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eroe classico

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 10 mar 2022
  • Tempo di lettura: 14 min

Aveva vissuto quel momento innumerevoli volte e l’avrebbe vissuto ancora, all’infinito, di un infinito confuso e asfissiante. In tutto ciò c’era anche una dualità fastidiosa: lo irritava e spaventava il fatto di sapere che, in realtà, quei momenti passati sarebbe stato possibile contarli, se solo qualche scriba in un’alta aula oscura sfiorata dal solo chiarore di fioche torce si fosse premurato di annotarli nel corso delle cronache. Sì, era soltanto un gran numero di quelli: non si trattava, per quanto riguardava il passato, di una di quelle esperienze di infinità in cui questa è fortemente percepita come una presenza lucente e titanica sopra di sé, pronta a calcare un’orma e infondere un’inspiegabile assenza di dubbio alcuno circa il trovarsi al di fuori di un tempo traducibile in linee, catene, sequenze. Una simile aura, indicativa dell’attività nelle vicinanze di essenze misteriose di un certo tipo piuttosto intimidente, l’avvertiva per altri motivi.


C’erano dunque solo un gran numero di momenti uguali che non sarebbe stato capace di recuperare. Lo assillavano con la loro chiusura all’interno di frange di secondi e minuti ormai irrecuperabili, un nugolo di macchie scure come torme di roditori che si riversava con strisciante rapidità dietro ai suoi piedi. (Ci siamo stati, non ci vedrai più, siamo i secondi e la loro stirpe. Siamo della razza che sa come sparire, sprofondarsi in movimenti agili attraverso i nascondigli che non sono visibili alle cose più grandi di noi, meno consapevoli della loro estinzione e perciò più vulnerabili. Nella morte che viene a coglierci presto noi ci riproduciamo quasi incessantemente, le figliate più numerose di tutto il regno.)


L’altro motivo di fastidio, di natura quasi opposta all’interno del cerchio spiraleggiante di quel dualismo, era invece rappresentato dal mare dei momenti che sarebbero seguiti, quelli sì, infiniti. Ricordò l’immagine di una semiretta. Una nozione separata dalle altre, ricordata nel brusio senza significato di tutta la conoscenza che, nel corso di tanti indolenti anni d’esistenza, un po’ aveva tentato di collezionare, e un po’ erano stati gli altri a tentare di forzare dentro di lui, in certe forme. E se un giorno, come temeva e prevedeva irritandosi, fossero scomparsi tutti gli esemplari del serraglio di conoscenza che nel cranio suo si risvegliavano e addormentavano facendo gran rumore selvaggio o al contrario il più immenso silenzio -se un giorno quel serraglio fosse dunque diventato vuoto, soltanto tristemente cigolante con dita e mani di storte e rugginose gabbiette senza oliatura e senza nulla da imprigionare, che ne sarebbe stato della semiretta? Un concetto matematico, della matematica che odiava e lo faceva sentire imprigionato e lo convinceva che l’odio fosse reciproco. Eppure era un concetto appartenente proprio a quella matematica l’unico sopravvissuto alla moria totale. Con la sua maestosa pinna o proboscide, si sollevava ancora, il suo punto di partenza ben piantato al cemento sporco della pavimentazione di un recinto abbandonato dove un tempo s’aggirava nervoso un predatore quadrupede pieno di spasmi, probabile incarnazione di capacità linguistiche o cinestetiche o di riconoscere gli odori o di chissà che altro. Solo la semiretta salutava il cielo, si rendeva riconoscibile rispetto a una linea di terra. E intorno, cupe e sporche ombre calavano pervasive negli angoli del serraglio, popolandolo di una notte ancor più profonda di quella che gli animali, una volta lì prigionieri, avevano conosciuto nelle foreste della selvatichezza distante nel passato.


Tracciò la forma con un dito nell’aria. Giocava, un trucco magico, poteva facilmente immaginare che il vuoto così sfiorato dalla punta del suo dito staccasse una formina filamentosa dall’altro vuoto circostante. Continuando a palleggiarci con il polpastrello, poteva vederla sovrapporsi a qualunque cosa volesse: le scale in fondo al corridoio, la ringhiera, le sedie e le scrivanie lasciate vuote a quell’ora dentro l’edificio, la vetrata davanti alla quale camminava. Perfino all’odore d’asfalto bruciato che, sottilmente, riusciva a penetrare dal posto noto come “fuori” -c’era un punto invisibile là, nella città, dove tale odore si generava dentro il vacillante fermento delle onde di calura emanate dal suolo. Perfino ai suoni poteva sovrapporre la figura che col dito aveva tracciato: eccola galleggiare sul brusio di fondo che non cessa mai, sui passi attutiti contro la pavimentazione purpurea, dalla consistenza di plastica. La semiretta semitrasparente fluttua davanti al vetro, davanti al volto che lì si riflette. Gli occhi potrebbero vedere se stessi nell’atto di guardare quella forma del tutto immaginata, ma se ne stanno lì, assenti, non diversi da questa: soltanto a galleggiare in un volto inconsistente, ignorano il proprio riflesso, così come sono abituati a evitare gli sguardi degli altri umani. Esperti d’evitamento. Sono in verità degli occhi che desiderano vedere cose rare e lontane. Esseri d’immensa altezza, geometrie.


Semiretta: nel punto di partenza vorticavano come acque sporche rinchiuse in una pupilla tutti i momenti finiti che sentiva prima, e sulla retta da lì scaturita, sprigionata -era il potenziale d’infinità inespresso dai momenti finiti e separati a permettere che quel fenomeno infine esplodesse?- si avvicendavano in un volo complesso, impossibile da catturare con la semplice vista rivolta alle cose inadatte al volo, tutti i mondi d’infinità che l’avrebbero atteso.


Era stanco in verità, dei suoi pensieri e di tutti quelli che erano stati fatti prima di lui. Stanco della seconda ora del pomeriggio che non ha ancora compiuto la piena prepotenza del suo estro solare ed è ancora troppo lontana dal tramonto. Era inquieto, voleva incidere con un dolorosissimo scalpello sulle rocce e le pareti del mondo il suo odio, la sua incapacità di sopportare ulteriormente. Così come si incidevano le conoscenze, e altrettanto violentemente abbandonavano i solchi tracciati. Le bestie del serraglio erano scomparse, avvicendate e solo vagamente commemorate nei quadri conservati al buio di corridoi espositivi nelle dimore dei signorotti locali -ah, che cosa buffa, un giorno lontano di un secolo di nefandezze quasi del tutto cancellate, nella bella città civile coi suoi giardini i suoi prodigi idrici e il clima temperato, fu condotta una giraffa, proprio una giraffa, per il sollazzo del principe di allora! Non c’è un cazzo da ridere se quella giraffa è morta, per poi starsene per lunghe ere glaciali estinta all’interno delle menti consce di tutti, per poi balzar fuori inaspettatamente da ombre senza chiave dell’inconscio e della resurrezione. Non era possibile far nascere una creatura, un concetto singolo, che galleggiasse in eterno dentro la fronte? Così da divenire il punto in cui tutto il resto andava a convergere, un nervo reciso il quale l’intera struttura si sarebbe liquefatta in uno spettacolo acido e bruciante, dal fetore di una carne morta aliena mai sentita. Tale fragilità sarebbe stata un ottimo pegno da pagare. La flessibilità dell’encefalo, la sua capacità di incorporare molti e diversi concetti e farli stare assieme in certi momenti e farli disperdere in altri a seconda delle stupide e assurde esigenze del corpo, era un limite senza precedenti nell’evoluzione degli esseri di luce e gigantismo ridotti. Non rimanevano loro che disperati momenti in cui anelare la mente degli esseri che, invece, la luce e il gigantismo li possedevano in perfezione.


Lui voleva incontrare quei giganti di luce che gli perseguitavano le fantasie, e che era convinto avessero generato sulla terra forme di vita ridotte a un’inferiore dimensione, come inadeguata progenie. Voleva incontrarli senza provare la stessa tremenda vertigine del fiato che spontaneamente nasceva in petto agli esseri di fronte al sublime ed enorme e spaventoso. Sapeva di leggende in cui l’uomo risvegliato dal riposo sotto un albero da frutto incontrava la manticora, perdeva la ragione. E di un altro che si allontanò ancor di più dalle nodose radici del sonno pomeridiano, per risalire le montagne, e trovare titani mai visti alti quanto le vette dell’orizzonte. Avevano conosciuto l’oblio della mente propria, e nella mente collettiva, con le sue moltitudini di lingue incantatrici, per sempre l’oblio sarebbe stato ricordato, diventando l’unico nome di quegli ancestrali pionieri, l’unica essenza in tutta la loro vita. Lui desiderava, con un canto doloroso ma silente tra i contorcimenti del cuore, che incontrare i giganti non conducesse più allo stesso vuoto. Quel giorno vedeva le due gambe lucenti di uno che, facendosi parzialmente invisibile come era in potere agli antichi esseri dal corpo al contempo imponente e immateriale, si era posizionato su uno stagno urbano di quel pomeriggio. I raggi del sole si discioglievano nel raggiungere superfici di scuri asfalti, marciapiedi, ferrovie, tralicci. Certe superfici, perfino, gli umani le avevano imbrattate di colori dell’arcobaleno, ignari -forse solo in parte- di venerare mediante un’invidia sfociante nell’appropriazione le infrastrutture che venivano utilizzate nell’alto dei cieli da esseri che non erano loro. Che non erano più loro. Possibile che un giorno gli umani fossero della stessa famiglia? Conducevano carri astrali sulle strade liquide dell’arcobaleno insieme ad alti e nudi custodi del cielo con sorrisi di stelle, e con cavalli di fuoco, e ali di piumaggio astratto.

Voleva incidere con un dolorosissimo scalpello la sua incontenibile stanchezza, ma al tempo stesso, altrove, su una diversa superficie destinata ad accogliere parole più illuse, più speranzose, avrebbe scritto questo: noi un tempo eravamo loro, perché non torniamo a essere loro? E usava un plurale di sola poesia, usava il plurale senza curarsi affatto dell’umanità, della propria specie. Era solo della propria era glaciale che si preoccupava, della possibilità della sua estinzione per come era stato sino a quel momento. Mani in fondo alle braccia in fondo a un corpo, mero recipiente simbolico di fanghiglia compatta per ospitare una sostanza sospesa tra il fluido e il cristallino: un sé, attorniato da idee sentimenti e pensieri simili a specchi. Credeva che incontrando i giganti e plasmandosi in essi in un processo di vicendevole ricircolo di forme esistenziali avrebbe perlomeno estinto l’inquietudine, sostituendola con qualcos’altro. Un’illusione di pienezza, compiutezza perduta per un peccato antico, magari. Ma come tutte le illusioni, anche l’inafferrabile ispirazione di tali nascoste poesie che gridava su una carta diversa in istanti che non si poteva rendere eterni, se ne andava e spariva, e ritornava secondo volubilità, e spariva di nuovo. E quando spariva era convinto che non si potesse vivere per nulla. Che non c’era ragione esistente su tutti i continenti emersi oltre al meccanicistico macinare dei passi e dei denti nelle mascelle delle bestie, i corpi che cadono, le cose che si fratturano, vive o morte. Anche momenti del genere: i primi, vissuti, finiti ma non calcolati per una specie di negligenza, e in seguito i secondi, infiniti, quelli non ancora venuti.


Così attraverso gli schermi di luce provenienti dal sole -un essere in certo modo affine a quelli- era possibile scorgere, per brevissimi istanti, la forma piramidale che le due gambe del gigante disegnavano. Gli spigoli convergevano al vertice quando sugli occhi sollevati al cielo in cerca di lui scivolavano due drittissimi raggi. I raggi hanno la matematica insita nel nucleo fibrillante. Portavano la vista a salire, salire, fino a vedere particelle singole della luce che prismatiche si impilavano l’una sopra l’altra soltanto per condurre il visibile verso un imprescindibile punto elevato nel cielo. Oltre gli spigoli, infine, stava ammassato il “tessuto”, il “muscolo” nella gamba del gigante. E rifulgeva allo stesso modo degli schermi che imperversavano come una tempesta abbattuta sull’antica metropoli.


E quanti erano stati i momenti così? Se lo chiedeva sebbene la domanda lo infastidisse, sebbene l’eventuale risposta lo infastidisse ancora di più, confermandogli la possibilità dell’esistenza dei numeri, e l’esistenza di tutti i numerosi se stessi che c’erano stati, indistricabili rispetto a quei numeri. Se lo chiedeva perché ancora una volta, mentre sentiva la conoscenza dissiparsi dalla mente per far posto alla confusione, l’indecisione, la nebbia, l’indolenza che sempre tornavano a tormentarlo con schiere di nuvole, e mentre passeggiava davanti a un’ampia vetrata dell’edificio dove innumerevoli volte si era fermato a studiare e subito dimenticare, non poteva resistere a una lontana forma di fascino. Ma questa non lo salvava: la presenza di un significato, recondito e dimenticato, nei recessi di qualche sensazione trasmessagli da quella situazione, non cancellava la mancanza di senso generale. Anzi, la rendeva più dolorosa.


(Se c’è qualcosa di bello anche in questo, anche in questa tediosa schifezza destinata a ripetersi sempre secondo il catastrofico esito dell’evanescenza, della non durabilità, allora perché non riesco a sentirlo in maniera più diretta?? Perché il gigante, incombente e terribile con la sua perfezione nello stare al mondo rispetto a me, che disgraziatamente ho ereditato la forma dell’essere umano, non mi schiaccia in modo tale da farmi sentire anche il dolore fisico? Mi schiaccia solo spiritualmente. In questo aspetto ci sono tutta l’indifferenza e la crudeltà di alcuni esseri: è atroce come forse null’altro la frattura tra due forme di sentire, corpo e non-corpo, costrette a coesistere in un’unica forma, e ancor peggio è quando a subire la sofferenza è soltanto una delle due parti. Forzare a un’unione dolorosa significa che il dolore avvampa per reazione, concentrandosi solo su una parte: solo il corpo o solo quell’altra parte. Questi esseri non sanno far male al corpo fisico. Io -il mio sé!-, non posso tollerare di sentire solo la morte dello spirito, vi prego: fatemi del male, distruggete la struttura ossea che mi permea. E la pelle e i fluidi e tutto quanto è simile a loro, tanto, se ne andranno subito, smettendo presto di serbare la possibilità di fare un rumore, alla maniera delle più dure e crepitanti ossa. Come la polpa di un frutto schiacciato, nauseabonda per pochi intensi istanti marchiati con fuoco e veleno nei ricettori nasali, evapora immediatamente. Anche ciò che è semisolido e che è pieno di grumi può evaporare, sapete, giganti? Quando si tratta di esseri tanto insignificanti e provvisori, almeno.)


Non trovava pace, non trovava motivo nel fascino che suo malgrado continuava a sentire in una minima, trascurata parte di sé -e, in conclusione, non trovava niente. Ma come in altri innumerevoli e infiniti momenti (sempre bene ribadire la differenza tra i due aggettivi), la città pomeridiana andava riempendosi di movimenti rifulgenti in risposta alle nuvole e i bagliori chiari del cielo azzurro, e le gambe stesse del gigante che, chissà a far che, s’era andato a mettere in piedi proprio là, il suo testone d’aria rarefatta a galleggiare in un punto intoccabile di là dalla cupola dei cieli. Sì, c’era un treno che serpeggiava e lacerava gli arti deformi della tangenziale, si immetteva tra i loro condotti e disequilibrava gli effimerissimi silenzi delle loro mucose. Sì, c’erano movimenti di cose trasportate, inutilmente. Andavano a convergere, senza dubbio, in un punto che lui che osservava distaccato e spento avrebbe collocato nel più profondo e sudicio recesso di una stanza d’inferi. Sì, tutto andava a disintegrarsi e beatamente consegnarsi al nonsenso, come se non ci fosse nulla di cui vergognarsi nell’esser stati, in precedenza, nonostante tale certezza. E che altro? C’erano momenti che gli si accalcavano attorno simili a demoni persecutori, tozzi con dita uncinanti, i quali apparentemente non avevano nulla a che fare con quel tipo di momento. Ma il serpente elettrico attorcigliato nel cranio, quel tubo pulsante d’intestino fuoriposto, non faceva altro che trasmettergli stupide connessioni di stupide sinapsi, mentre il cuore, affossato in un suo vischioso abisso d’un rosso quasi nero, rispondeva dimenandosi alle immagini in suggestiva successione. Momenti che non sarebbero dovuti c’entrar nulla apparivano e lo accerchiavano, dicendosi simili a ciò che stava provando in quel momento. Trascinavano in una traccia sanguinolenta altre stanze e altre città, altri tipi di luce, e perfino assenze totali di giganti in un cosmo in cui lui sembrava non aver conosciuto la loro esistenza. Dannazione, c’erano stati in passato anche momenti così, in cui non credeva -non pensava lontanamente- che potessero esserci dei titani di ineffabile diversa luce a far da pilastri attraverso i mondi separati. E c’erano stati altri momenti del tutto scollegati, in cui erano rispuntati fuori i momenti del tutto scollegati.


()

E se fossero stati questi la chiave?


C’erano evidentemente delle ferite che ti tormentavano indipendentemente da tutto, e ti tormentano. Ricordi.


Ma non sono forse effimere anche quelle?


Sì, sparivano, se ne andavano come tutto il resto, e poi, non erano mica sempre le stesse. Ferite diverse, ricordi diversi, molti.


Si alternavano, insomma. Ma appartenevano tutte alla stessa schiera demoniaca, no?


E con questo?


Con questo, si potrebbe dire che questa schiera, sebbene forte nella sua moltitudine, possa costituire il nervo centrale entro il quale tutto converge. Perché è sempre presente. Come quello che cerco.


Per far sì che questo accada, basta considerarla come un’unità, una massa.


Sì, ma questo non è facile, anzi non è nemmeno possibile.


È perché? Tu non sei forse una massa? Una massa di atomi che sommati si credono uno.


Ammetterlo vuol dire ammettere i numeri, ammettere la separabilità delle proprie singole parti.


E non lo puoi fare?


Non si può sottostare alla legge dei numeri, non con una mente così. Sarebbe un crimine doloroso.


Una mente come?


Una mente che ha visto i giganti.


Siamo ritornati al punto di partenza.


Il punto di partenza sono sempre i giganti.


Oppure è un punto che se ne sta come un escremento fossile a sporcare la pavimentazione di cemento di un serraglio abbandonato, mentre con un’appendice strana si dilunga attraverso l’aria soverchiante.


È un’aria scura, però. Nel serraglio sta facendo notte.


Ma non nella città.


Non nella città.

()


Passavano sorvolando la città, uno dopo l’altro come i pensieri, i gabbiani dalle ampie ali. Si rispondevano tra loro, mandando squillanti, eccessivi schiamazzi dalle gole rosse, le lingue seghettate sospese a mezz’aria nell’involucro del becco. Credeva di vederli così da vicino, il dettaglio che si sovrapponeva alla sagoma troppo distante. Come potesse toccarli, sentire la struttura di placca callosa dei becchi, in realtà quasi invisibili laggiù. Li sentiva più vicini, dando loro il nome che era solito dargli, riconoscendone il volo. E aumentavano, formavano stormi bianchi al di sopra delle cime dei palazzi. E il loro piumaggio assorbiva la luce, diventavano gialli, d’una specie diversa da tutti gli altri gabbiani. E all’improvviso, gli sembrò che i gabbiani gialli e il gigante lì immobile, potessero in qualche modo tra loro comunicare, molto più di quanto non fosse possibile per qualsiasi altro essere in presenza d’altri esseri, e in particolare di esseri che serbavano in sé una diversa essenza.


Perché dei gabbiani? Li richiamò alla mente da ricordi di marciapiedi e fontane di giorni trascorsi. Bellicosi, ottusi, attratti dalla sporcizia e dal cibo abbondante fino alla marcescenza. Ottusi solo per il loro impulso a colpirsi coi becchi gialli, ferirsi i petti rigonfi in cui distillavano i gridi da lanciare sulle vette della metropoli. Perché erano loro a ricever questo privilegio di “diventare gialli”, stare in presenza del gigante? Si immaginò un’immensa, fiorente città-stato. Il mare era lontano da quei treni, e da quella tangenziale, e da quella vetrata di perfetto liscio rifrangente vetro di fronte alla quale si aggirava, avanti e indietro come dentro la gabbia si comporta il leone eurasiatico che vede disfarsi la criniera ed emergere le cicatrici, la muscolatura ed emergere le costole. Il mare era lontano o forse era sepolto, un mare della stessa sostanza dei giganti che doveva esser esistito in un tempo d’idee dove c’erano poche cose separate tra loro, puntiformi e perfette in se stesse: i giganti, la città-stato, la gente e le cose della gente, il mare, il monte, il nemico. E infine molte creature che pullulavano, si mettevano in stormi. Doveva esser stato così, un tempo. E infine gli astri, i cieli, i reami in cui queste cose tutte erano apparse.


Veleggiavano i gabbiani sopra le onde riverberanti di quel mare antico, dimenticando la brutalità della stirpe che da loro era discesa. Esatto, dovevano essere gabbiani antichi, l’equivalente gigantoide dei gabbiani, non poteva che essere così!


Ma si accorse che i gabbiani erano apparsi per un motivo, un obiettivo che li interessava. Come le cose visibili e fameliche. Gli obiettivi delle essenze che chiamava “diverse” invece rimanevano, imperscrutabili, al di sopra dei più lontani strati del cielo, senza concedere alcuna possibilità di farsi decifrare dalle creature ignare, per sempre separate dal destino e abbandonate al dolore lancinante del taglio. Invece gli esseri che col corpo ingombravano la terra non mancavano mai di render palesi, grossolani, i propri intenti. Vide che i gabbiani gialli avevano cominciato a volare in circoli, che, ammetteva, possedevano un’eleganza innegabile. Rallentavano cullati da un vento raro, compariva ciclicamente ai confini della circonferenza. Sfruttandolo ascendevano lievemente, si riabbassavano. Sembravano essere le note di un canto, un coro astrale, che incedeva lento, e con intelligenza diventava folgore nei crescendo più segreti della composizione.


I gabbiani gialli circolavano in quel modo, erano apparsi uno dopo l’altro, avvisati da una comunicazione impercettibile, o richiamati da uno stesso stimolo sensoriale. Erano dunque gabbiani di luce, ma capaci di vivere e di morire? Frantumabili le loro ossa sia dai giganti che dalle forme umane? Erano lontani dalla progenie imperfetta, ma avevano imparato a esser come loro. O al contrario questa progenie era una forma estrema e degenerata di qualcosa di corruttibile che in loro aveva risieduto anche al tempo ideale. Che forse a questo punto non era mai esistito. Perché da sempre anche esseri in apparenza belli rimbombavano internamente di desiderio, cupidigia di un oro che esisteva in forma di metallo o in forma di luce.


Erano frantumabili le loro ossa, e loro sapevano frantumare quelle altrui? Giganti, gabbiani, e forme umane tutte compresenti in questo frantumare?


Questo non era possibile -né in quel momento né in tutti quegli altri uguali- in alcun modo, saperlo, vederlo, sentirlo. Si poteva sentire solo il vuoto senza speranza in cui tale realtà precipitava. E nel precipizio si apparentava all’altra atroce realtà dei numeri. E il gran numero dei gabbiani gialli, di luce celestiale e gigantoide ma al tempo stesso capace di fame e volitività, si era lì radunato nel tardo pomeriggio dell’antica rifulgente città-stato sul mare per poter banchettare. Abbassando con una manovra di maestose fulgide ali reclinanti il volo circolare, si avventavano sulle caviglie del gigante. Erano venuti a consumarne il cadavere.


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