglio; un gorgogliare di latte in ceramica; un nuovo tramestio cambiacolore del giorno e delle tende là impassibili come palpebre del vetro, un sonno improvviso in cui piomba il tv stanco persino di far danzare il bianco e nero nella loro nube palustre, spegnimento che fa un suono di deglutizione nel vuoto che è un buco nero; una campana e un tramonto che si schianta nell’aldilà di montagne disegnate sullo sfondo del cielo; e io che sento tutto questo per come è sempre stato, per come s’è sempre nascosto lontano da me mentre anch’io mi nascondevo altrove, e lo sento e lo vedo e lo respiro senza potermi muovere, mentre il respiro pian piano lo perdo e divento fatto di una materia che assorbe ciascuna di queste vibrazioni. Fu una vacanza in cui diventai un divano. Non ricordo quando sia iniziata e quando sia finita, o se si fosse ficcata davvero in quell’altra vacanza più lunga, fatta di giorni dimenticati sul nascere, fatta d’abeti e spiriti-orso e Torri che nel mio mondo s’ergevano, suggerendo cautela con quello schermo vibrante. Ma ogni movimento faceva già traballare il mio telaio, la mia imbottitura interiore.


Una macchia di luce solare riscaldava i braccioli, scolorendomi lenta e paziente attraverso il tempo come l’erosione che appartiene agli agenti atmosferici.

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