dove c'era un paguro- capitolo 9
- Milky
- 18 gen 2023
- Tempo di lettura: 14 min
Aggiornamento: 19 gen 2023
9
Trovò certi esserini che non aveva mai visto, seppe subito che erano figli dell’isola -fratelli!, avrebbe potuto pensare. Corse sulle onde fredde che la raggiungevano per salutarla, facendole male. In una famiglia ci sono fratelli e sorelle dal carattere impetuoso e bisogna trovar loro un posto -accettare, capire che le cose vivono e sono incontrollabili: così dicono anche le storie più antiche, disegnando divinità che risplendono, fanno capricci, s’ergono giganti su piane di spuma. Si separarono le acque nelle loro parti e c’erano ninfe della schiuma, tutte le loro gesta note a tutte le bambine. E le sentì farsi consistenza, uscite dal mito. Dal mare. Consanguineità con la terra. Le increspature gettate ripetutamente sulla battigia, ricreanti in eterno ciclo le loro fughe a cavallo d’ippocampi per come erano state raccontate millenni fa, le entrarono nei piedi gelandoli, e per reazione dentro lei rispose il calore subito intento a disciogliersi ovunque, per raggiungere quelle ondate e baciarle. Come per gioco esagerò i gesti delle mani nel massaggiarsi da sola, per disegnarsi addosso e dentro, con gesto di sorella, i cerchi della luna e del sole. Giocava a fare la pazza e tutti i suoi passi facevano saltare malloppi di sabbia melmosa, globi acquosi subito sfranti in minuscoli pianetoidi di spuma. Correva e saltava poi perché le vibrazioni del terreno, della stessa sua argilla e battente dello stesso cuore, si trasmettessero alle zampette di quei tre animali seminascosti, che camminavano fitti, protetti, con occhi neri di eremita. Senza averli mai visti prima li seppe legati a quegli uomini, un destino che incatenava tutte le loro conchiglie in una collana.
(S’immaginò in una sera trascorsa, ancora viva in lei -le sere e i giorni sono una pallottola appiccicosa di spiaggia fradicia chirurgicamente estrapolata dallo spazio, che rimane da qualche parte altrove con un corpaccione sdraiato convalescente. La manipola come le piace. Si vide avanzare come uno spettro perlaceo di luna, rivestendosi dei veli conferiti a lei dall’alto cielo proprio dalle stesse forme emigrate lassù delle ninfe turbolente della schiuma, e le ninfe gemelle dell’instabile calma blu e nera che l’onda raggruppa prima dei frangenti. L’uomo che l’aveva ripetutamente sfiorata, credendo invece di toccarla e quasi d’infilarle dentro una mano come a portarle via i tesori e le perle dalle ostriche celate nelle sue stanze interne, la guardava ora come fosse un incubo giunto alla vita percorrendo una via lattiginosa di mistero e imponderabili modi d’esistere, respirare, farsi vedere nel mondo. Nella faccia sudata di vagabondo del mare c’erano domanda sgretolata di fronte all’erosione provocata dalla certezza che non ci sono risposte, un cimitero di navi ridotte a relitti interamente ricoperti di alghe simili a polvere muschiosa uniforme, respiri di batteri iridescenti. Grondando sudore e un brivido scriteriato -quasi avesse l’epidemia racchiusa dai germi che nemmeno s’accorgeva di star immaginando con timore anticipatorio- accettava, perché non poteva far altro e il suo corpo senza bussola non riusciva a trovar motivo di non porgere in avanti la mano aperta, riceveva il ciondolo che lei in quel sogno di luna aveva creato per lui: un pegno come quello delle innamorate nelle belle e brutte sere sotto i tramonti, madri d’amori eterni e cuori spezzati e cose che devono esserci ogni volta che l’isola si sveglia e si riaddormenta. Il ciondolo è una collana nella cui liana sottile stanno aggrappati, allineando i fori della loro rottura, i gusci spiraleggianti di tanti strani granchietti. Simili a tristi dentini da latte in bocche d’uomini fatti, anzi disfatti, denti da latte d’altrettanto numerosi teschi che teneramente ticchettano oscillando lì, insieme.)
Saltava sulle rocce prendendo una direzione tracciata per lei da qualcos’altro, da un istinto che non ricordava d’aver mai individuato, sempre obbedendo però ai suoi estranianti segnali. A volte, da un folto fogliame fluttuante come una nube in piccoli spicchi di cielo sopra la foresta, vedeva alzarsi giavellotti di fulmini invisibili, quasi che anche nella luce diurna potesse esistere un’elettricità segreta, un infuriarsi inconsulto dell’aria.
(Si incazza l’aria distillando fiamme e fulmini, si incazza tutto, il diavolo esiste, ho paura che esista, ho paura che stia in agguato là fuori ovunque per me e complotti per imprigionarmi negli artigli -così aveva sentito mormorare un uomo senza dio e senza spirito che tuttavia si scopriva ossessionato dall’inferno, durante una febbre destinata all’oblio.)
Saltando sulle rocce prendeva un percorso che la portava ad allontanarsi progressivamente dallo scroscio della risacca, ricevendo gli ultimi colpi di tromba di fuoco dalla musica del risveglio disciolta e riverberata infinitamente attraverso le particelle dell’acqua sconfinata. Un sangue albeggiante nel sale.
Il mattino dopo una lunga notte. Veder resuscitare nel cielo un fuoco dimenticato, esplode sotto, tra di noi. Sulla spiaggia lucida s’amplificano i colori. Rinvigorita dal mattino di luce, la ragazza che aveva trascorso la notte dimenticando di osservare i confini tra i suoi pigri oppiacei sogni e gli avvenimenti vissuti da quelli che, disperati, erano fin troppo convinti di trovarsi nella costante possibilità del pericolo e non all’interno di un sogno, ricordando confusamente tutto questo ne faceva un’ennesima macchia di colore, una palla in cui tutto era compresso, per nulla dissimile dal ricordo di uno sciame di insetti variopinti che aveva incontrato, un giorno di chissà quando -forse era una bambina-, tra un gruppo di arbusti coriacei e un insieme di rocce in processione sul mare dopo aver pranzato coi frutti e il miele prodotti dal suolo, ed essersi diretta verso un fascio di saette incorporee sopra le piante e le rocce, simile a un mazzetto di spighe. Forse anche allora aveva passeggiato, in cerchi infiniti lungo il perimetro di tutta l’isola, perché era il modo di sentirsi insieme a lei e bambina sua, con la pelle rimasta tutta viscosa e gialla, sentiva le gocce dense farsi bollenti per la calura di mezzogiorno, per quella che le ribolliva dentro provocandole sonnolenza, per quegli stessi insetti che danzavano rumorosamente e quasi volevano ipnotizzarla.
Con un ramo tracciò sulla sabbia prima d’allontanarsene delle figure: degli stecchi, che sprigionano zampe, che diventano insetti; degli insetti, che da minimali macchioline ronzanti disegnate per massima astrazione diventano più complessi, e l’esoscheletro diventa un guscio; tutto poi cancellato da calci e manate, per riscrivere le forme di uomini, stecchi in piedi, piccini che non sanno dove andarsene sulla grande distesa di sabbia. Chissà dov’erano. Sarebbero dovuti partire per proseguire il loro viaggio. Senza portar con sé nessuna provvista. Nemmeno il miele, estratto con le sue mani ladre esperte dalle cavità, che lei avrebbe potuto offrir loro. Nemmeno un’immagine di tutto quello sciame che lei si portava dentro compresso e colorato, nemmeno un fantasma della notte intera in cui aveva visto d’uno di loro gli antri segreti, e le bestie che ci ringhiavano dentro in attesa di uscire a caccia un’altra notte.
(“Caro Hr”. Per te soltanto avrei potuto ricordare il tuo nome, per veder la tua faccia nel sentirti chiamare un’ultima volta, dentro una scena di te che ti distruggi su un letto di scogli, di te che diventi il personaggio d’un incubo che finisce o d’un mito in cui l’uomo, sbagliando, muore, finalmente. Finisci sulla spiaggia dove sono morti tutti i tuoi compagni che il tuo amico, come mi hai detto, vuole resuscitare, sfidando l’ineluttabile, raccogliendo gli impossibili chicchi di sabbia infiniti per ricomporre i crani, quelle conchiglie ormai vuote, quel posto dove c’era uno di quegli animaletti che ho visto, eremita, insetto di rosso fuoco sangue fiore ferita che ho sulla gamba per aver corso troppo tra rocce scogli spine. Per aver toccato te per aver conosciuto te. E sarei disposta a dirti “Hr”, solo per vedere quella faccia che sorride e non sa come sorridere, nel momento in cui muore e sente di venir creata, d’essere esistita, solo perché stramazzando può per un’ultima volta sentirsi pervadere da un grido che suona “io”, impossibile insonorizzarlo quando echeggia e straripa dai suoi confini, crea la roboante illusione di tamburi tribali nei timpani di rendere sopportabile la morte. Ma tu, nemmeno s’io avessi un nome, o m’importasse qualcosa di essere un “io” che cammina e corre e sguazza credendosi ogni momento separato dalla terra, dall’acqua là sotto -nemmeno se assomigliassi a te, a voi, a tutto il mondo lontano dalle cui coste la vostra gente si è buttata a lacerare i mari con le imbarcazioni troppo grandi simili a giganti murene di corallo, mi chiederesti mai il mio nome. In una notte ho sentito te, in una notte quando mi sono avvicinata per contenerti e hai urlato, non potendo far altro, mentre ti afferravo.)
S’inerpicò su un leggero pendio seminascosto da strane conformazioni di cespugli eccessivamente rigonfi di spine, di minacce violacee distribuite nelle livree di foglie e petali. Continuò per quella via che sotto i piedi le diceva di correre sparendo lontano dal pavimento mosaicato di riflessi albeggianti imprigionati nei chicchi di sabbia come dentro prismatiche trappole in vetro, dileguò i passi veloci seguiti dall’ombra oltre le soglie di fasci legnosi sparpagliati al suolo che salendo prendeva a riempirsi di sassolini, terriccio, piccoli steli respiranti in rantoli affaticati nella secchezza. Si tuffò tra il frusciare inquieto di creature che lì potevano correre senza ferirsi, o indifferenti alle ferite. Salì attraverso la calura sempre più accesa, in direzione contraria all’alba, corse veloce e agile sollevando rintocchi di sterpaglie spezzate. Sollevando fragranze di ginepro e mirto, di polvere d’ignota origine nevicata su nidi di serpenti e lucertole infilati a fondo nell’oscurità multifocale dentro i cespugli.
(Tu non sei da meno di tutte le altre tu sei tutte le altre voi avete al centro di voi stesse una goccia di sangue ferma protetta al sicuro. Quella siete voi. Non è che non ci siete. Ma siete una goccia immersa in un grande mare rosso. Ricordatevelo. Ricordatevelo quando guardate l’alba e non sapete non capite e il vostro respiro si perde frangendosi in grappoli d’aria confusa quando sale ed esce e rientra e ammutolisce di fronte a quel colore proveniente dal cielo che non ha spiegazione che vi spaventa quasi. E ricorderete che siete della stessa materia sì anche con gli astri con le cose che succedono lassù. Le cose che succedono lassù succedono qua. Vedete un’altra striscia che s’allinea all’orizzonte quando i cieli infiammati dell’alba e del tramonto si uniscono al mare o alle montagne. E sapete che in quella linea si toccano e toccandosi diventano lo stesso. Voi tutte siete gocce già parte di quell’incontro e di tutti gli altri incontri di tutto ciò che avete abilità di vedere cioè tutto ciò che esiste qua cioè voi.)
(e non dovete temere mai.)
(e in qualsiasi momento rivedrete voi stesse e tutto quanto. Anche chiudendo gli occhi e immergendovi in voi. Quello è il buio dentro tutto. Rimbombante del battito dentro tutto.)
(A tutte, prima o poi, la regina aveva raccontato simili cose, come le facesse addormentare con una fiaba da buonanotte senza pause, scrosciante sulle loro palpebre in un flusso quasi dorato. Sentendo incise in una parte profonda di sé delle parole, scaturite dai ricordi di quel contatto più caldo del fuoco primigenio custodito negli astri, avrebbero dovuto trovare la forza. Non sapevano per fare cosa, ma era forza. E funzionava quella preghiera. Le aveva portate a superare l’adolescenza e la voglia di morte sorta il primo giorno di confusione sotto il sole, il primo giorno attraverso una soglia. Corri per l’isola, spirito di figlia libera!, schiaccia coi tuoi passi i rametti e i sassi che ti conducono dove esiste una cosa chiamata “altra parte”; con la forza della preghiera della madre comune a tutte erano riuscite a uscire, come avrebbero fatto tutte quelle dopo di loro, dal sarcofago goffo della vecchia pelle, cieca, ignara di se stessa e della propria sostanza. Nel futuro nel presente nel momento unico del tutto simile a un sole simile a un isola di rosso fuoco galleggiante in eterno al centro d’un cosmo ristretto ma vastissimo e profondo e perfetto, esisteva una sola cosa: tu, tutto. Grazie mamma. Sempre così a pregare fino alla fine, la fine che sappiamo già ci sarà. E sarà un bel giorno, sarà una bella esplosione, che noi ameremo come abbiamo amato nascere e sporcarci e vivere e come ameremo morire. E la disintegrazione sarà amata in maniera in una maniera tanto diversa dall’amore confuso, agonizzante in tante sue membra, che si sarebbe sostituito per intero al nostro essere se in quel momento di pulsione di tomba e vuoto non ci avessi salvate. Ricordandoci che è scritto nella sabbia e già cancellato e già riscritto che supereremo, che andremo dall’altra parte, se non ci agguanta prima la malattia.)
(Chi nasce in quest’isola non può suicidarsi. Chi la invade da lontano può trovarvi la morte in tante specie diverse, così strane e impossibili da mappare sulle carte destinate ai naturalisti del métropole, che si prova lo stesso sgomento apparso nell’incontro coi marsupiali e i rettili antichi, lo stesso dubbio d’esser entrati nella terra dei pazzi. Il dubbio insolubile che quelle forme siano state cercate consapevolmente o per totale e inerte arrendevolezza alle fauci fameliche del caso.)
Il terreno si apriva in crepe fredde fuoriuscenti in porzioni limitate di suolo dallo strato incrostante di ghiaia bianca ed erba verde sbiadita. Le irregolarità e i burroni del sentiero in salita non erano visibili dalla spiaggia, grazie a un resiliente schermo costituito dal massiccio di roccia grigioscura simile a lava che dava a getto sul mare e dagli alberi, con le loro alte ombre che parevano spiovere in oscure e fotosintetiche tendine dai puntolini riverberanti di luce e incerta nerezza costellanti le profondità nel folto delle chiome. Entrando nel posto invisibile, la ragazza selvaggia in corsa sentiva cantare cicale di anormale grandezza, grasse palle di metallo animale, costringevano a cantare le cose che non avevano mai avuto una voce -con tutti i pori del corpo, spalancati come corolle di microscopica carne, riceveva e ascoltava la canzone dei frutti scorzosi, degli aculei, delle schiume rutilanti sparse dai fluidi vegetali dischiusi forzosamente dalla pressione del mondo sulle cose silenziose e inerti del giorno appena nato, pronte a sfinirsi e consumarsi in eterno ed estenuante ciclo per tutta la permanenza del sole, fino alla fine del pomeriggio torrido. Una canzone d’accettazione di cose gigantesche e intollerabili che a sua volta poteva essere tollerata solo ascoltandola per metà, solo correndoci dentro e schermendosi con un vento artificiale, sferzante sul sudore in lievi frustate fredde. Il primo gradino erboso della radura accolse il suo balzo con un tonfo di percussioni che pose fine al canto impazzito sopra i suoi passi, le orme abbandonate dietro e già ricoperte di radici brulicanti e fermentazioni minuscole e cose che non riuscivano a non contorcersi in danza espiatoria di tutti i peccati commessi dalla calura e la sua persistenza.
(Non sei unica e stai per entrare, come entrano tutte, nella parte della vita in cui tutto è riflesso della tua splendida ordinarietà, la poesia della tua consistenza identica a ogni altra particella dell’isola. Stai per attraversare la soglia che ti porterà da quella parte dell’isola in cui sarai cosciente, finalmente, senza ostacoli nel tuo saperti suolo, muschio, fanghiglia, sabbia, umidità e aridità. -questo volevano dire le parabole della regina, mai pronunciate, che tuttavia continuavano a rimbombarle nel cuore come avesse ingoiato un frammento di vetro in cui permanesse eternamente riflesso il volto bidimensionale della regina, ritratto in incessante movimento delle labbra dischiudentisi in suoni di voce soave, parevano intessere grappoli d’una tela nascosta che calava per ammantare ogni cosa. Ma in certi momenti, la regina aggiungeva qualcos’altro a quella dottrina, dei post scriptum distribuiti con parsimonia. E la ragazza -sicuramente come tutte le altre, perché così dovevano credere, questa era la fede- sentiva in quei momenti che, proprio per lei, la regina schiudesse dalla schiena un suo doppio più umano, un’ombra della ragazza originaria che anche lei era stata, che ritornava dal placido oltretomba della cancellazione temporale soltanto per concedere a lei, lei soltanto, figlia e sorella, qualche commento consolatorio, delle pacche provenienti da una che poteva capirla.)
(Sei una che sta per entrare in quella parte di vita e di isola in cui non è più “una”, è solo tante, ma, sappi, da qualche parte rimane ciò che sei stata. L’isola non dimentica. E tu devi anche sapere questo per poter accettare di non saperlo più. Il tuo corpo altrimenti reagirebbe. Deve sentire che un pezzo di sé è al sicuro, come provviste lasciate sotto il fogliame di un posticino trovato da un animaletto indaffarato a traslocar di tana, deve sentire prima di fare un passo verso una nuova forma di vuoto che le vecchie forme di vuoto sono custodite da qualche parte. E allora ti dico che nel suolo dell’isola c’è tutto, solo che è spesso difficile rinvenirlo, distinguerlo. E ci saranno anche il tuo animo buono ed eternamente paziente, l’ironia dei tuoi occhi, la sveltezza di mani e piedi che ha confezionato furtarelli aggraziati e dispettosi al tempo stesso già dai primi giochi infantili, e la corsa tua felice, i balzi, il coraggio che avevi nell’avvicinarti a toccare anche gli animali più pericolosi, le creature tormentate che in agonia lanciano un grido nel buio. Staranno, tutte queste cose, nella sabbia là sotto, con i carapaci dei crostacei sprofondati, le piccole ossa, l’acqua, minerali onnipresenti, il calore delle cose non vive proveniente da incandescenze insondabili. Sei archiviata in un ventre, che in realtà è il tuo. Non dimenticarlo mai.)
La radura era morbida e respirava a fondo a un ritmo accelerato, come se anche il tappeto erboso percepisse la differente composizione atmosferica nella leggera altitudine del primo rilievo rilevante dell’isola. Da lì in poi, s’aprivano le radure di montagna, l’entroterra montuoso dell’isola che la ragazza aveva raggiunto correndo a una velocità inconsapevole, come il vento. Le esalazioni degli steli roridi e virescenti solleticavano gli spazi tra le dita dei piedi affondanti nel terriccio. La ragazza, che qualcuno aveva chiamato ladruncola, non dimenticava mai: quella sua memoria sarebbe rimasta intatta nel momento in cui veniva dimenticata. Il rituale veniva a compimento: lo vedeva nelle cose che esistevano nel luogo raggiunto seguendo la guida di un istinto che sconquassava dentro lei le pareti delle vene e dei sentimenti più semplici, che aveva, nella sua vista quasi accecata dal movimento, disegnato tratto per tratto percorsi nuovi, le erano apparsi nell’istante stesso in cui le orme sue li calcavano, eppure non appena ciò avveniva, sembravano esser stati già scavati da ere intere secondo una forma incisa originariamente nella terra. La contraddizione mandava tamburi dall’oscurità dentro lei, facendole rimbombare i confini di carne, contro i confini di cielo estesi tutt’attorno.
(Sei pronta, figlia mia! Mia bella ladruncola, a cui mando il mio ultimo bacio. Solo per te, solo per te!, disse sorridendo da uno sguardo caloroso l’esuvia aeriforme di una regina sprigionatasi dalla schiena di una regina di luce e soffi divini, di sguardo invece indifferente. Ciao ciao, fece imitando un gesto tipico della sua cultura la manina della ragazza tesa all’interno di quel vortice mentale, un ultimo saluto, e sentì contro la pressione dell’aria lì sferzante in catalettici mulinelli l’indurimento dei palmi, una piccola metamorfosi necessaria alla sua scomparsa nella Grande Cosa In Cui Entrava.)
I gatti selvatici stavano seduti nella radura vasta, fino alle ombre del bosco. Non erano animali da branco, ma evidentemente poteva capitare che si ritrovassero là, nello stesso posto -tutti, in apparenza, reciprocamente indifferenti. La ragazza li vedeva, li vedeva bene!, come aveva sempre visto tutto, curiosa, senza nessuna animosità nei confronti di quanto la circondava, era libera, era paziente, era… cos’altro era? Vedeva soltanto: in questo ormai consisteva il suo esser arrivata là, nella radura che l’aveva chiamata, senza esser mai stata vista. Qualche gatto selvatico alzò il capo nella sua direzione, ritto nell’erba e definendo il proprio petto, in emersione da striature che arabescando di riflessi dorati e neri e rossi le belle spalle fulve le cingevano tra due simmetriche diteggiature di ragnatela. Occhi di rame e arancio sopra vibrisse che si caricavano d’elettricità bianca, graffiando dritte l’aria, lo sfondo tutto verde dell’erba in salita dietro le schiene, le tondeggianti ombre delle loro figure a riposo. Alcuni si lavavano il muso con un simpatico gesto della zampa, chiudevano occhi, parevano tornare quelle pallette cieche e affannate e dal pelo arruffato di acquetta che erano stati alla nascita -perdevano ogni seriosità predatoria. Un vento prese a soffiare portandosi dentro l’eco di una specie di singulto da uccello, faceva pensare alla ragazza a qualche uccello nero col becco giallo accesissimo, nidificante tra le rocce bianche come i suoi escrementi nel muschio e nei licheni. Un uccello mai visto. Un uccello-radura? Questa fu l’ultima sciocca domanda che la ragazza, la curiosa, la ladruncola, si pose prima di riposarsi sotto il sole che picchiava forte su quello spiano aperto lassù, quell’erba piena di gatti seduti e in apparente nullafacenza, sebbene pareva, in qualche sotterranea ombra che dagli artigli retratti e le punte pelose delle dita iniettavano nel suolo, che in quel modo compissero un qualche indecifrabile progetto, forse ignoto anche a loro. Si riposò standosene lì, appena oltre il gradino d’erba sul quale era atterrata con un balzo energico, e abbandonando avanti e indietro gambe e braccia che rispondevano a curve sinuose dell’aria, adagiandovisi, flessibili come non mai. Il sole scendeva oleoso sulla sua pelle bruna e sui capelli e sulla quiete che era dilagata in ampi cerchi facendo credere che la radura fosse stata in chissà quale preistoria un ampio bacino idrico. Interrotta solo da fischi d’uccelli mai visti, spiriti d’alture. Da insetti campestri. Dall’ultimissimo fragore ridotto e infinitesimale d’un’onda rabbiosa del mare, quella granula d’azzurro tracciata in singola rozza pennellata sull’orizzonte che si sarebbe visto sporgendosi oltre il confine dell’altipiano. Dai passi praticamente muti di quei pochi gatti che, allontanandosi flemmaticamente dalle conchette d’erba schiacciata poco prima occupate, raggiungevano con la deambulata nodosa le ombre degli alberi fitti, tutti invariabilmente presi dall’impulso irresistibile di fermarsi e voltarsi a guardare indietro per controllare un’ultima cosa ignota, prima di sparire e diventare ombre, cose che continuavano però a perlustrare in eterno il fitto fogliame, l’erba alta, le reti di penombra che abitavano in un mondo d’agguato lassù.
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