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  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 8 nov 2022
  • Tempo di lettura: 21 min

Aggiornamento: 5 dic 2022

===Uno sbalzo di temperatura simile a una creatura viva apparsa all’improvviso. Si fa percepire in ritardo, quando il luogo da cui sono tornato è ormai lontano e capisco che per pochi istanti c’era stato anche là un brivido di freddo e paura, non diversissimo da quello presente. Ero circondato da ombre di alberi, sotto le suole delle scarpe una lastra d’umidità come fossi a piedi nudi. Tremori sparati verticalmente dagli strati d’erba e terra fin su attraverso le vertebre disegnavano una teleologia di tutte le forme, per congelare il cervello e lo scopo. Sotto le mie orme, una lastra d’assideramento aderente alle piante dei piedi, e mi sembrava di sentire il terriccio fradicio e mille dita verminose di piante segretamente in crescita, e ventose molli aperte nelle membrane di cellule di funghi microscopici, e tentacoli eternamente in crescita con la linfa già gravida di decadimento, e del tutto indifferente a questa sua stessa natura. Che non mi lascia indifferente, che mi genera un sussulto in fondo al petto, minacciando di spaccarlo in due parti confliggenti.


……..Un fulmine nella notte precedente una mattina ancestrale. Una principessa racchiusa nel suo nucleo, come giungesse da un meteorite. Il fulmine aveva squarciato le tenebre e separato due cieli, ormai inconciliabili. In quei casi si manifestava sempre un presagio. O qualcosa di più, senza futuro o senza tempo. Una manifestazione diretta. Nelle abitazioni vacillanti alla bufera di quella notte e agli stridii di gufi in cerca di ripari dal vento, qualcuno credeva d’aver udito un tuono lontano, e decideva di far finta di niente. Le speranze infrante sul nascere erano considerate già allora le preghiere più antiche. Venivano pregate sempre. Un uomo dormiva nel fondo fangoso d’un sonno che l’indomani l’avrebbe fatto alieno in una terra senza meteo: nel giorno rapidamente giunto, nel calore dell’alba avrebbe trovato tutto quasi asciutto -eccetto la naturale umidità del bosco- senza sospettare una goccia di pioggia, un soffio di vento, una singola scintilla elettrica. E in sonno di minerali e metalli, nel cuore draconico della roccia, riposava una principessa delle cose senza temperatura, una fata gigante in incubazione. Mediante il respiro, soltanto il respiro -che era massima espressione del suo essere, che era sua arte e poesia-, acquisiva segnali, immagini: la caverna della fine della sua letargia, e con la mente e l’aspettativa che l’allontanava da un mondo di divinità simmetriche e complete per avvicinarla a quello insoddisfatto degli umani, andava erigendovi dentro ipotetiche cattedrali di cristalli rosa e azzurri.


===C’era stata una mucca separata dalla mandria, sentinella tra i castagni. Sentinella di cosa? Cos’è che guardi tu, eh? Qualunque cosa sorvegliasse, la sorvegliava. Le mucche a volte sono di roccia.


……..Nella roccia la principessa silicea produsse uno sbadiglio infrasonoro, in cui frane ed erosioni si susseguivano attraverso i secoli della sua durata. Uscire dall’ultima fase del sonno è faticoso per molti esseri. La principessa che dal grembo capta tutto e l’accoglie in nascondigli mentali, presto ricoperti da fogliame, si accorge di aver smesso di sentire un segnale, di quelli che aveva imparato a riconoscere, render familiari come un sussurro reiterato in ninnananna dall’altra parte di un grembo. Era l’odore di bestie pelose che apparivano come guardiani di labirinti d’incubo dentro i buchi scavati nella montagna, nelle bocche oscure in cui cercare un fuoco o un’acqua, che significano fede, che significano preghiera. Le bestie apparivano nel cuore di tutto ciò che non era bestia. Questo significava qualcosa, questo la principessa lo usava per costruirsi storie e significati così da non annoiarsi il lungo sonno. E invece non si sentiva più l’odore della megafauna. Ancora qualche migliaio d’anni e si sarebbe svegliata, la questione emergeva nell’immediato. La questione era un bestione privo di peli e dal calore mitigato da acque polari, no anzi, privo di temperatura, dotato di gobbe lucide e sfiatatoio che emergono in onde di tempesta. La questione era un fulmine che separa per sempre i cieli in un cielo prima della luce e un cielo dopo la luce. A lei piacevano i posti liminali. I mammiferi d’acqua e gli dei di terra e gli umani di cielo, le stelle cadute e le metafore.


===C’è un brivido misto di paura e freddo e di quel figlio pestifero che hanno fatto. Un virus conservato nel ghiaccio che si sta sciogliendo. Ma perché insegue me? Stupido cretino, immaginati nella tribù primitiva, quando il continente intero era una ghiacciaia e qualche falò in qualche grotta: costituzione e temperamento ti vogliono morto, tra gli innumerevoli sconfitti della natura, gli innumerevoli di cui non rimangono resti. Innumerevoli frammenti di neve che servono solo a comporre “la neve”, singolare. Mi giro, tra i marciapiedi che, ricordo, quando guardavo l’arrivo di un inverno fioco e solamente fastidioso, privo di vezzi estetici, diventavano sempre desolati strati scivolosi, riflettenti luci fluide simili agli arcobaleni tossici invischiati nelle patine della superficie del bitume. Così è il ghiaccio sul marciapiede. Così è la sensazione che aleggia sempre al di sopra: d’essere osservati, ovunque in tutta la città in pianura. E non sono gli stessi occhi che s’avvertono nascosti tra gli alberi salendo di quota. Così ancora una volta cammino nervosamente, per tornare in un mio rifugio, e mai ci sarà fine a questa agitazione che diventa ronzio sottendente al tutto, diventa il finto ossigeno espulso dai pori di scheletri di macchinari ed edifici, di cose chiamate clangore ed entropia ed emicrania. Pazienza, questo è il paesaggio che ho sempre attorno. Ma da quanto cammino in questo modo? Ho l’impressione di star tornando a casa da una lunga migrazione, come se stessi facendo tutta la distanza in marcia dalla gita ai colli boscosi. E intanto qualcosa segue le mie tracce. Spero di riuscire a estraniarmi come mi riesce. Spero di avere una camera, una grotta, e lì dentro spero di sognare, per l’influenza delle impressioni della giornata che mi sono strisciate dentro, il modo in cui le foreste crescono e il rumore impercettibile del tempo che fanno scricchiolare.


……..Certe strane ombre danzarono, in una grotta, in un posto in cui le forme si disintegravano come cascate di rugiada rovesciate, flutti di vapore illusorio verso il soffitto della caverna. Ma non era una grotta che si potesse raggiungere scavando, e non c’era un altare perché fosse conciliata la comparsa delle divinità lì racchiuse. Una principessa doveva arrivare: il suo popolo era sconosciuto ma vasto e grande, e silente, e ovunque nascosto. Penombra infiltrata nei solchi di corteccia, anonime scaglie di pigne e tessere di materia morta che un tempo era foglie, che un tempo era ossa. Esiste un gran vociare univoco e reso indistinto, diventa lo stesso sottofondo cavernoso del vento, quel clamore ripetuto che non ha parole, che vuole dire una cosa soltanto: popolo, anime numerose che diventano una, qualcosa di vivo che deve esistere da qualche parte, allo scopo d’avere una principessa, che li rappresenti, che faccia tumultuare in sola immagine tutte quelle anime che sono come le singole fibre dell’acqua vivente d’un lago. Ed eccola che allora da qualcosa di simile a increspature gelide e lisce emerge, ecco la principessa che apparendo in quel luogo senza forme, in cui come scheletri rimangono solo spigolosità verticali che ricordano gli alberi o le stalagmiti, comincia a bisbigliare, e dalle sue labbra si dipanano in tessiture blu, del colore dei morti e dei fiori e dei cristalli in fondo al lago, i refoli che imperversano per tutte le vie connesse a quel luogo, e nascono nel mondo, nei percorsi di foresta e su per i pendii, nei buchi della roccia. I venti pronunciati dalla principessa, dischiusa in un mondo intangibile, permettono che delle cose accadano e si muovano nei luoghi che sono lontani, nei luoghi che sono vicini agli umani. C’è un uomo, d’aspetto selvatico, fa veleggiare la sua ombra deformata al di sopra di arbusti spinosi assetati di sole, mentre procede e s’inerpica per raggiungere una cima. Un fascio di contorti rami secchi gli fa da gobba, terra che diverrà fuoco. E non sa cosa sia a muovere la sua ombra, e non sa cosa sia a scombinare nell’aria il fogliame caduto, e aprire i ricci di castagna, e lasciar inumidire all’aria aperta, come ferite tracciate su frutti maturi, il terriccio divelto in fondo ai solchi che marchiano nel sottobosco di una giornata il passaggio dei cinghiali. Una giornata: in quel microcosmo loro sono esistiti, e all’uomo che s’avventura in salita sembra di sentire in qualche recondito impressionabile uncino carnoso del cuore che con quel grugno i cinghiali pronuncino una specie di preghiera, e che il loro grugnare sia il grugnare d’un dio. Vede nella sua mente l’immagine lontana d’un bambino eletto sacerdote, d’occhi e capelli insoliti, cui vengono fatte inforcare ai piccoli canini zanne staccate da un teschio di porco. E intorno la gente -la sua gente- che danza, sperando che quell’eletto diventi un qualcosa di venerabile, sperando che un giorno danzeranno per qualcosa che sia una forma netta e inscindibile nei sogni di tutti. L’immagine sparisce presto e il taglialegna vede solo quanto lo circonda, la quiete che lo avviluppa, sempre più fresca, d’aria che si fa un appena più rarefatta salendo per i gradini invisibili di quel rilievo in fondo trascurabile, d’un fianco collinare ricoperto di foreste in fondo trascurabili.


===Sul suolo forestale cresceva una seconda foresta di corna alte e nere e ricurve delle mucche lasciate libere, somigliavano agli uri dell’era glaciale lì intrappolata nella materia delle cortecce e dei muschi e delle segrete anime di cristallo della roccia. In crisalidi invisibili agli occhi, proprio lì sotto e oltre il velo d’impenetrabilità dell’esistenza silicea non vivente, incubano ancora demoni angelici del ghiaccio, che mandano fiati al nostro passaggio, e così ci entrano nella pelle, ci raccontano quanto antica è una foresta, una conca nelle colline. Cercavo di ascoltare tutto questo. Ho trovato una scaglia di corno sul mio cammino, nascosta tra ghiaia e sassetti, bianchi, uova d’avvoltoi d’argento che vorrei veder volare ancora, sopra di noi, in cerchi che significano qualcosa di auspicabile: una morte che non sia più bruttura, non sia più il rumore da sarcofago d’una scorza che s’apre rivelando filamenti di roba bavosa e marcescente, e ragnatele simili a muco. Una morte che sia un cerchio, incantevole, delicato nel comporsi e ricomporsi in leggiadri voli, e forme di ragnatele simili a fiocchi di neve perfetti. Auspicio: in un delirio druidico che ho avuto, vedevo i druidi in piedi a leggere viscere, e voli d’uccelli: serpi rosa e avvoltoi d’argento che determinarono l’argine della diga, la fondazione dell’abitato e il mondo conosciuto, del villaggio, la rottura delle acque. Cercavo questo per nessuna ragione particolare. Se trovo i druidi non mi dicono niente e non sanno aiutarmi. Se trovo gli avvoltoi non mi dicono il presagio, non lo stesso che dissero ai druidi. Se trovo l’equilibrio di vita e morte nella forma d’un cerchio incantevole che compare nel cielo, posso star certo che in pochi secondi sarò come ero quando ancora non l’avevo visto. Cerco tutto questo e m’avvicino a un frammento di corno rifulgente nel biancore cieco e solare d’uova d’avvoltoi precipitate in chiazze di suolo terroso ed erboso, ma vengo distratto, infastidito dal frastuono nevrotico di una torma di motociclisti, mi ricordano che qui c’è una curva (la curva mi ricorda i Talking Heads che per caso ho ascoltato in un parcheggio, nonostante li ritenessi poco adatti a paesaggi forestali o montani -prima che m’apparisse un Byrne druido rivestito di sopracciglia canute di uomini-albero; ma questo non è cruciale: è cruciale la presenza di una curva, che fa sentir strani, e vagamente minacciati). Vennero poi i ciclisti, poi gli scalatori, poi le auto sormontate da fardelli legati in disordini tumorali sui tetti, tutte in fila. Tutte catene variamente caotiche che appaiono qui. La roccia mezza mangiata che fa da sfondo, lì dietro avvolta dall’asfalto serpeggiante, fa sembrare le loro ombre di passaggio sfumature di effimere pitture rupestri. Ma basta con la Storia. Se la incontro non mi dice niente. Mi rivolgo a un albero e al muschio e ai nidiacei di specie rapaci estinte per chiedere indicazioni: come posso cancellare l’inadeguatezza del mio senso d’orientamento e uscire dal bosco in maniera armonica col mio esserci stato dentro, come posso anzi diventare io stesso il bosco e smettere d’esserlo quando mi pare? Mi rispondono parlando d’altro, dicendo che più avanti c’è una radura da cui si gode una scena niente male. Ringrazio evitando di specificare che ovviamente non sarò mai in grado di interpretare precisamente le indicazioni.


……..Un taglialegna d’un popolo danzante e ubriaco sotto le disperazioni della luna, per sempre elogiate da fuochi campestri accesi sotto il cosmo, si reca in un luogo che conosce bene, alla sommità di un rilievo nella foresta. La vegetazione lì dirada, e può vedere tante cose: il cielo che cambia colore, un’unghia sottile di luna che nel chiarore ancora indugiante sembra rifulgere come una spada di folgore giunta da oltre il mare, di quelle che si diceva fossero portate dai mercanti bardati d’oro sulle coste, non molto lontane -e infatti vede anche quelle, manifestate da una striscia di blu opaco in un fondale di cielo oltre miglia e miglia d’alberi e campi; e vede stormi d’uccelli che perdono il comportamento di gruppo e lo recuperano, in ciascun intervallo tra i battiti d’ala, in ciascun intervallo tra i respiri; e vede la legna scombinata e i cespugli grattati in cui è passata un’orsa; e vede più acutamente d’ogni altra cosa pennacchi sottili di fumi vicini, caldi di petti e capanne, che potrebbe riconoscere, che potrebbe collocare nella geografia sua mentale. Un taglialegna così è esistito, e le sue gambe l’hanno condotto attraverso gli stessi luoghi finché non si sono spezzate in un inverno di rumori secchi e vecchiaia. Non ha mai visto un mammut. Ha visto gli uri. Li ha visti sia vivi che sognati.


===Voglio sognare le corna dei bovini che escono dal suolo forestale e crescono, ma voglio che sia un sogno in cui nessuna cosa acuminata e imponente del genere possa far paura. Spero di rivedere modi segreti di manifestarsi delle cose che ho visto, che ho immagazzinato. E m’hanno sconvolto, nel passaggio, viscere che non sapevo di avere. (come sia tornato dal bosco, come abbia imparato a diventarlo e smettere d’esserlo a mio piacimento, non ha importanza. Ne sono uscito ed esisto ancora per poter ricordare d’esserci stato. Chissà che non andassero a fare esattamente questo anche loro, tutti quei gruppi affaccendati sull’erta asfaltata, in quelle file insensate. La vita è le gite fuori porta e il ricordo che ne rimane. Il resto è nulla. File moribonde perché tutto lo è agli occhi di chi è capace di vedere oltre gli inganni del… scusa hai da accendere?, mi chiederebbe un druido interrompendo appena in tempo la mia riflessione esagerata e porgendomi un mazzo di erbe esoteriche. Roba buona: trasformata in fumo da inalare e lodare farebbero vedere, a me e a lui ugualmente ma con variazioni personali, la risposta unica a tutte le domande molteplici. Il grande quesito della pelle dismessa del serpente e delle geometrie che incastona al suo interno come misteri semitrasparenti, e tutti gli altri quesiti che in fondo -gli uomini del bosco lo sanno bene- sono solo una variazione di questo. E io sarei costretto a imbarazzarmi, anche con lui, proprio con lui -che figuraccia, che occasione sprecata- e dirgli che non fumo e purtroppo non posso proprio aiutarlo.)


……..Il taglialegna nei suoi giorni lontani se ne sta a osservare quel gran mucchio di cose esistenti per chissà quanto tempo. Nella sua personale fossa, scavata in un punto del petto perché è un essere scimmiesco e fisico e necessita di concettualizzare ogni idea coi pezzi del corpo suo prima che crollino, in questa sua nicchia infila e rimesce inconsapevolmente un liquido scuro e caldo a cui ancora non sa dare il nome di fede. E nelle increspature, prodotte dal movimento e dal fatto che non cessa di toccarla, si riflette, un po’ rimescolato nei suoi tratti, il volto d’una principessa segreta, alla quale l’uomo non sa di credere. Ma è lei che, almeno per quel giorno, si è risvegliata in un cuore della terra di boschi antichi ed è la sola divinità dei colli e monti che vengono traversati da due passi soltanto -e non sa nemmeno che, per qualcosa d’inspiegabile somigliante a un silenzio piombato all’improvviso su tutte le cose negli attimi prima d’un terremoto, sono spariti tutti gli altri girovaghi di quelle altitudini: raccoglitori di funghi, cacciatori, maghe esperte d’erbe, taglialegna come lui, giovani nudi, musicisti, tutti coloro che si recano in quei luoghi e possiedono certe parti del proprio spirito cucite direttamente alla materia delle basse montagne, cucite al loro odore bruno. Tutti spariti lasciando spoglie delicate di quiete, che fanno un velo. Solo un uomo le attraversa.


===Ho l’immagine inspiegabile e apparentemente sconnessa al tutto di una cesta che si spalanca liberando upupe, numerose in turbinii da farfalla. Un uccello troppo solare, danzante in miraggi torridi, per questi posti che ho visitato, dietro casa, salendo un po’ di quota dal lato opposto a quello del mare. Eppure devono esserci state, in qualche modo d’essere recondito del luogo, che il luogo stesso non sa di possedere -una sua piazza immateriale, d’avvenimenti spettrali. Io non so spiegare. So solo che salendo ancora si poteva vedere tutta la pianura sotto, le boscaglie minuscole e rade che un tempo s’aprivano per far volare via i fumi sottili di comignoli rudimentali e accampamenti, e per far respirare i campi, che si fanno argentei somigliando a laghi quadrati. In ogni riquadro e sbalzo di temperatura sono presenti, invisibili, upupe, mammut. Cose che escono da crisalidi.


……..Il taglialegna ama il colore di certe crisalidi. Sembrano infilzargli gli occhi con lame di linfa, con il fischio generato dallo sfregamento d’un filo d’erba. Ma quando pensa che in ciascuna di quelle gemme bulbose è custodita una larva palpitante, una trasformazione viscida, avverte un lungo formicolio attraverso l’intera mappa delle sue vene, e insieme un’eccitazione ineffabile, fuori da corpo e mente ma pur sempre sua -forse un pulsare ritmico proprio nella zona di confine tra i due, o anzi una linea in cui diventano la stessa cosa. Ma ovunque sia, gli pare d’avere dentro per istanti brevissimi, che lo lasciano sempre sfinito, una qualche specie di creatura appena svegliata. Strattona un muso nell’oscurità. Che gli dice d’inchinarsi al passaggio del cinghiale e di lasciare che s’apra una voragine nel respiro quando vede l’alba e il tramonto, o soltanto una vertigine guardando dall’alto i colli e la loro foresta in un momento come quello, di metà mattinata. Il taglialegna si siede sull’erba, collocando accanto a sé il fascio di rami che unisce la propria ombra alla sua, alla maniera di una mansueta bestia da soma o da compagnia, in condivisione del riposo. Giungono passi. Sembrano pioggia veloce che picchietti sorprendendo con uno scroscio imprevedibile su una radura in cima. Tentennanti come di qualcosa che stia apprendendo in quel momento a camminare, o stia sciogliendo un torpore millenario dai muscoli. Giungono passi che fanno rumore, ma senza peso, di qualcosa che forse ha un fisico quasi solo per bellezza, o per simbolismo. E immediatamente gli è accanto, in piedi mentre seduto ancora guarda le distese sfumate, simili a nebbia di terra. Dice, senza connotazione alcuna, quasi nel modo immediato in cui un gallo canta, una sola parola: Demone. E annuisce dicendolo, facendo dondolare i baffi con aria sapiente. E la principessa delle cose fredde, anzi senza temperatura, incurva le labbra e assottiglia gli occhi cavi.

===Un demone con ali di ghiaccio bianco, lo vedo vivido come potessi toccarlo e sentire una musica crepitata dal mio dito che affonda nella sua trasparenza. Facciamo così: chiudo gli occhi e mi avventuro in uno dei luoghi in cui sono certo di esser passato. Sfiorata coi fianchi mentre marciavo nel fitto: caverna dall’entrata coperta. Tunnel chilometrici dentro la terra. E in una nicchia, un demone con le ali di ghiaccio bianco s’avviluppa il corpo androgino nudo nelle ali, e sgusciandole poi dal dorso per risvegliarsi tutto intorpidito scocca un contrappunto di rumori ora secchi ora scricchiolanti, un ridisegnarsi delle frastagliate linee d’un pack polare. S’avvicina dal tunnel mentale scavato in una qualche oscurità in cui mi si è palesato, dalla sua caverna gelata, e mi mette sulla spalla una fila di dita di ghiaccioli: mi chiede, come stai? Ma tu chi sei in realtà? E altre domande. Non attende risposta. Sembra sorridere, forse. Doveva solo chiedere. Torna nella sua alcova scavata nel gelo. Ma stavolta non cade in letargo. È sonnacchioso, è ridotto, come rimpicciolito nei suoi poteri, e necessita di lunghe ore di recupero. È bello osservare mentre diventa una virgola, le ali che nelle loro moltitudini di scaglie si ritraggono progressivamente rispedendo nell’aria gli stessi rumori. Sono contento di aver visto un demone così, che mi ha seguito, nascondendosi nell’ombra, dopo che ho visitato la natura dell’autunno dei luoghi non lontani, dei luoghi dei celti peninsulari e d’altri spettri di Storia che non so nominare, se non chiamandoli “Storia” e così cancellandoli in un guazzabuglio riduttivo e spietato -ma un grido ancora rimane di anime che diventano singole nel sottosuolo, e che hanno ancora una voce per chi decide di ricordarsene pur non sapendone il nome e la faccia e il colore che li commuoveva e il loro animale guida. Sono contento d’aver incontrato una traccia dei ricordi in cui ho camminato con la mente altrove, sapendo che tutto quanto viene vissuto solo dopo che è passato. Certo non ho incontrato un avvoltoio, che m’avrebbe fatto contento, m’avrebbe salvato la vita addirittura -per pochi minuti. Ma anche così va bene.


……..Vieni con me!, gli urla la fata alta, partorita da sorgenti segrete della roccia. Afferra la mano del taglialegna, e vuole trascinarlo a mostrargli chissà cosa. Il taglialegna sembra seccato, poi accondiscendente. Poi seccato di nuovo: una decina di passi e fa capire cortesemente che non vuole essere trascinato, non ha particolare interesse a vedere nulla. La principessa sembra offesa, o piuttosto sforzarsi di sembrarlo. Io devo essere riverita, dice, e tu sarai quello che mi porterà al villaggio, rendendomi esplicita per la prima volta. Conversano per un po’, per quel che riescono -si esprimono in lingue mal assortite. Il dilemma verte sulla volgarità di dover esplicitare una fede, ma la principessa ci tiene a precisare che la sua non è affatto vanagloria. C’è una missione, un qualcosa d’importante da concretare negli animi e nei linguaggi della gente. Alla parola "missione" il taglialegna rabbrividisce. Allora all’improvviso la principessa gli afferra un braccio, gli accarezza il gomito. Dicendogli che lei, dalle punte delle sue dita più antiche delle montagne, è capace di spargere brividi diversi, è capace di risvegliarli nei corpi dei viventi. E dal gomito al cervello il taglialegna, quasi svenendo, sente le carezze di lei trasformarsi in miriadi di campi di crisalidi verdi, come prati di luce esplosi uno dopo l’altro nelle strade dentro di sé. La guarda, lacrimando. Vede il suo volto terrificante, a lungo si immerge nell’assenza nera incorniciata dalle forme ricurve degli occhi di lei. E in silenzio accondiscende, con un solo cenno del capo. Sarà soltanto per pochi attimi, dice lei come a rassicurarlo e rabbonirlo. Lui annuisce, ma aveva già acconsentito, annuisce solo perché il suo corpo è diventato un fantoccio stupido e inerme. E così, si fa trascinare e la trascina e la insegue, inscenando pantomime con lei, per il volere di lei, che è come una bimba desiderosa di giocare, o come una solenne primissima regina del popolo e di tutti i suoi antenati morti nel freddo, nell’assenza di temperatura, nell’assideramento cosmico in cui galleggia tutta quella palla di terra sulla quale umani e bestie si affaccendano. Erano un popolo nato da chi aveva superato l’estinzione, la cancellazione, l’unificazione con quel cosmo di ghiaccio nero, dall’altra parte del velo, del cerchio nero che tutti temono e vagamente conoscono dentro di loro, ma di cui nessuno sa definire nulla. Non si può conoscerne l’aldilà. E ancora commosso e rintontito il taglialegna pensa ai suoi campi verdi perché non ha di meglio dove andare per fuggire dall’idea del buco nero; pensa ai campi di bozzoli e quadrupedi divini, e uccelli solari oppure lugubri e necrofagi disegnatori di ombre dalle nuvole alte. E pensandoci balza, seguendo le indicazioni di lei: creano una leggenda in cui lui, scorgendola a bagnarsi di sole in una radura discendente su un fianco del pendio, tenta di avvicinarsi e carpirle un segreto. Ma lei gli sfugge e infine lo trasforma in un immobile tronco mezzo spezzato, ricoperto di muschio. Con occhi di lichene sulle guglie del legno frastagliato avrebbe per sempre osservato i mutamenti del cielo. Mentre gioca, inventando questa scenetta che diventerà un mito che sparirà in un oblio inevitabile, i loro piedi tonfano sull’erba, sulla terra umida là sotto, su tutte le cose, e le farfalle si sollevano da quel luogo, trasportando polline sulle ali fragili ed emolinfa scricchiolante nei corpi già pronti a sparire. È un rumore libero nella quiete che ha avvolto ogni cosa dal principio di quella strana mattinata lucente.


===I rumori dell’essere rannicchiato ne contengono uno, infilzato tra tutti, mi pare un’aurora incastonata dentro un pezzo d’iceberg precipitante verso un fondale, d’un oceano o d’un lago grande quanto un oceano. Qualcosa, un’orca forse o un mostro sopravvissuto fin dai recessi sulfurei di un tempo cancellato, viene temporaneamente illuminato da uno di quei bagliori d’aurora nascosti, nel suo nuoto nero di respiri custoditi in polmoni grandi quanto castelli. E sulla superficie ondeggiano piroghe che temono d’affondare. E il rumore che c’è là sotto, nel fondale, è quello di tutte le cose che si rannicchiano, è uno scricchiolio di sangue che non vuol fuoriuscire, non vuole conoscere il mondo, vuole per sempre nutrire e riscaldare internamente. Mi sembra di vedere nell’essere rannicchiato, giunto nei miei pensieri attraverso peregrinazioni proiettate da un lungo sonno, qualcosa di vicino. Nemmeno i demoni hanno poi tanta voglia di esistere. All’improvviso perdo un po’ dell’incanto reverenziale che me lo faceva guardare per ore immobili come fosse stato la nascita ipnotica e indifferente degli spigoli d’un diamante, degli occhi sulla coda iridescente di un uccello selvatico, della corolla d’un fiore. E con che rimango? Ovviamente con un senso di smarrimento. L’arredamento di questa grotta mentale, in cui incubano e tornano in grembi di non-nascita anche i demoni e gli dei, è piuttosto scarno. Mentre quello se ne sta là, a sognare un’eternità di sonno proprio come faccio io quando esagero a tal punto da sognarmelo e vedermelo davanti come in questo momento, non so che fare con queste stupide mani che mi penzolano in fondo alle braccia, e sembrano guardarmi e dirmi “embé”, ebbene chiudete il becco. Ci sto pensando. Ma non posso far altro che limitarmi a scuoterle, mettermele dietro la nuca e guardarmi intorno, cercando di capire se l’essere addormentato, in questi momenti in cui mi assomiglia (mi sta facendo un favore e io non lo capisco?), si aspetta che io dica qualcosa o se posso cavarmela standomene zitto. Che fare? Che gesti?


……..Inscenano insieme tanti miti. Non l’ha condotta giù al villaggio, per farla vedere, per farle impartire ordini, ai quali avrebbero risposto tante forme somiglianti a lei, di ridotte dimensioni, che sarebbero nate da tutte le grotte e le sorgenti vicine per fare un’assemblea di fate attorno a una sovrana. Questo non sarebbe successo, no, ma lei non sta in ansia per questo, sembra confidare in qualcosa di misterioso. Lui non osa dir nulla. In pochi minuti ha impersonato più uomini e racconti di quanti sia mai riuscito a immaginarne fino a quel momento: stolti o prodi o corrotti o cupidi o fragili, e ha ricevuto punizioni o attraversato metamorfosi di sofferenza, ogni strattone della propria carne larvale dentro il bozzolo reso per sempre dolorante attraverso l’ereditarietà delle storie, la sofferenza degli esseri in cui s’era trasformato resuscitata ogni volta che veniva raccontata, creando affluenti, biforcazioni, rami, fili divergenti in reti tessute, tutti differenziantisi da un’unica sorgente. Principessa sorgente. Accanto a lui su una collina. Ad accarezzargli i capelli, come faceva in una di quelle storie in cui era una fanciulla, e lui uno stupido ammasso di ormoni e muscoli destinato a soccombere nell’apprendere i limiti e gli affanni del desiderio. Nessun significato in quei gesti: solo brividi, e a ogni tocco gli fa nascere crisalidi nei radi capelli bruni. Il sole discende sopra di loro, mezzi addormentati -lui nel sonno non si accorgerà della partenza di lei, principessa di ragnatele e di acque di grotta-, mentre placidamente si radunano, in compagnia del fascio di legna da ardere, le altre creature, che seguivano i passi del taglialegna attraverso la montagna, e sembrano tutte godere di un identico riposo in quel momento di quel giorno senza spiegazioni, d’avvenimenti febbrili.


===Sogno nel letto di casa, nell’odore terroso di vestiti smessi che ho dimenticato di occultare, che dalle castagne cadute al suolo si levino bovini di legno. Balza da una vegetazione priva di luci intense, collocata su un poggio un po’ discosto in una fresca oscurità, una tigre delle zone boreali. Le vibrisse sono altro ghiaccio rimpicciolito e ridotto a linee che si lanciano nel vuoto e nel cielo dove diventano certamente costellazioni.


……..C’è un taglialegna pagano che si siede su una collina che conosce bene, accanto a guide animali che l’accompagnano spesso. Vede le stelle che compaiono nel cielo sopra di lui.


===Trovo un buco nel ventre agonizzante d’un tempo lunghissimo che crede di separare tutte le cose. I druidi le ricongiungono. Ci entro e vedo il taglialegna che guarda il cielo. Vengo a sedermi accanto. Mi dispiace però. Non poterci intendere che a gesti ignoti tanto a me quanto a lui. Le scene così della vita somigliano a un cesto inspiegabile d’upupe che s’apre e produce un frullare d’ali che è una libertà senza senso. Ma anche in scene così assurde guardiamo il cielo di notte.


……..La principessa è partita e nessuno la vede. Sembra di sentirla, che mormora facendosi ricevere da un organo d’acqua nascosto negli esseri. Sanno che c’è. Ma non dove è andata e come abbia fatto ad andarsene. È evaporata e si è lasciata risucchiare dall’atmosfera. Ma no, è più facile immaginarsela che vola -il taglialegna, essere fisico di concetti fisici, si immagina, nel cielo cui tende il naso, che quell’alone fumoso e quasi assente, visibile tra spolverate di stelle, sia una corrente in cui si riversano delle striature di luce cristallina e appena percettibile, che un tempo, decide, erano state il corpo di lei. Che insomma lo guarda ancora mentre vola, lassù tra vuoti neri, tra costellazioni di cinghiali e uccelli sacri e ragnatele. Nulla vieta a un taglialegna del genere, quasi immobile in una giornata strana e tramontata, d’inventarsi un sogno in cui anche in quel mondo incomprensibile che è la volta notturna esistano sorgenti che gorgogliano delicatamente, e cristalli perfetti che sembrano tessuti da aracnidi, e altre cose che hanno bisogno di lei, della sua protezione.


===Sogno la notte dentro il folto, dentro le anime dei sassi e dei cristalli -perché voglio proteggermi dall’agitazione. Voglio cadere su una ragnatela gigante tesa tra due robuste felci, e diventare i suoi incroci quando formano spirali dolcemente rannicchiate, un sonno di filo sottile, imbevuto di rugiade perlacee, di polvere caduta da qualcosa che si è sgretolato ed è diventato brezza selvatica.


……..Quando il taglialegna scende dai monti consacrati a una divinità di arco frecce e piume marroni lo fa perché vuole sentire un alone caldo attorno a quello freddo che preme le ossa dall’interno. Così da continuare nella forma di una lotta, invisibile nell’aria e nel corpo, quella tensione ineffabile contenuta nei giochi da bambini in cui si era immerso, quasi a rinascerne battezzato d’un rito che poteva solo accettare senza capire. E quella tensione narrativa esiste ancora, nelle ginocchia tremanti a ogni passo nell’ombra densa che avvolge ogni cosa attorno ai boschi e le strade di villaggio, nella schermaglia dei denti deboli. Era stato battezzato, era uscito diverso: era stato seduto sulla rugiada che diventava ghiacciata, fradicio fuori e dentro davanti a un cielo che non respirava, non gli riscaldava col fiato vivo le articolazioni. Doveva essere così la vita di una pianta. Dovevano essere passati diversi giorni, che erano tutti sembrati una notte -forse la cosa meno strana, tra tutti quegli avvenimenti che ora gli apparivano nella mente immobili e separati, muti e solenni, statue rappresentanti spiriti. C’era solo il ritorno, e i tonfi e i soffi di bufera imminente di quel momento, e una figura confusa che sembrava essergli apparsa accanto, ma senza esserne certo. Forse solo una macchia più scura del cielo, gesticolante verso le stelle o chissà cosa, solo una tra le tante specie un po’ spettrali che avevano preso a circolare nell’atmosfera sulla cima del pendio. Sparita anche quella. Solo brividi che s’accumulano uno sopra l’altro. Anche davanti alla soglia della sua abitazione, balzatagli di fronte eliminando distanze, gli sembra, destandosi all’improvviso dai pensieri. Scarica e appoggia a una parete un carico di legna rimasto uguale a com’era prima che salisse, e apre la porta distrattamente, senza far caso alla stranezza di trovare le finestre pulsanti d’una luce accesa, pronta ad accogliere il suo ritorno in una dimora totalmente vuota. Il sonno, calato su di lui in un’unica coltre come fosse l’insieme dei giorni scomparsi nella sua lunga fantasticheria d’altura, vince sulla capacità di dubitare.


===Dormire in una ragnatela fino a ridursi a un punto. Vorrei poter condensare la vita in una forma semplice che basta a se stessa. Ma senza eccesso di semplicità. Ogni parte in un punto: più governabile, ma ancora complesso.


……..Il taglialegna si precipita verso il materasso roccioso accostato a una parete in fondo, dove prima d’addormentarsi ingloba ogni volta in grandi boccate l’odore della materia vegetale varia, intrecciata e compattata dal fango per comporre la muratura. Discosta le coperte perché possano accoglierlo e con un singolo noncurante volo di braccio procede a spegnere tutti i lumi accesi, senza chieder loro niente.


===Vedo il gesto del dio che con una mano esiliò i demoni del ghiaccio in un sonno ininterrotto, che è una linea, che è stringa fantasma di punti uno appresso all’altro, per creare le ere, separare i ghiacci dai soffi roventi nell’aria. Ci separa, demone di ragnatela di sonno glaciale, una fitta atmosfera d’entropia disseminata da pezzi sgretolati del tempo.


……..Dorme e il suo sonno è un rumore che non si può misurare, dorme e il suo sonno è un rumore, dorme e il suo sonno è un rumore che non si può misurare un rumore che non si può misurare un rumore che non si può misurare……..


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