top of page

ego pneumonia

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 26 giu 2022
  • Tempo di lettura: 13 min

Ci sporgiamo dal bordo del promontorio, qui nascono le cascate. Così riceviamo gli spruzzi, che si moltiplicano e riducono a mere copie di se stessi, ci solleticano la faccia e le numerose imperfezioni che arabescano le nostre pelli. Le cascate. Leggende d’acqua, praticamente leggende d’acqua e vapore. Anche tu lo conoscevi come il luogo in cui convergevano tutte le “anime”? Così un pioniere di questi luoghi ha chiamato le essenze. Ti volti all’indietro mostrandomi un orecchio, tunnel contorti dal colore lunare a capolino tra ciuffi di capelli. Ti volti all’indietro e verso un punto vago del cielo, nebbie che accecano, lì ci sono le “anime” che si incolonnano, un volo verticale e lento dopo essersi gettate al vuoto e alle nuvole chiare d’acqua fumosa. Chissà perché poi le chiamano così, ti chiedi, ma capisci che a parte il nome, si tratta di quando eravamo tutti gas sguscianti, quando eravamo pesci, quando eravamo rondini… forme troppo diverse, certo, neanche qui si sfugge all’intollerabile quantità delle cose, ma almeno possiamo decidere, se vuoi. Decidiamo una forma, dai, insieme noi due, potremmo essere adatti a fare questa cosa. Per esempio, quelle che ti ho detto prima, sono tutte arbitrarie, e certo dovevano prender prima o poi forma animale. Ridi. Ti diverti, vero? Cosa c’è da ridere, eh? Ma mentre te lo chiedo anche io rido, perché non voglio minacciarti, perché la mia domanda non deve respingerti. Perché ti respingerò, lo so già, per altri motivi, e fidati di me, una domanda, una cosa che non capisco ma che forse potrei capire, non dovrà mai essere motivo per un respingimento dei miei, non dovrà mai essere motivo di dolore, altrimenti non ci capiamo proprio...ah già, le cose che non capisco, quelle sì che ci faranno male. Va da sé che tutto questo non lo dico. Stai solo là a continuare a ridere mentre io ti chiedo ridendo cosa c’è da ridere, e come sempre le risate volano sul mondo mentre sotto il mondo volano le loro ombre, da cui germinano bolle nonviste, che strisciano in tane segrete e qui faranno nascere numerose influenti oscurità. E se nasceranno vegetazioni dal suolo futuro, le radici assorbiranno quelle influenze, di ombre proiettate da ogni cosa di troppo, ogni singola cosa. Ma a te non importa, certo lo capisci, lo capisci sempre ma può anche non importarti, puoi scegliere che non sempre ti importi e che ci sono “altri aspetti”, diversamente da me (cominci a sentire la pesantezza, stai attenta, a non cadere nel modo sbagliato dal precipizio, per colpa di una gravità che ti viene imposta: questo è un luogo in cui si deve cadere nei momenti giusti, altrimenti muore la sua bellezza di covo di “anime”, qua esistono dei riti e la loro attuazione non provoca mai nessun orticante sconvolgimento sotto la pelle di chi la subisce, perché sono riti più veri di quelli del sangue che scricchiola nelle vene, più veri di tua madre e tuo padre e il tuo nome. Un bel posto abbiamo trovato, forse perché cercavamo una leggenda, oppure una fonte per dissetarci. Ma proprio per questo, sia santo il cielo per sempre, non cadere a causa mia!)


Allora ascolta: tu non esisti, ma non è un motivo abbastanza serio per non usare riguardo, molto riguardo. Io so che se siamo qui entrambi è perché abbiamo tanto con cui farci male.


Come per esempio la possibilità di cadere dalla cascata? No, questo non succede, perché -lo dico sperando sia così, sperando non sia io a creare il crimine e il peccato originale in questo mondo- qua si cade solo quando si deve cadere, eh sei arrivata da troppo poco, forse non hai ancora capito come funzionano le cose vicino alle cascate, cioè vicino al posto fresco. Refrigerante. Eh? Ah, scherzavi. Ah, ho capito, giocavi con le ipotesi, è una tua ipotetica caratteristica che ipoteticamente ti appartiene. Come la dentatura che adesso vedo aprirsi. Un ventaglio viene esposto in natura da una placida farfalla, con l’algebra incantevole intessuta dentro i veli sottili delle ali aperte. C’è anche nei denti, che sono tue ossa, o qualcosa di leggermente diverso, non ho mai recepito una distinzione. Fossili che si sono calcificati per sorridere, nel sangue c’è una componente di silicio che si può scegliere di far sviluppare, nella pressione e nei moti del voler vivere quando l’embrione ha già valicato, a gattoni e strattoni di cordone, quella soglia oltre la quale è troppo tardi, disperata irreversibilità. Mostrami l’algebra e il volere cieco dentro i tuoi denti, sulle tue labbra: denti e labbra, eccoti. E tu dici d’esser così, lo dici senza volerlo dire, te ne accorgi dopo, e lo accetti. Allora ami te stessa. Ma se ami te stessa, che ci fai qui?


Tu mi insegni che anche amando se stessi si può stare feriti, e io in cambio ti insegno che anche quando si è stati amati, durante le crescita e fino a esplodere, ciò non significa che si riesce ad amare se stessi successivamente, cioè quando sgusciando dal grembo del passato camminiamo in piedi, e ci tocca fingere di non avere muscoli e indumenti fradici fino in fondo di lacrime amniotiche. Tu mi vedi uscire così, dici hey, sei stato amato, perché non ti ami? E io ti dico che non basta, non basta, non basterà mai, è una cosa lontana e vicina che ce l’hai, oppure non l’hai mai vista né sentita, e io non vedo non sento. Non so più quante volte l’ho ripetuto, parlando da solo, nel mio lungo peregrinare -tanta sabbia ho raccolto sulle caviglie prima di inerpicarmi fin quassù, non so se lo sai e non so se sporgendoti da un’altra delle scogliere qui nei paraggi avrai modo di vedere da queste terre sopraelevate il deserto lontano. Superficie che nella distanza sembrerà lucida e viscida come una scodella di battigia e ambra grigia, ma è solo l’effetto dell’aria di questo posto che deve sempre umettare tutto, è solo sabbia secca quella laggiù. Sulla quale forse tu riuscirai a immaginarti -perché ne hai la splendida facoltà- tutti i miseri passetti che ho lasciato, ormai che le impronte sono state cancellate da venti ormai estinti. O forse, è meglio dire che ciò sarebbe accaduto in un posto normale. Non so più se era normale nemmeno il posto da cui sono venuto, non so se anche quello era un deserto anormale di questo stesso continente, o se come in tutti gli altri deserti lì le cose morivano, frammentandosi in cenere nera d’esuvie di strane locuste, in sabbia, in vento e terra uniti. Forse ho visto di queste cose, in molti giorni e notti, ma non possono esserne certo, erano vere? Ma so che erano vere le cose che andavo dicendomi da solo. E questa, questa “lezione” che pretendo di darti in cambio, per quante volte l’abbia pronunciata sottovoce come posseduto da un sublime jinn, e per quante volte l’abbia ascoltata percependo talvolta che provenisse da un altro spirito desertico separato da me, se si tratta di ripeterla a te in questo strano momento, non c’è problema, perfino il mio fiato riesce a non stancarsi. Tu invece?


Cosa? Mah, niente, dicevo soltanto, dimmi anche tu, se ti va, un po’ di queste cose, il tuo passato che non esiste. Ho avuto l’impressione che volessi (esatto, comincia a capire, non te lo chiederei mai per me stesso, non ti dirò mai che è a me che interessa). Perché so che se esistessi, lascerei quasi tutto a te il parlare, e tu con me saresti paziente, comprensiva, perdoneresti anche il mio desiderio che tu sia così. Sapendo questo, devo informarti -è proprio mio precipuo dovere- sul grosso sgorbio che rappresento e di cui sono incarnazione venerata in antichi sottomondi sottoforma di omuncoli zoocefali figli di bestie dal pelame odoroso. C’è puzza di chiuso ed esoteriche muffe laggiù: servono a fermentare le bevande che si assumono per oltrepassare la soglia, e poter sopportare la mia aura quando l’effige della mia faccia rivela che ho un certo umore. Ah, certo, vai prima tu. Ti farò parlare per, diciamo, all’incirca due millenni.


Hai finito? Eh? Ah, non ricordo che stavo dicendo. Bella storia però, bellissima. Perfetta, uguale tutte le tue cose. Eh? Ah, sì. Ma ancora vuoi saperlo? Beh, allora….


…mi fai una domanda scomoda. Che farei se, effettivamente, fossimo tra quelli che, sporgendosi ancora un po’ dalla cascata, si tuffano insieme e volano, sulle correnti, di nuovo a galleggiare come quando tutti quanti eravamo quelle “anime” strane, tuffati in quel futuro in cui già si ritorna a quel punto della circonferenza… e lì, dici tu, piena di speranza che invidio, ci racconteremmo senza noia in eterno ogni genere di cose, rumorosamente quando lo vorrai e telepaticamente quando lo vorrai. A trasmetterci immagini dei nostri disegnini fatti sui taccuini, i miei animali chimerici e i tuoi sterminati mari di fiori in prospettiva e d’onde marine dettagliate, perché tu hai la tecnica e io ho… ah, ecco, che si comincia. Devo dirti cose che ho e che non ho? Devo avvertirti. Questo volevo fare. Quando fosse diventato necessario, orribilmente.


E allora se ci avvicinassimo lì ti farei vedere una cicatrice brutta, che non mi ha fatto nessuno che mi sono fatto da solo, su tutto il braccio, anzi ti dico pure che mi impedirebbe di volare se ci buttassimo. Non solo, ti farei vedere il modo in cui s’estende fin sotto le ossa e gli organi interni, scende giù giù fino alle, perdonami, parti basse e le incancrenisce. Eh, sì. Ti farei vedere che va a costituire una serpentina di labbra orride, fatte di carne orrida, e che tutto il mio corpo così imita un sorriso. E allora ti direi che anche quando ti dico che sei una poesia, palpitano certi strappi sul mio corpo, e altri si aprono altrove, simili a occhi, affacciati in anticipo sui momenti futuri in cui subito ritirerei le mie parole vulnerabili, e ritirerei ogni parola buona e speranzosa espressa sul mondo, e in quei momenti io sarò io, e tu sarai tu e vedrai me che sarò io, e ne avrai perfino timore -nonché tutte le altre cose che già sappiamo. E allora canterei, e con la stonatura del mio canto ti stordiresti fino ad avere allucinazioni delle vibrazioni, e le vedresti ritornare, circolarmente, verso di me che le ho emesse, perché solo per me stesso so cantare. E vedresti le mie mani vuote e raffreddate, e vedresti quello che fanno quando da sole scavano nella tana a procacciarsi effimeri piaceri nascosti a tutti, piaceri viscidi e nerastri che si contorcono. E ne saresti… nemmeno lo dico.

E poi ti farei vedere che cosa succede, e ti disegnerei un disegno, di noi che per davvero ci buttiamo, e disegnerei in basso un personaggio anzi agente anzi sfondo anzi essenza fondamentale, come una specie di signore delle scure profondità alla base più lontana del visibile, una marea di china che incombe, e che simboleggia, e che essendo simbolo da sola è sufficiente a compromettere l’interezza del disegno. Dove nulla sarà più semplice e innocuo, dove tutto sarà simbolico per contagio. E vedresti apparire me per come ero nel deserto, avvolto tra scialli e ricoperto da sabbie corrosive per mio stesso volere, e lì vedresti perire sotto di me e i miei passi tutte le rappresentazioni semplici, appassire i fiori belli perché sono belli -il deserto lo so creare anch’io-, perché non esistono nel mio mondo fiori belli e basta, e allora ti prenderei la mano, e la stringerei, e ti mancherebbe il respiro cento volte più di quanto manca a me -amplifico me stesso, sono un pericolo, non vedi? E tu mi diresti, vai avanti, perché hai cominciato e non devi lasciare le frasi a disintegrarsi, morte nel vuoto, come hai la tentazione di fare. Ma lo dici arrabbiata, lo dici devastata. E io ti conduco in altre strade simili a questa, e ti mostro tutte le cavità che si aprono sulle loro sponde. Ne escono così tante, di cose fatte proprio per stare dentro le cavità, che anche tu ti renderai conto -o così credo io- che certe cose non devono mai uscirne. E allora ci butteremmo ancora in questo disegno, dove sarebbe tutto compromesso, anche il fulcro in cui le due mani degli amanti che fluttuano si incontrano e stringono nel cielo diventando un unico appiglio al valore dell’esistere, tutto diventerebbe un nulla annullato dalla base. A te piace l’odore dei fiori che disegni. Li ami, per questo li disegni bene. Io… mah, queste poesie saranno come il fuoco, il grido, il fragore del mare quando è notte e trasforma tutto in una tumultuosa burrasca nera, insomma sono poesie di distruzione, più caos dello scroscio delle acque che senti qui vicine, lo scroscio tranquillo. Poesie sono fuoco e acqua impetuosa, sono scintillii d’occhi di pesci d’abissi, fantasmi di pesci di montagna e mammut che sconvolgono il paesaggio e si scarnificano nei loro sarcofaghi di ghiaccio. Ti porto come un meravigliato signore di costellazioni su un altipiano buio a vedere queste cose, a te non rimane niente dentro, a me rimane tutto perché sono stato io portandotici ad avere il controllo della decisione, mi rimane tutto eppure non sento niente, ho tutto e non sento niente perché queste cose non le so amare, non nel modo in cui tu ami il mondo. E non amo che non le amo, e, si capisce, si ritorna al discorso di prima…

e allora ti direi, tornando per la prima volta qui accanto a te: tendi le orecchie, senti gli uccelli; i loro canti multicolori, sopra le nostre teste, perché quelli solo li posso accettare come belli in se stessi pur sapendoli in realtà terribili, mentre tutto il resto è terribile e basta, e allora ti elencherei questi uccelli, e tu diresti che io sono la fuga. Sì, perché ancora nel deserto tornerò, dove sono l’uccello d’aria d’acqua o di sabbia, per continuare a calpestarlo e modificarne le dune fino alla fine dell’eternità, cioè quando avrò fatto tutto per darmi modo d’imparare -o far finta di farlo- ciò che ho detto di dover imparare prima di poter incontrare nel mondo reale te che non sei mai esistita, e toccarci veramente le dita, e insieme buttarci oltre quel maledetto margine a ridosso delle cascate. La nebbia bianca, che si forma perché la cascata è viva e respira, sale e ci avvolge, così chiara e fresca, che sembra vera, rabbrividiamo per l’umidità. In questa nuvola di ghiaccio fantasma noi ci siamo. Vediamo che l’aria è un cristallo ed è acqua, è vivo vetro, e che su queste rocce color talpa nasce un principio d’umidità che s’estende a tutti i terricci, vediamo e sentiamo con tutti i pori che ancora sentiamo d’avere pur trovandoci nel “posto delle anime”. Ed essendo giunti fin quassù, sentiamo che questo posto è puro respiro. Dove riposarsi una volta che non abbiamo capito se è l’ultima.


Dici che potresti aiutarmi tu, io distolgo lo sguardo, io cerco le cose basse, e le vie di fuga.. -quelli che chiameresti i me stessi microcosmici, riprodotti particellarmente nell’aria. Creaturine d’ossigeno, il tutto e il meno tutto si riflettono vicendevolmente. Le particelle malate, che assomigliano a me, cercano sempre e soltanto riflessi e specchi e caverne in cui stare al sicuro, ovvero che hanno la loro stessa forma. Tu proponi, dici che retrocedo, e infatti dico che non posso accettare la tua proposta.


Disgustata per un’ultima volta dopo millenni, sul margine di scogli viscidi a precipizio sul mondo bianco delle cascate, mi spieghi quello che provi. Mi spieghi che quella stanchezza, come se avessi vomitato il sangue fino a raschiarmi la gola e renderla visibile dall’esterno, singola lacerazione rubescente viva, mi spieghi che quell’atto doloroso avrei potuto farlo diversamente. Che solo qualcosa di meschino, che non sono nemmeno l’egoismo e la paura che dico io, ma che possono vedere e patire solo coloro che nel mondo del fuori mi sono vicini quando mi comporto così, solo qualcosa che bramo di capire e che è terribile in modi diversi da quelli che credo ha deciso di fare il dolore in questa maniera. Che decide senza consultare me, che ho la presunzione di credere di esserci. Tutto quel tempo a sforzarmi di spiegare, e a disintegrarmi nel corso dell’operazione (lei ha visto, come fiori marci e sanguinolenti, sfibrarsi i pezzi di me, uno dopo l’altro, e io con le parole ribollenti nella bocca spaccata me ne stavo là a vederla che mi vedeva, come uno spettacolo…), avrei potuto tendere una mano. Provare a farsi male in altro modo.


Spiacente, ma sapevo che l’avresti detto. Le dico così, definendo per un’ultima volta qualcosa, secondo miei parametri e mie visioni. Danzatori lotofagi in una catacomba circumambulano la statua del mio omuncolo bestia. Nel presente, o qualunque cosa sia il mondorespiro, lei scrolla le spalle, ammesso che ce l’abbia ancora, che tutto quanto qui sentiamo dei corpi non sia che il residuo suggestionale dato dalla sola sopravvivenza della pelle, concessaci dai principi del mondorespiro al solo scopo di render percettibile l’acqua che evapora, la sua identità con ogni cosa. Con la pelle allora ancora vedo, e i miei occhi di pelle vedono le spalle che vengono scrollate, tutto questo non è che un istante dentro l’istante di un singolo fiato. Sono bianche e si riflettono a vicenda con la cascata, disegnano i vuoti pieni del mondo, l’aria dettagliata e bella. Piccoli esseri fluttuano nelle gocce e nel vapore, tintinnando, e io vedo me in loro, e io credo che esistano superfici riflettenti, ma è una proprietà che viene dagli occhi, non dalle cose del mondo. Le cose del mondo respingono e feriscono, per questo uno va alla cascata a sciacquare. Ma questo è un postulato secondo i miei parametri e mie visioni. Attorno fischiano rondini alte, rondini di oltremondi e mondorespiro, rondini di cascata che si disintegrano nella loro stessa velocità aerea e sembrano fischiare una diversa maniera di vivere, e lei nello sguardo si delude quasi, perché quando postulo che solo per quel motivo che ho detto uno va alla cascata, nel mondo del fuori la cosa appare come un muro che si erge violento dal suolo e mi circonda, e diventa me stesso mentre lo bacio. Nel mondo in cui non esistono muri, sono il primo a portarceli.


Odiavo del mondo lontano, quello prima ancora del deserto, le sue costruzioni che ostruivano il respiro, ostruivano le lacrime, mangiavano montagne ed espellevano feccia nel mare. Ma una parete qua la creo io, per primo. Ho compromesso le cascate? Un giorno convergeranno qui delle nuove “anime” di nuove generazioni che vedranno le rondini nidificare sotto delle grondaie, come facevano nei paesi di un tempo, perché saranno rinati gli edifici. E ancor dopo, successive stirpi convergeranno qui per vedere che non è rimasta più una sola cascata, e si chiederanno l’acqua dove sia sparita. È stato l’uomo del deserto, l’uomo del deserto col suo cuore di sabbia compattata e le sue vene di scorpioni e la sua lingua rettile a portar qui le pareti. Ah, che disastro ho fatto, ma non dite che non avevo avvertito!


Avvertito? Come se non mi trovassi qui perché l’ho deciso io. Un giorno, egoisticamente nel deserto, di andare a dissetarmi alla fonte. Di concludere i giorni affianco a qualcuno, anche qualcuno che ho deciso di non meritare. Per dissetarsi a dispetto di certe cose, occorre ignorare i propri principi. Fine in menzogna e infinito squallore.


.

Ombre alte passano veloci in volo su di noi, di tanto in tanto, e il cielo è un’intera nuvola dello stesso colore del vapore. Le rondini curvano sfiorando la colonna di quelle essenze che ascendono, qualcosa le illumina dall’alto. La luce qui, a livello del suolo d’alta quota, è fioca, è solo uno strumento del vapore e le sue particelle. Sembra che tutte le cellule piangano. Noi siamo in ascolto del fragore attutito dall’altitudine, quell’impatto in una pozza pura sul fondo che non vedremo mai, perché nessuno va giù, perché la cascata è infinita. In silenzio soltanto per qualche altro millennio, a lanciar sguardi distratti o goffi qua e là mentre nuvole di fresco e di rumore ci avvolgono, e scompaiono, e rinascono.


Io ho detto che sapevo che avrebbe detto esattamente queste cose: ecco il momento. Momento in cui tutti i sogni romantici sono scomparsi da dentro me e nulla mi convince della contrarietà di quanto mi aspetto, del tempo che ho visto scorrere, di quanto più giusto d’ogni altra cosa sia stato il mio ingiustissimo comportamento. Lei scrolla le spalle. Mi saluta con un sorriso d’ultimissima clemenza, e io per colpa e imbarazzo avvampo dentro, così tanto da fare un buco nel vapore. Forse il vapore s’allontana da me, respinto come da raggi torridi, percependo un demone incandescente che per il suo elemento rimarrà per sempre alieno e oscuro. Presente la mia rovina, la rovina del vapore e quindi del paesaggio circostante, l’unica cosa che ho condiviso.


-ciao, stammi bene!


-eh, è una parola.


Mi lascia lì a bucare il vapore, sorride a me e un po’ più a se stessa per riempire quella cosa concava generata dal mio tempo, per leccarsi una ferita. E infine si butta da sola, oltre la cascata. Non so se sia ascesa assieme ad altre “anime”, per andare a diventare una rondine. Io me ne sto per un po’ qua, seduto sul viscidume di scogli, giochicchio a scivolare.

Post recenti

Mostra tutti

Comentarios


  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn

©2020 di DH Jazz. Creato con Wix.com

bottom of page