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eel gen

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 28 set 2021
  • Tempo di lettura: 17 min

Non c’era molto da spalare sulla costa di marciapiede adiacente a quello che presumibilmente era un suo giardinetto, ma lui spalava comunque. Aveva proprio finito, secondo lui, un bel tratto, tanto da sottolinearlo con un croccante affondo della pala, quando vedendoci camminare a passo letargico, nel modo di qualcuno apparentemente in pace, ci fece un cenno.


-ohè, e dove te ne stai andando?


-ah, sto ritorn…


Ah, no, stavolta no, ci eravamo detti. Fortunatamente ci ricordammo in tempo che ogni volta che un abitante ci aveva chiesto dove stessimo andando e noi avevamo risposto che stavamo ritornando, poi ci chiedevano di spiegare meglio, e noi a dire della mia tana, che stava laggiù come una cosa che è fatta apposta per volerci ritornare, e là a cercare di far capire senza troppi dettagli quanto bello fosse e tutte quelle incredibili sensazioni che non sapevamo comunicare a chi non le sapeva; ed ecco che tutti, ci sembra quasi tutti, chiedevano, facevano quella domanda che intendevano scomoda, “ma allora che ci torni a fare? A rannicchiarti?”, e per loro quel rannicchiarsi nel buio ci manca poco che è una specie di atto criminale. E anche se gli abitanti -noi lo potevamo sentire così intensamente!- erano certamente tutti bravissime persone, cioè persone imperfette più o meno ignare di esserlo, in quei momenti ci dispiaceva che l’atmosfera si addensasse tutt’intorno. Non c’era una vera tensione, non era così esplicitamente sgradevole, ma gli sguardi non erano priva di giudizi e barriere, incapacità di comprendere. Insomma: era una situazione da evitare. Così prendemmo l’altra cosa importante, quella che avremmo chiamato l’altro motivo per continuare a svegliarci ogni giorno e camminare indefinitamente, sempre se un motivo del genere meriti d’essere chiamato così.


-beh, cerco di sfuggire a una creatura che mi insegue per farmi un culo così.


-ah, certo. E dimmi, com’è fatta?


Ah, bella questa. Per evitare quella serie di scambi spiacevoli che sarebbero seguiti alla risposta più semplice, si andava incontro a un’altra inaspettatissima domanda scomoda. E ora? Il problema era che questa questione dell’essere mostruoso che ci inseguiva non era per niente facile da spiegare. Inoltre non sapevamo dire se le tre forme in cui ci aspettavamo che comparisse, disegnate istintive dalla mente come un presagio distillato nei respiri quando riposano in fondo ai polmoni, fossero proprio tre diverse creature o le manifestazioni plurime di una sola cosa. Dicemmo che era la seconda, e dunque spiegammo cercando di semplificare, ridurre al minimo le incomprensioni inevitabili per le differenze di linguaggio. Ma certo volevamo che dietro la fronte arrossata e incorniciata da lucido argento filaccioso dell’altro si profilassero vaghe immagini, sufficienti per capire che la prima era una forma umanoide, come l’ombra d’un signore corpulento che s’inclini a udire, un forestiero mimetizzato in un’ombra ai bordi d’un parco, pronto a saltar fuori da un cigolare d’altalena e inseguire, brandendo una mazza o qualcosa del genere: lui, quegli occhi gialli sentiti sulla schiena che non può fermare la corsa, quella specie di antenne nel corpo d’ombra come orecchie di coniglio, è uno che punisce usando la forza fisica; poi, che la seconda era una forma che in qualche modo nemmeno c’era, essendo in sostanza un diverso comportamento della neve, non più lo strato appena velato, morbido e piacevole, ma un improvviso e crepitante indurirsi del gelo da sopra e da sotto, che attanagli il passo, congeli, scarnifichi, finché non si è rinchiusi in un blocco livido e agonizzante di glaciazione che cancella tutto, mortifica il sogno a occhi aperti del velo sottile candido ingiallito dalle luci notturne, e all’interno del quale si ode solo sbattere sulla crosta esterna il ruggire burrascoso che sempre accompagna la sua presenza; infine, la forma più sgradevole, quella specie di bocca zannuta, che si spalanca a voragine nel terreno percorso. Sgranocchia l’asfalto, fa breccia per prender vita e mostrarsi, e per pochi secondi sembra mandare a eruzioni un fiato pestilenziale. Attende le prede, afferra più salda d’una tagliola con quelle sue fauci senz’occhi che sembrerebbero quasi essere i suoi arti, per un abbraccio quasi mortale, e poi…? Questo è ancor più difficile da spiegare, perché oltre le gengive palpitanti, imbrattate di liquami vivi e resti ossei, non sembra esserci una gola, e non si sa dove si apra l’asfalto quando compare.


Insomma erano queste le tre forme di cui ci si ricordava ogni tanto, arrestando d’un tratto il passo a un crocevia, spargendo un brivido che scombina i calzini e sale su ininterrotto, e noi a indugiare con occhi vacui come in catatonia su di un segnale stradale che a ripensarci nemmeno si saprebbe dire quale fosse tanto era ignorato nell’apparentemente meticolosa esaminazione. Non era per niente bello aspettarsi questo genere di cose a ogni svolta, sapendo (il come è complicato) di poterci finire in trappola anche nei momenti più placidi, nelle passeggiate in cui quasi ci si dimenticava di dover fuggire e di dover ritornare e s’aveva voglia addirittura di sorridere, e di passeggiare e basta senza avere altro motivo -no, erano queste le situazioni in cui andava perduta tutta la cautela allenata in tanti anni, così sembrava dirci una voce alla cui insistenza, una volta riapparsa, non c’era modo di porre rimedio. Però far capire tutto questo al gentile e laborioso vecchio, coi suoi ciocchi di legna allineati tra gli stivaloni, i guanti odorosi di resina e carbone, era estremamente complicato.


E infatti continuava a domandare, a chiedere chiarimenti. Diceva che proprio non capiva che motivo avessimo di temere questa creatura a tre forme -il fatto che ne avesse tre sembrava confonderlo parecchio, rivelandoci che anche quella di spiegargliela in quel modo era stata un’altra scelta sbagliata. Diceva perché non ci tiri in fronte un bel ciocco robusto di questi?, e ne sollevava uno ruotandolo, come a mostrarci accuratamente la sagoma, dare un’idea del peso. Ma no, non si poteva proprio, però lui, se le avesse incontrate queste “tre sorelle” a tutte e tre “avrebbe fatto passare la voglia” di inseguirlo. Aggiunse che se nemmeno le avevamo mai viste da vicino il sospetto che ci piombassero addosso era addirittura folle. Ah, caro vecchio laborioso. Sorridemmo imbecillemente, così felici di averlo incontrato per via, perché lui è uno degli abitanti, e a noi piace osservarli, ma senza essere osservati; ci piace l’idea di sapere i loro intimi segreti, come strisciando invisibili e scivolosi dentro le case con le nostre proprietà d’anguilla che si rintana in un buco umido in fondo al pozzo; occhiarli di sotto l’ombra d’una credenza e respirare a branchie ingorde le loro preoccupazioni disciolte nell’aria, perché crediamo sia questo il modo di conoscere davvero qualcuno, di viverlo, di capire che c’è un’anima -e adesso, oh sì che era il momento ideale, quando non c’è nessuno in giro, tranne lui, dio o chi per lui lo benedica, che si mette in testa (di sicuro discutendo con qualcuno, testardo com’è) che questa roba deve farla proprio adesso. A noi piace così e non quando gli abitanti diventano folla, e queste cose che loro emanano, fragili e fibrillanti come fiacchi ologrammi, s’amalgamano o spariscono in una cappa di smog rumorosa, manna per il caos, inquinamento spirituale.


Il modo in cui s’era rassegnato, rinnovando il cenno per salutare, era come quello d’uno che s’è stancato tantissimo dietro a un concetto difficilissimo, di quelli che gli vien voglia di rimproverare per non sforzarsi d’essere più facili. Allora ridacchiammo salutandolo e andammo oltre. Lui con la sua legna e la sua neve già spalata, noi che dovevamo ritornare a casa. In fondo al viale ci voltammo, ripercorrendo le lingue dei marciapiedi, gli alberelli spolverati uscenti dai muretti, i tegolati bassi delle villette d’una via col nome di un letterato. Il vecchio è scomparso, e con lui tutta la legna, e le tracce, e i rumori. La notte tace sulla soglia splendida, in bilico sull’oblio, d’un dormiveglia generale che s’aggrega nei fiati sopiti da sotto gli usci in letargo, l’ibernazione silente e stanca delle case blindate, infreddolite. E lo spirito conservato vivo nell’inverno, pulsante da lanterne varie e lampioni, e chiarore di là da tende. Vorremmo inspirare tutto questo, berlo come si può bere anche la neve. Ma un groppo ci sobbalza per la gola, perché ci siamo ricordati che potrebbero essere qui. Qualcosa ci dice che la forma umanoide, così persistente nel tallonare come un segugio, è vicina. Lo suggeriva l’ambiente di quella discesetta, con i cartelloni pubblicitari e la nicchia nell’aiuola, dove qualche volta mettono un presepio. Dovevamo sbrigarci, come sempre. Per fortuna il modo in cui ci si sbriga non è come quello in cui si sbrigano certi altri, e col passo nostro incoscientemente rilassato si ha modo di carpire tante belle cose che cerchiamo, e che poi ci servono nella tana.


Lo scrocchiare delle suole sul tappeto nevoso ci rallegra le orecchie, che ci ringraziano. Certe volte pensiamo quasi che questi ringraziamenti rari dal corpo o dalla mente o da certe lacrime che ghiacciano subito siano la cosa più bella di questa nostra passeggiata infinita. E allora in tutti modi cerchiamo di stimolare questi ringraziamenti, che non devono mai cessare, e farci credere che maledizione tutto questo va bene, che stiamo bene, perché diavolo, prima che le orecchie o magari le dita dei piedi o la sete o non so cos’altro ci ringraziassero, non sapremmo capire quando si è stati bene l’ultima volta. Ma queste cose che cerchiamo, che ci piace osservare, non echeggiano forse quel tempo? Alludendo quindi a una possibilità d’un suo ritorno, a questa famosa “felicità”. Ma, per quanto ci riguarda, noi pensiamo che l’allusione sia molto migliore della possibilità che effettivamente accada. Si direbbe che proseguiamo in questa passeggiata di nostra volontà. Poi però ci si ricorda dei tre mostri. Chissà da dove vengono: noi ci sforziamo di non credere nell’inferno, però…


Sollevando il piede si sente certe volte un’acquetta che tocca l’asfalto o il terriccio sotto, pochi centimetri posati. Si scioglierà, forse presto? No, è una passeggiata lunga la nostra, e a noi piace che sia così. A noi piace che questo velo di neve faccia sentir freddo ai piedi ma senza esagerare. Ci piace pensare che se tornassimo alla tana potremmo accendere la luce del bagno e sentirla spargere serotine fragranze di sapone intimo e asciugamani piegati, e immergere nel bidet le vesciche della marcia per lavarle con acqua bollente, e infilare la faccia fluttuante nel pennacchio di vapore che si leva dal gettito fischiante mentre riempie, ribolle profumandosi; pensare che tutto questo basti a battere la stanchezza e carezzarci. Per questo fa tanta paura quel mostro senza forma, quando diventa un ghiaccio senza tregua, quando la neve s’accumula spietata su queste strade sempre uniformi, praticamente un prato di neve ben tagliato. No, quel mostro viene da un’era glaciale, da un inverno di sola morte. Non possiamo fare altro allora che camminare, perché abbiamo le gambe per fuggire. Sì, fuggire, dalle cose spiacevoli, fare in modo che tutto ci appaia su queste vie esattamente nel modo che ci piace. Siamo deboli forse e distaccati da ciò che ci circonda, ma crediamo che sia difficile non esserlo, tenute presenti alcune circostanze, e quanto terrificante sia la sensazione di pericolo. A ogni momento, arriva una cosa per farci il culo. Giuriamo che non è bello per niente.


Dove svoltavamo? Là no, c’era un tombino. Non tanto la puzza di fogna, è che assomiglia un po’ alla voragine zannuta. Però quante belle luci. Questa normalmente sarebbe una via vivace, negozi clacson skater, ma la città attende la fine dell’inverno, la città è bellissima, solo se la guardiamo in certe sue cose. Collezioniamo impressioni, e per quante ce ne infiliamo dentro le tasche, ci sembra non ci appesantiscano mai. Magari ci sbagliamo, magari rallentiamo veramente e siamo ormai spacciati. Ma è difficile andare oltre la nostra percezione. Potremmo anche provarci, ma -rischiamo di ripeterci-, e se, provandoci, si moltiplicassero ancora queste forme, se per arrivarci serva svoltare ancora a un’altra traversa d’aspetto sconosciuto, nella cui tenebra s’acquattano queste cose? Ne sentiamo l’aura da qua, figurarsi. Non ci ha mai mentito la nostra percezione dell’aura. Quindi è bene come abbiamo sempre continuato. Sentire, mettere in tasca, riesplorare a piacimento. Siamo archivi ambulanti di colori e chiaroscuri e nostalgie e doloretti. Ci massaggiamo il bassoventre rimescendo le mani guantate nelle tasche del cappotto e proseguiamo lenti, la cosa che sappiamo fare meglio. Cosa abbiamo raccolto in passato da questa stessa via?


A noi piace la libreria che s’affaccia sulla strada, la dimensione estranea che si crea al suo interno, ore trascorse in clausura uterina di pareti color crema, ipnotizzati da titoli e copertine, nomi di autori, loro paesi, i cartelli di cartoncino rossiccio classici narrativa politica filosofie orientali attualità cucina fai da te horror/fantasy. Immaginarsi che personaggi contengano, se ci possa piacere, capire da pochi superficiali elementi l’andamento del fondale, le profondità intrinseche a ogni pagina e alla loro somma diversa dalle parti. Ci piacciono le due poltroncine e il pouf su cui nessuno noi compresi si siede mai perché sembra inopportuno. Ci piace poi quando ci ricordiamo dell’aria fresca che ci fende la faccia e ci fa la barba uscendo, senza magari aver comprato niente, ci piace che quando usciamo è già notte, perché cala presto in questo periodo che non finisce mai, forse per colpa nostra che lo facciamo andare avanti così, senza cambiamenti, imperfezioni. Ci piace che in questo casino passa qualcuno che sta facendo scuola guida, poveraccio, ma almeno la fa quando davanti a lui le macchine rallentano, si fermano, s’ammansiscono rosseggiando occhi stanchi. Ci piace il signore calvo col pizzetto grigio che se ne va sulla sua bici, e ha proprio l’aria di essere uno che studia i tecnicismi d’ogni suo interesse, lui che di quella sua bici sa tutti gli ingranaggi e se l’è portata come compagna di profondi silenzi in cima alle montagne e al culmine di sentieri bellissimi, e ci piace la signora con gli orecchini circolari enormi che portava al guinzaglio il cane e commentava ad alta voce le stravaganze del suo comportamento. Ci piace che uno sputo abbandonato su una banchina, grumo stravaccato che già crepita brinoso ai suoi contorni, abbia assunto la sagoma di uno che è incazzato col mondo almeno quanto lo siamo noi. Finisce la via. Non molte cose in fondo, ma questo perché è una via solitamente riempita oltre certi nostri limiti di comprensione, proprio come il vecchio di prima aveva i suoi. Allora prendiamo per dove già da un po’ stavamo ponderando di andare, nonostante le perplessità che lo stesso vecchio aveva sollevato in proposito.


-ma come, stai scappando e vuoi comunque salire là a guardare il panorama?? Ma è da incoscienti, se hai detto che non vuoi farti prendere!


Dobbiamo dire che dal suo punto di vista era un’argomentazione abbastanza importante. Ma che potevamo fare? Volevamo andarci così tanto, in cima alla scalinata. Da lì ci sembrava di amare la città. Vedevamo una a una tutte le lucette affianco alle quali eravamo passati, senza sapere quale fosse quale, e parevano tutte gocce traballanti e diafane che indugiano sulla punta d’una ciglia, prossime a precipitare, ma bagnano ancora l’aria. Alle spalle la parete marmorea della chiesa. Le campane congelate pure loro, e crediamo che se anche non lo fossero state avrebbero compreso che non c’era nessuna serie di note da rintronare su quel paesaggio. Noi e i cipressi fermi in piedi sul punto più alto. Anche quella notte volevamo arrivarci, anche se potevano spuntare ogni momento, coglierci nella vulnerabilità immobile. Tanto, se fosse finita così, non avremmo fatto del male ad altri che noi stessi. Il nostro non era un piacere egoista che sopraffacesse gli altri! Il nostro non era un piacere effimero! La città, che ci aveva insegnato solo una reciprocità d’odio e cruda indifferenza, che ci aveva insegnato che finché fossimo rimasti in lei noi avremmo sentito quella morsa soffocante ad arraffarsi tutti i respiri librati nell’aria, e lei si sarebbe sentita calpestata da noi e ci avrebbe rifiutato, ebbene, saliti lassù, la sentivamo bellissima, e come a ricambiarci lei ci si spalancava intima, piena di bagliori. Noi vogliamo vedere tutto. Senza toccare. Toccare, ordinare le cose, amministrarle, possederle con la gelosia e la difesa, non ci farebbe sentire niente. Ci farebbe sentire sbagliati. Noi vogliamo allora veder tutto e sperare che prima o poi in questo tutto si formi una cosa, una nube, un sogno, che ci faccia sentire davvero qualcosa.


A noi piace avere il cognome Caulfield anche se noi quello che Holden aveva visto non l’abbiamo mai visto come l’aveva visto lui, e ci piace allora chiederci dove se ne siano andate in questo periodo le anatre del laghetto cittadino, sebbene da noi le anatre non ci siano e quello sia piuttosto uno stagno -forse allora vuol dire semplicemente che qua è sempre quel periodo, che le anatre rimangono in quell’altrove perenne, parallelo alla nostra passeggiata. Non si incontrano mai due parallele, ma magari loro le incontriamo, alla fine di tutto, dopo il ritorno e anche dopo i mostri. Ci piace che pensando a questo le nuvole bianche emesse dalle nostre labbra screpolate riflettano i paraggi patinati omogenei dalla luce dei lampioni. Ci piacciono, le luci, di tutti i tipi: quelle fisse, sempre uguali in uno stesso punto, forse frivolmente dimenticate da qualcuno convinto d’essersi guadagnato infinite tutte le risorse del mondo, o forse lasciate apposta per non far venire gli incubi a un qualche fantasma da giardino; quelle che invece vacillano, che stanno per morire, il cui fioco lampeggio è una palpebra che si rinchiude, oppure scattoso in flash impazziti; quelle giallastre, quell’ocra che ammanta tutta la città, quello che conosciamo meglio, e che sulla neve sembra diventare quasi rosato, oppure quelle multicolori di qualche illuminazione a nastro lasciata abbarbicata a qualche balconcino. Ma anche noi siamo uguali: ci sfreghiamo le mani, là dentro i guanti s’arroventano d’elettricità statica e sangue sottopelle, poi ce le mettiamo a paraorecchie per sentirci rimbombare sfiatando, e ci premiamo il berretto alle orecchie perché a noi piace indossare indumenti così, lanosi, bicolori a righe o motivi di renne e fiocchi di neve così da far finta che sia sempre natale, una bevanda calda immaginaria tra le mani. Ma non vogliamo regali, vogliamo solo riesumare il calore immagazzinato in pancia in un passato idealizzato in cui era possibile riceverli dentro una casa di canzoni e aromi di forno, con la neve che era fuori e non dentro. Tiriamo i lembi con i pompon in fondo, li facciamo sobbalzare. Ritrovavamo la strada, il ritorno che volevamo. Rannicchiarci, e pensare col nostro passo senza fretta, fino alla fine dei nostri giorni, al sicuro. Noi vogliamo sicurezza. A noi piacciono le orme tiepide con le ditate rotonde di un gatto, chissà dove si è ficcato e cosa cerca, che se lo vedessimo certo ci inginocchieremmo a sporgere la mano giochicchiante al muso simpatico. Ci piacciono tutti gli animaletti dormienti sopra i muretti, che sporgono la testa sonnecchiosa tra le siepi prementi sulle sbarre. Ci piace seguire allora quella scia di orme, magari saranno loro a condurci alla tana. E sembra di udire lo stesso crepitio delle suole nostre anche nei cuscinetti che c’erano stati.


Camminiamo ascoltando Beat Lo-Fi, alternati alla totalità della quiete che ci calma, e di quest’alternanza componiamo la colonna sonora d’un sogno. Quando sono musicati imbeviamo i colori di bellezza, animiamo i movimenti della nostra fantasticheria con mano artigiana: sfondi acquerellati di campagna giapponese, oppure un intrico incessante di fili sospesi sulle strade tra cicale assordanti e lontano sferragliare dello Shinkansen. Non lontano dallo spazio e il tempo di quest’ambientazione che abbiamo assemblato, in un ufficio d’un palazzone qualsiasi un programmatore chino e ispirato dal sublime mette insieme come in un mosaico delle note a 16bit di inseparabili tracce di vecchi videogiochi, che s’intrufolano talvolta nella nostra playlist o nei nostri pensieri, e che già da allora ci sembravano avere inscritta, nella rozzezza rugiadosa del suono, nelle melodie agrodolci, l’interezza possibile del tutto. C’era un incanto in atto, nel quale la realtà perdeva i suoi contorni, spariva per sempre. Eppure solo così rivelava la sua poesia, disabituata com’era a mostrarla. Non sapevamo, in fondo, chi fosse passato prima (perché anche il vecchio e quelli dopo di lui non erano che la nostra idea modellata e rimodellata di ciò che erano), ma qualcuno doveva per forza aver fatto qualche torto a questo mondo, per poter esiliare la poesia a quel modo, render necessario che si trovasse una via attraverso le mani d’un compositore insonne e una serie di circuiti serpeggianti in una cartuccia di plastica.


A noi piacciono gli odori delle case e delle vite degli altri soprattutto quando non è il naso a sentirli, anzi, solo in quei casi. Oltre vetri di finestre illuminate, oltre giardinetti con cucce e tricicli abbandonati, noi mandiamo gli sguardi, forse inappropriati, ma a noi piace vederci fantasmi, e ci si augura di esserlo anche per tutti questi che innocentemente spiamo, e che non lasciamo orme e ombra nemmeno sulla neve (lo scricchiolio possiamo continuare a immaginarcelo finché non ci si abitua alla sua carezza, che diventa scontata). La città pulsa, come gli scaffali della libreria pieni di storie, è qui che si generano, tra le pareti e i gorgoglii reconditi di tubature e macchie di muffa, tutti quegli spettri che ci chiamano, quegli affanni che indugiano, quei lutti, commozioni patetiche, i vuoti e i pieni accumulati sul mobilio e tra le aspettative dei giorni a venire, tra l’imminenza della sveglia e i rossori albeggianti della stazione al mattino. Potevamo sbirciare anche in quel momento, dove nessun’ombra si proietta sulle tende, dove i magazzini e i supermercati alternano saracinesche sgargianti di graffiti a quelle luride e cineree. Fiancheggiamo nell’andatura per questo spiazzo un po’ rovinato il nero rifluito dai confini di un parcheggio lasciato buio. Ci piace che si somiglino tutti i parcheggi vuoti con lo spirito desolato sui mattoncini in gommapiuma della pavimentazione adiacente i praticelli smorti, gelido nelle nebbie che là sembrano generarsi come in un camposanto, e che ovunque siano, sembrano estendersi all’infinito, quasi a costituire un nuovo bioma, una specie di savana di rada vegetazione nascosta dietro le palpebre del cosmo urbano, appiattita al suolo e stanca senza emettere un suono. Sotto il bordo d’un marciapiede giacciono lattine accartocciate, mozziconi di sigaretta, pallini sparati, vetri. Fantasmi di disperazione dagli occhi rossi e il fiato alcolico, e altri di spensieratezza e ormoni e prese in giro e interminabile squallore. Ci sembra di vederli, ci sembra di avere una vista così acuta, da capire tutte le cose che qua succedono. Noi siamo in uno più di mille, siamo forse noi la città, e tutti questi spiriti che la popolano? Ecco, in quel parcheggio, un lume della specie vacillante e fioca. Ricorda un insetto che agita le ali eteree, le freme come ciglia cieche, prima di spegnersi.


A noi piace che ognuna di queste piccolezze che raccogliamo e conserviamo assomigli proprio a uno di questi lumi di lampioni, e tra conche e cunicoli labirintici sotto plaid e coperte di una tana rigirarceli tra i palmi, globuli caldi e baluginanti, capaci con quel flebile contatto di riscaldarci in tutto il corpo.


È questo che facciamo? In giro per procacciarsi, sì, “appropriarsi” è in fondo anche questo. Ma non è per questo che ci criticano, alcuni di questa gente che adoriamo, visto quanto spesso sistemano in case e giardini molti loro possedimenti assai più ingombranti e francamente egoisti (ma noi li amiamo lo stesso). Noi invece, non disprezzeremmo mai quel movimento quasi immobile, quel contorcersi serpentesco nelle pieghe della tana da noi scavata, la nostra sotterraneità, la nostra brama di caverna, ove l’eco acquosa dei pensieri è placida come la pazienza d’una goccia che erige stalagmiti attraverso le ere. Noi odiamo noi stessi, ma non è davvero nostro quest’odio, non colpa nostra: per noi non è sbagliato rimuginare, non è sbagliato avere scavato una tana perché da subito si è avuto questo impulso febbrile a scavare, e scoprire, e seppellire i tesori trovati, e trovarne di altri, tutti in uno stesso punto, finché la profondità a cui dobbiamo ricongiungerci non s’è esaurita o finché non si sfiniscono pure i nostri interminabili passi sulla magra neve urbana…


Il ritorno si avvicina, e ci sembra di aver vagato molto al di là del nostro tempo, molto indietro, come partissimo da un’origine più vecchia della nostra origine, chissà dov’è andata a finire. Da quale dimora siamo venuti, da quale delle luci che avremmo visto dalla scalinata della chiesa? Forse invece uno di quei contorni di buio, dove la luce ancora non esisteva… e chissà se è lo stesso per i mostri. Anche loro, con quelle forme che hanno, quelle aberrazioni disperate, devono essere stanchi. Devono venire da molto lontano, da una marcia molto più lunga della nostra e in cui a un certo punto hanno trovato lo scopo di prenderci. Ci piacerebbe abbracciarli, e veder dissolvere la loro ributtante superficie, senza dover mai più far paura, e punire, e colpire, e farci il culo. Ma il viaggio delle epoche li ha resi troppo stanchi, e non si posano mai su una panchina. E all’abbraccio immaginato rabbrividiamo, sentendoci sporcare d’un liquame di alienità e raccapriccio staccato dai loro corpi, un vuoto nero che ingloba e cancella tutto, portandoci la carne in un altrove senza anatre del lago, senza lumicini e musiche agrodolci. Una tenebra completa, un’integrità nel terrore e l’unica cosa davvero integra tra questa distese d’impressioni non integre, frammentate dalla schizofrenia urbana. Loro non riposano e anche adesso ci sembra di sentire dei passi, passi d’un qualcosa che viene, incombe, a ogni svolta. Dobbiamo, ancora una volta, rimetterci in cammino, ed è l’unico nostro dovere. Piano, tranquillamente, guardiamo tutte le forme che la nostra nuvola prende uscendoci dai denti, la vediamo scomparire, dissolversi dopo una contorsione; e di questo suo stato effimero possiamo piangere tra noi senza esser visti, raccogliere le domande che le lacrime lasciano sulla loro scia graffiandoci le guance, lasciandoci però le cicatrici dentro. È così che riusciamo a capire qualcosa. Nel dire tutto questo non ci stiamo giustificando. Ma abbiamo bisogno di ripetere cosa facciamo e cosa siamo, cauti per un segnale che affiori da tutto ciò, dicendoci che, sebbene nella sua insignificanza ci sembri aver più senso di qualsiasi altra insignificanza, ha meno senso di un qualcosa che sta da un’altra parte. E allora dirigeremmo i nostri passi sulla neve in un’altra direzione. Portandoci dentro la tana come un ricordo, la forma che avevamo dentro di essa, il corpo d’anguilla che sporge degli arti capaci di abbracciarci da soli, e di scavare ancora, collezionare in scaffali del nostro profondo pozzo le cianfrusaglie incorporee e sciocche. Sì, un giorno anche questo riusciremo a farlo diventare una nostalgia di se stessa, e staremo camminando forse inseguiti o forse no (ma ci crediamo poco) verso una meta che al momento, se c’è, vediamo oscura, confusa nel ventre labirintico dell’ignoto. E in questi anni ci siamo troppo abituati alle luci, lontane e vicine, sui colli dell’orizzonte, sui parchi immersi nel sonno.


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