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dove c'era un paguro- capitolo 6

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 3 dic 2022
  • Tempo di lettura: 12 min

6


Vide prima d’ogni altra cosa due occhi d’uccello. Ma non sapeva se si trattasse d’un singolo paio d’occhi, appartenente a uno stesso uccello che glieli mostrava frontalmente, a fendere la tenebra forse con intento di sfida, oppure occhi solitari e separati, due uccelli diversi. Un secondo esemplare che era sceso dal cielo, adagiando delicatamente le ali alle correnti discensionali, per unirsi all’altro che pareva esser già là presente per guardare, pareva essersi spalancato per primo nel buio con lo stesso anticipo infinitesimale ma cruciale di un gemello rispetto all’altro ancora incastrato nel ventre -lo stesso uccello dell’altra volta? Per la confusione che lo pervadeva quasi non sapeva neanche contarli, tantomeno conoscerne la sostanza. Ma una cosa era cambiata, e una cosa la sapeva: metteva piede, se con i piedi s’attraversavano certe soglie, in un posto che disintegrava l’utilità dei numeri, o piuttosto della loro proprietà d’essere contati.


Uomo che un tempo ha navigato sui mari, che s’affida alle algebre segrete delle onde e delle costellazioni: sappi che comprendi il mondo dei numeri per la prima volta soltanto adesso, perché i numeri sono tutti scappati e non li vedi, e non li puoi allora contare con l’indice. Eppure ci sono, nascosti magari dietro i veli del cielo. In eternità che il tuo cervello non potrà mai comprendere continuano a esserci anche se non ci sono per te: non è forse questa l’essenza della matematica? L’essenza del mare. Sei in terraferma. E su cosa credi che stia galleggiando? Vomita pure, se il corpo ha l’impulso vuol dire che è proprio necessario. Ah, già, non c’è il corpo.


Ci sono solo uccelli. Luminescenza di smeraldo comincia a tagliare la tenebra con maggiore forza, un’energia che sembra sprigionare forme di luminosità ancora sconosciute. Gemme che assorbono riflessi da chissà dove, dentro grotte profonde in cui non dovrebbe esistere alcun tipo di luce. Ma i batteri vivono in questo mondo. Come nelle bocche dei pesci, nei funghi sottacqua e sotto l’erba, nelle appendici che fanno da esca in fondo agli abissi brulicano particelle nate per rifulgere, così forse avviene nelle gemme di quel tesoro segreto, quell’energia radiante -qualunque cosa ci sia in quegli occhi perché riescano a farsi vedere. Circolano impazziti trasformandosi in linee, come lucciole in una danza finale prima che la notte venga uccisa per sempre. Gli uccelli, o il singolo cielo, stanno ancora sorvolando in un cerchio il corpo sdraiato al suolo lontano -ma il corpo non c’è, e allora crede soltanto d’esser sdraiato. O in piedi? Non ha riferimenti, non ci sono l’uno e il due, c’è che il significato di quell’uccello è solo che deve visitarlo, fargli sentire una presenza ingombrante di messaggi, così come è già accaduto. E allora comincia a sentire rumori, fragori che lambiscono il bordo di qualcosa di grande, forse confini del mondo. Confini semisommersi, costruiti in modo da tenersi a galla.


E allora comincia a sentire anche quando i fragori spariscono. Nello stesso momento compare la luce. Non esplode nelle tenebre, non disegna archi alla maniera degli occhi d’uccello che il naufrago ha riconosciuto. Si pigmenta in maniera non simultanea sulla tela preesistente del nero, come aprendosi da una cerniera. Ed ecco che le cose hanno colore. Le cose. Ci sono le cose. La scena è cambiata, poco a poco appare, vasta, illuminata. È un prato in alta montagna, si direbbe. Grigiore fluttua nell’aria, facendo pensare che ogni cosa deve vivere dentro le nuvole, e che dentro le nuvole non esiste differenza tra il chiarore del cielo rasserenato e il vago senso d’instabilità permeante le coltri di pioggia incerta. Aghi impercettibili di pioggia gelida sfiorano già tutti gli steli dei fiori arancioni e bianchi ancor prima che cadano, li sfiorano dentro, come esistendo da sempre. Il vento, leggero, preme appena su ogni cosa che cresce, ogni virescente componente d’una massa di capigliatura che reclina leggermente al suolo seguendo un unico compatto pensiero.


Convinzioni d’alta quota. Un uomo, suo malgrado, calpesta il prato, il suolo dove fioriscono. Tutto accadrebbe in un attimo, se si potesse contare il tempo.


E non fa in tempo a identificare la specie assunta dall’uccello per manifestarglisi. Il giorno giunto all’improvviso ha svelato anche lui.


Ma, fermo a mezz’aria in volo come se fluttuasse piuttosto che volare, si volta con guizzo da fantasma, sovrapponendo la fulminea visione del volto brutto e sconcertante (arpia!, griderebbe l’uomo) a quella delle penne caudali. L’uccello è diventato grigio e nero, sfumature e macchie di presagi si sparpagliano a marroncina lentiggine tra le caudali, le remiganti e la linea del dorso, per poi sprofondare nella tinta di base scura come una gola montana ogni qualvolta la luce dentro quel mondo di nuvole viene ostruita da qualcosa -nuvole fluttuano sopra altre nuvole, consimili ma d’ordine superiore. E allora non rimane altro che seguire quell’uccello, la testa ancora sconvolta dalla faccia apparsa e scomparsa. Barbigli, barbe nere aguzze a spunzoni fanno corolla inanellando il becco protuberante dal cranio piumato in modo osceno, come un pugnale metallico, un arrogante membro. E occhi diventati neri, all’improvviso. Sono gli stessi, indubbiamente. Sono,… due? E anche ammettendolo, nonostante questo rimane impossibile credere fino in fondo nell’assenza d’un altro esemplare, l’altro occhio che era apparso all’inizio, alla genesi. Potrebbe essere già volato via, lassù, lontano.


L’uomo cammina già, seguendo il volo radente dell’uccello, totalmente capace di controllare la sua fluttuazione a piacimento, un dio della sospensione. Cammina già ma volge lo sguardo all’orizzonte circostante: oltre il rialzamento naturale del suolo, modellato da sconvolgimenti del profondo, si respira l’altitudine che cala in masse d’ossigeno rarefatto dalle frastagliate e violacee forme di montagne imponenti, tutt’intorno al visibile, a guardia del prato d’alta quota. E nel cielo sbiancato che precipita nelle loro gole, sui contorni e al di sopra, fin dove il chiarore non si fa lancinante e permette ancora di vedere, volano lontanissimi punti scuri. Altri uccelli, ma non è detto. Quassù potrebbero anche volare serpenti, cose lucertolesche, e forse appartengono a loro quelle sibilanti e rauche grida. Echeggiano, il suono riesce a giungere sui prati della vetta. Impiegando chissà quanti anni.


Virate dell’uccello ingiungono di non porre domande. Fremito di penne, significa: abbi coraggio e getta i residui di meccanicistico impulso al conteggio che informa ogni più profonda fibra e vena blu cadaverico dentro il tuo dito. Nella tua stessa pelle e nei tubicini gommosi dentro te, così fragili che il solo trascorrere d’un istante basterebbe a spezzettarli, nei fluidi che ti pervadono… in ogni parte tu conservi millenni di abitudini al calcolo, perfezionate, sigillate nelle sinapsi per erigervi muraglie simili a spire di immobili dragoni che serbano sotto le squame un’irritazione cui proibiscono di fuoriuscire e liberarsi. Sei fatto di catene. Sei l’unico che possiede queste cose, qui.


Queste cose. Queste cose. Queste cose. Conservare forma di corpo solo come simbolo, non c’è veramente. Ma il simbolo si porta dietro molte cose superflue. Che appartengono alla cosa che simbolizza, la cosa che in un certo altrove è detta “reale”. La cosa che quando marcisce viene beccata da nuvole intere d’uccelli, scese appositamente dal cielo, e succhiata da larve di mosca che sono tante tenere bianche dita neonate partorite dalla terra. Quanto accade invece su questa montagna, dove fantasmi piumati soffiano in te una soggezione quasi vergognosa per il fatto d’avere un centro solido, è ciò che accade quando è l’entità marcescente a salire incontro a dove stanno gli uccelli, senza attendere il momento del rito funebre della loro discesa.


Succede che viene guidato. In cima a una scarpata. Fiori arancioni, fiori bianchi, fiori rosa. Un’ombra che si profila. Non conosce, lui, gli animali di quelle parti, se non da leggende. Non vede un dio caprino, una capra di montagna che con gli zoccoli sa scalare ogni cosa. Non un umanoide di legno e fronde e rocce aguzze. Qualcosa che ha il ventre tormentato dalle aquile. Profumi alpestri che lacerano. No, non c’è niente da lacerare: l’ombra è proiettata da un alto scheletro. Elegante, conserva una sinuosità che ispira rispetto nelle ossa grigio-verdastre, evidentemente vecchie ma in qualche modo preservate dall’azione conservatrice di una qualche fragranza d’unguento che è parte intrinseca del paesaggio, probabilmente sparsa dal naturale respiro della vegetazione.


-ah.


Forse le montagne crollano. L’uomo sente risuonare una voce. Del tutto simbolica. Da corde vocali della stessa categoria.


-eh, sì. Ma non categorie. Ciò che pensi è il contrario di quel che è.


Dice a lui la bella voce dello scheletro che gli legge dentro.


-sei bella.


Lo scheletro, lì in piedi, fa un cenno del capo. Conoscono da queste parti un comportamento, una formulaica cortesia e sistema per adeguarsi alle lusinghe. Educazione di montagna. O forse lei è la sola ad abitare -o manifestarsi- qui, unica bella principessa scheletra d’un paese di inesistenti scheletri. Il vento assorbe odori di granelli di polvere sgretolata dalla lenta erosione di fiancate dolomitiche, di fiori e di muschi fermentanti sotto l’assenza d’ombra e gli escrementi di animali elusivi, di ghiacciai che guardano in su. Il vento carico di queste cose percuote con illimitata gentilezza e melodia le costole nel passarci attraverso, diventa gentile solo lì dentro. E frusciano le ghirlande qui e là appese ai comodi appigli costituiti dagli incastri perfetti tra un osso e un altro. Duecentosei capolavori calcificati da un’ancestrale pazienza che ha creato tutto quanto è montagna e roccia, duecentosei ossa che non hanno più nome e non sono più duecentosei, non sono più niente, i numeri stanno altrove, solo a osservare dalla distanza senza intervenire. Da un punto ancor più distante di quello da cui, a nuoto nell’essenza del sole cancellato, osservano gli uccelli.


L’uccello che l’ha condotto lì è sparito. Una singola silenziosa e veloce curva a mezz’aria, e negli attimi sospesi in cui l’uomo s’era trovato davanti la bella scheletra sopraggiunta in cima al pendio, l’uccello facendosi freccia s’era tuffato nel cielo retrostante, sparito sotto l’erba e sotto la linea di terra. Lugubre, di ritorno tra le cose lugubri. Per sentito dire e per leggende l’uomo sapeva di foreste che riempivano gli strati inferiori della montagna prima che, verso il suo culmine, questa si facesse spoglia e abitata solo dal sole. O in questo caso, da bellissime ossa. Foreste sotto di loro, se sotto di loro c’era qualcosa. Sulle cui fronde d’aghi riposavano ombre alate, rese ancor più nere dalle ondate solari intermittenti attraverso la coltre superiore.


Era alta e più bella che mai, un semplice scheletro del color del muschio, ossa che si sarebbero potute spezzare con un fracasso di strappo, se fosse stato possibile un tatto di quel tipo. Non è possibile. Ogni violenza così è prevenuta. Le regole di questo mondo non prevedono l’azione del fisico, che sempre ha il nome d’una violenza che avanza nel cuore d’altre cose attorno, come una punta di freccia che per esistere necessariamente perfori, nell’aria o nella carne, nelle cose che attraversa.

Principessa. Principessa d’ossa: lei porge una mano in avanti, un cenno a lui. Ghirlande di fiori, decapitazioni giunte tra loro per rinascere belle, ondeggiano sontuosamente nelle vibrazioni dei movimenti, e la decorano per tutta la sua stazza. Alcune s’infilano in buchi e s’attorcigliano attorno a qualche struttura tubolare, quasi dispettose. Ma lei è equanime, lei concede. Lei parla anche a lui. Forando fiotti d’aria modulata dai denti, putrefatti ma senza alcuna marcescenza, morti senza odore e imperfezione.


Riesce a comunicargli qualcosa, in modi sconosciuti che forse apprenderà.


-qua siamo nella terra. Tutto ciò che è della terra, qui può esistere.


Lui annuisce. È convinto di aver capito di cosa parla.


-tutto ciò che è della terra. Anche quello che cerchi.-, gli dice con una smorfia di labbra inesistenti.


Il crinale si affaccia sugli strati inferiori del vento, dal soffio inarrestabile. Lo vedono, risalgono sul bordo del pendio e fianco a fianco lasciano che il paesaggio li osservi di rimando. Da sguardi che non si possono intercettare. Nel chiarore le forme perdono struttura, emergono di rado.


-perché cerchi?


E lui si paralizza, il finto corpo pervaso da grumi di gelida saliva, nata all’improvviso.


-perché cerchi? Cosa vuoi farci dopo aver trovato ciò che cerchi?


-io…


-sei veramente tu che vuoi questa cosa?


Che voglio farci? Sono veramente io che voglio questa cosa? Devo dirle che ho scelto di cercare questa cosa solo per darmi uno scopo? Una ricerca lunga e difficile, per riempire i miei giorni.


-tu amavi ciò che hai perduto?


-io… io….! Sì, io voglio cercare…


-ricorda che qui siamo nella terra. Tutto quanto è della terra, qui può esistere. Ma qui siamo della terra, e allora ogni cosa che accade è come le cose della terra. Le tue parole sono specie di grasse e floride piante selvatiche, che crescono soltanto in luoghi impervi. Nessuno sguardo le scopre, non si conoscono le immagini del loro sbocciare, forare la terra, cambiare colore. Ma quando tutto è della terra e tutto diventa le cose della terra, anche gli sguardi diventano queste cose. Le si può vedere.


Getta lo sguardo a terra, sul prato crescono fulmineamente tentacoli verdazzurri di spinaci selvatici, o qualcosa di simile.


-le tue parole allora sono come queste foglie selvatiche. Scoperte, escono fuori senza più timidezza. Pronuncia la tua emozione, quella che provasti nel momento della perdita. La si può sentire comunque, qui. La sentiamo noi, il tutto che s’unisce. Pronunciala, fuori di te, perché esiste.


La cosa che provò… quando vide sparire qualcosa che prima c’era. O disintegrarsi. Sanguinare, rompersi, scolorire mentre un soffio filiforme si srotolava lentamente fuori da un buco del corpo e per un’ultima volta veniva attraversato da un bagliore fosforescente di candore e ghiaccio. Queste cose aveva visto. Che cosa aveva provato, diceva lei. Tutto era della terra, lui era lì dentro, e sapeva che sapevano. Doveva pronunciare, perché la terra è un essere che con rumore brusco fa uscire le cose che fruttificano nel suo ventre.


-sgomento perché ho capito che non ho mai accettato ciò che era implicito nel vivere. Sgomento perché nell’istante immediatamente successivo, non ho sentito niente, nessuna parte del dolore che m’avrebbe dovuto lacerare, rendendomi nullo. Sgomento perché qualcosa, con una forza immobile provenuta dal nulla, venne improvvisamente a depositarsi nel mio petto dopo che gli occhi ebbero visto, a ostruire il pianto e la voragine. E non era né razionalità, né anima, né acqua di mare. Io ero vivo e non annegato. Gli altri erano annegati, fatti a brandelli, deformati, umiliati, davanti a me. Annegati e non vivi.


Scheletro che tace. Emerso dalla terra in un certo momento perduto, si suppone. In piedi sulla terra, i piedi che calcano il suolo. Tace perché quello parla del mare, di cose che gli appartengono, e deve dirle senza ricevere risposta. Nel mondo della terra gli echi si propagano ma non per scelta, tutto è conformazione. E nasce e muore. Quattro piedi, due nudi e due scarnificati, si nascondono tra capigliature assetate d’aria, folti di fiori e di piante appena nate. Il mondo intero gli dice di continuare, dischiudere, finché esiste quel cosmo d’aria rarefatta in cui gli è concesso.


-sgomento e ricerca perché c’è un mondo, da qualche parte… che è nato in quel momento. Non so come dire. Ma è nato un mondo in cui io, un io diverso, ho colpito, ha colpito la terra. Ha colpito i compagni vivi, con un pugno forte, e con lo stesso pugno mezzo distrutto e insanguinato, con le ossa rotte, ha poi colpito me. Colpito da solo. Colpito la terra e le onde e le cose artificiali, e le cose vive e le cose morte, per distruggerle tutte. In quel mondo lo ha fatto. Nei mondi che conosco io non l’ha fatto. Il pugno è rimasto dentro il pugno, e la terra non s’è distrutta. Io cerco perché se non devo distruggere allora devo creare. Va bene così?


-che vuoi dire.-, dice la scheletra, ma non è una domanda vera e non vuol sentire davvero una risposta. Guardano il cielo e il suo confine con un insieme di cose che cercano di diversificarsi, e poi d’unirsi di nuovo pur mantenendo parti di se stesse. Come per un ripensamento, o una nostalgia d’unità.


-allora, se trovo questa cosa, e divento agente di rinascita, creazione… è come se la terra si distrugge? Tu me lo puoi far vedere? Principessa?


La regina morta del mondo della terra, in alto tra le montagne e il cielo, lo ignora, e gli mostra altro.


-ti mostro ciò che accade in un mondo vicino, a tre uomini. Mondo dove sono presenti i “giorni”. E se ne susseguono molti, e le cose procedono, numerose, mondo dove sono presenti le numerosità. Gli eventi procedono, senza effetti, numerosi che sembrano pochi, inesistenti. Giorni di piacevole obliante inesistenza, forse li chiamerà qualcuno. Vedi?


La principessa scheletro indica un lago, specchio del cielo incolore, scavato in una conca, una valle lontana. Aquile solitarie escono da rifugi, spelonche austere piene d’ossa e piume, per la prima volta s’uniscono in stormi infiniti. O forse si tratta d’altre specie d’uccelli lontani coi nidi vicino al sole, la distanza impedisce di distinguerli. Diventano nuvola, diventano disegno: il loro riflesso sulla superficie del lago disegna ombre sfuggenti, così frenetiche da cancellarsi l’una nell’altra e scambiar di posto con un rimescolio turbolento di tenebroso inchiostro che sembra seguire un intento senziente nascosto sotto la superficie dell’acqua. Riflessi d’aquile che s’adagiano e, una dopo l’altra, disegnano delle scene, che vivono da sole.


(Pezzo per pezzo ritorna un’isola nell’oceano. Prima vengono gli alberi. Singoli. Cervello verde d’ognuno. Costituiscono un gruppo, un gruppo mutaforma. Si chiama vegetazione. Poi vengono le ombre. Tra queste, di cose che si muovono in mezzo. Sembra un cervello coi suoi intrichi. Ma non dimentica, forse per poco come sul ciglio d’un burrone, che si tratta solo d’un lago magico, che vuol fargli vedere delle cose non appartenenti al mondo che in quel momento è il suo presente. La realtà, vista dalle coste e le vette dell’illusione, è la cosa più irreale.)


(Ombre che si identificano da sé, come se l’osservatore del lago lontano portasse dentro se stesso delle parti già disegnate, destinate a degli incastri, come conoscesse già quell’isola, o un altro se stesso ci vivesse. C’erano sagome bucate in lui, quelle là. Individui che conosce si muovono tra vegetazione e strane architetture, sembrano vivere su un’isola. È un posto dove ci si reca allo scopo di condurre l’esistenza, una certa esistenza che nessuno sa spiegare. E che pure vivono in quei giorni, in lunghe settimane che sono forse un riposo per tre marinai in lutto.)


(Queste forme che conosce si muovono, si siedono e s’alzano, si sdraiano, sempre in cerchi. Non s’allontanano dal centro d’un villaggio. Tengono per mano alcune donne di stature diverse e si tuffano nel giorno e nella notte. E non è solo acqua che traballa in un lago simile a uno specchio.)


Passa molto tempo a osservare quello che gli viene mostrato. Sembra essersene andato su un altro pianeta, c’è un pezzo di sé che è una copia, una cellula sgusciata via da se stessa, volata altrove.

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