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dove c'era un paguro- capitolo 5

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 3 dic 2022
  • Tempo di lettura: 12 min

5


Ci si dimenticava presto di molte cose. Come se diventasse possibile processare soltanto una cosa, o un insieme ridotto, alla volta. Qualcosa che distraeva, disciolto e amalgamato all’aria. La producevano gli alberi. Qualcosa che forse apparteneva a questi, una miscela dalle radici nel mondo circostante. Sempre più a fondo nella foresta, sempre più intense certe singole impressioni, che finivano col riempire il mondo.


Ci sono foreste di questo mondo in cui è possibile ferirsi il naso con un odore, prese nota mentalmente Dii. E non è una ferita piacevole. Nella natura nascono numerosi veleni e antidoti, controbilanciati in reciproca perfezione. Un odore, a metà tra ammoniaca e arbusto aromatico simile a lavanda, viene trascinato in flessuose e sottili frange dal venticello improvviso sotto un determinato tunnel di alberi. Tre uomini estranei che si muovono in un’area segnata da fenomeni di questa specie, mentre tentano in fila di mantenere la stessa andatura spedita di quella ragazza. Un velo di capelli viene tinto leopardato dalle maculature delle chiome sovrastanti. Solo caviglie scalcianti che ondeggiano sotto il bordo di quel velo soffice di chiaroscuri. Scompare la ferita, e per un po’ rimane solo la sensazione di fresco balsamo che si è versata immediatamente al suo interno, inspiegabilmente per il medesimo pungente odore. E sparisce anche la ferita, e per un po’ rimangono solo le caviglie che saltano. I granelli di terra sollevati. O quella morbidezza dei capelli. Camminare dritti nella foresta per chissà quante ore come in discesa dentro un tunnel immaginario temprava la concentrazione in percorsi univoci. Dii sentiva un senso alla volta. Sentiva che la foresta lo rendeva placido. Pareva gli posizionasse in maniera non forzosa i passi all’interno delle forme predisposte nel fogliame, così che in un secondo momento, quando fosse giunto il turno adeguato, avrebbe potuto inalare dai pori della pianta del piede nudo le fragranze degli altri passi che avevano calpestato quel punto. Pollini caduti, vita di funghi perlopiù nascosti, deiezioni di piccoli mammiferi. Spine e residui cristallizzati di materia vegetale crepitavano spezzandosi contro la callosa e inscalfibile pianta del piede di Dii, e si univa all’insieme frusciante di rumori che faceva pensare a tanti bisbigli segreti pronunciati tra le ombre del folto per non alterare eccessivamente un certo silenzio naturale e sacro.


I rumori di Hr erano ansimare, erano i fracassi attutiti da muscoli e grasso dei vari dolori che andavano a ficcarsi sotto trapunte di strati profondi per non farsi più sentire. Forse ci riuscivano. Camminava più veloce di quanto gli facesse male il ventre, neanche stesse consapevolmente sfuggendo all’inseguimento da parte di questo disagio. E nella foresta si vedevano poche cose alla volta, forse tutto faceva meno male. Si strusciò su di lui la danza suadente di un vento odoroso, piscio di gatto e lavanda, una mistura sorprendentemente lenitiva. Anzi, non era opportuno parlare di lenitivo: appoggiandosi ai tocchi freschi della brezza si veniva sospinti in un territorio diverso, in cui non si poneva la necessità di medicarsi. Hr pensava che in quello stesso luogo ci fosse il lato posteriore della ragazza, completamente nascosto dai capelli. Forse non erano capelli, pensò. Forse si trattava di un copricapo speciale, intrecciato con maestria artigiana soltanto dalle abitanti di quest’isola. Creature non umane, altrimenti se ne sarebbero accorti, avrebbero percepito che c’erano i loro simili… era un po’ che pensava a capelli e copricapi, non era da lui: era la foresta a pensare per lui. Molto a lungo su singoli desideri. Desiderava toccare i capelli, scostarli, e vedeva nei seguenti minuti o forse ore coloro che, accasciate su rocce roventi in pose da sirena, intessevano quelle fluenti trame. Desiderava toccare ciò che era sotto i capelli: la diversa consistenza del fisico, nato e cresciuto di nutrimenti e luci solari che non è possibile conoscere, se non le si segue fino a dove si generano. Dove un naufrago che geme nella disperazione lanciando dalla bocca lampi di fantasia rivivificata prima della morte crede che risieda la loro essenza. Seguire la ragazza in fondo alla foresta. Desiderava seguirla e allora tutti gli alberi insieme desideravano che lo desiderasse ancor più forte, e allora con più decisione affondava le gambe nel suolo, lui che era il primo della fila. Hr desiderava una sola cosa alla volta. Hr non ebbe nemmeno tempo, tra le tante cose singole che aveva da concupire ininterrottamente per ore fino a sentire d’aver spremuto ogni succulenza, di pensare con disgusto che quella foresta ti trasformava in un tipo come Kiy, con le sue fissazioni e monomanie.


Kiy in mezzo alla fila. Kiy con Dii dietro e Hr davanti, e una ragazza oppure un ammasso di colori particolari filtrati di tanto in tanto, da movimenti irregolari, da tronchi distanti. Miraggio di selvaggina in fila tra i bagliori di una foresta. Doveva aver “sognato” qualcosa del genere, ma non era convinto. Riusciva a sentire un odore, come d’un prato d’alta quota, e riusciva perfino ad avvertire negli impatti delle caviglie gli sporadici rialzamenti del terreno. Salite, fatiche del corpo, cose che dimenticava presto. E invece sognava, intensamente, una cosa alla volta. Come fossero gli alberi a sostituire la sua mente, fino a quel momento unica possibile madre e sovrana dei suoi contenuti. Anche lui come Hr sognava qualcosa che non era possibile vedere se non sfrangendo una coltre. Capelli della foresta: il fogliame nascondeva il cielo. E Kiy immaginava che dovesse essere il cielo del popolo della regina. Non c’era timore per l’autorità, per essersi introdotto nel regno come intruso. Ma questo era: un regno di un luogo strano, in cui lui era finito per cercare qualcosa. Un luogo che aveva cieli diversi. E allora immaginò che nel cielo s’aprissero incalcolabili occhi, che con la linea infilzante dello sguardo incidevano mappe sulle schiene delle ragazze sedute sulle spiagge, sui confini di quel mondo. Plasmava così le loro coscienze, il loro intero mondo.

La ragazza, un passo alla volta, agitava braccia e fianchi, senza mai far crollare quella fondamentale indecisione tra paura e dovere rituale. Venite, venite a farvi uccidere. Era una formula, un modo di dire. Essere uccisi uno alla volta, prima di poter proseguire. Era una delle regole dell’isola. Ma non era un’isola speciale, non per lei. Era solo un’isola ch’era sempre stata sotto un cielo fatto in un certo modo. E allora non si capiva più se il cielo era l’anima dell’isola o l’isola l’anima del cielo. Ma era un discorso complicato che non le piaceva, preferiva altri tipi di discorsi complicati. E in ogni caso erano i tanti occhi dentro il cielo ad aver detto che si dovesse fare così, e la regina lo sapeva meglio di tutte le altre.

La foresta diradava, diradava. Strani platani poco ravvicinati, si separavano formando due filari quasi paralleli, una specie di viale cresciuto selvaticamente. Non c’erano popoli che conoscessero la silvicoltura, nelle vicinanze. E anche ci fossero stati, le strutture che cominciavano a far capolino dietro quegli alberi relativamente ordinati davano l’idea che su quell’isola, qualunque cosa fosse posta sotto le forzose direttive d’una mano intenta alla razionalizzazione dell’ambiente circostante, si dirigeva intrinsecamente verso un dissesto autonomo. Una confusione spontanea dell’intento originario, che finiva col confondersi. L’ordine respirava un principio selvaggio, il caos era perfezione di regole. La foresta da sola diradava, diradavano gli alberi che la componevano, creando spazi. In salita, gli uomini accompagnati da questa, da tutti i capricci della conformazione terrestre, si sollevavano dal livello normale del suolo, cosparso di foglie e cortecce di frutti. Marciavano silenziosamente, i passi attutiti dall’erba rada e cotonosa, su un impercettibile pendio di prato abitato. Capanne messe in file caotiche come alberi. Gente che usciva dai lati, dalle ombre delle pareti come se fossero lì collocate tutte le loro porte e i collegamenti con l’esterno.


Ammucchiamenti di paglia, malloppi di fibre dall’aspetto umido e compattato in tondeggianti tumuli dal colore e consistenza di sabbia bagnata si disponevano attorno a un fascio d’assi centrali. Legno e qualcosa di simile all’avorio. Zanne, alcune dritte alcune ricurve frammiste ai pali. Spuntavano dai tetti di steli resistenti, quasi metallici. Se esisteva una stagione di venti e tempeste, quelle abitazioni -o templi, forse- certamente conoscevano una stagione in cui periodicamente dovessero riaffermare la loro resistenza, una natura di strutture senza eguali in tutto il territorio sottomesso dal terrore della bufera. Senza che per questo, facendo un fondamentalismo delle proprie strutture inamovibili, diventassero montagne, e irrigidissero il proprio superiore sdegno nei confronti di quanto ha fondamenta deboli. Erano anzi d’aspetto che poteva apparire soffice, ma di indubbia forza. Corpi di donne, molti quasi del tutto denudati e coperti da una indefinibile patina di pigmento offuscante, sembravano allora nascere spontaneamente dai fianchi di queste case, figlie o proiezioni di una stessa forma vivente. Curiose sulla scena, tenevano le dita ben avvinghiate alle poche parti più spigolose delle strutture, e sporgendo di poco avanti i busti si tendevano verso quella che era diventata la strada centrale. La loro messaggera avanti, gli invasori dietro. Gli sguardi attorno, occhi nocciola che sarebbe stato impossibile decifrare, o ricondurre a qualcosa.


Il cielo all’improvviso s’aprì vasto sopra le loro teste e ci piombò sopra come se fossero prima inconcepibili i suoi spazi ariosi, dimenticati nella boscaglia che, pur non essendo fitta, doveva aver inoculato nei suoi alberi una misteriosa proprietà d’attirare la penombra con più forza e ritenzione che altrove. E sotto l’azzurro che faceva da cupola al villaggio la vegetazione appariva rimpicciolita, così che la foresta diventava soltanto qualcosa che cingeva, uno spirito di presenza vaga, ma non ancora separato dal territorio. Più incorporeo di prima. Avanzare nella foresta, uscire su una sua radura, era forse come avanzare nella storia, veder scomparire progressivamente qualcosa che lascia sue vestigia nell’atmosfera, e in misura minore nella materialità. Rocce, sassi. Steli che sembrano incise, ma no, sono solo disegnetti lineari. Qualcosa di meno volgare di un linguaggio. Così penso Kiy all’improvviso, non comprendendo bene il significato del proprio pensiero. Non possedeva un particolare odio per la scrittura né per la sua assenza. Ma in quest’isola era forse spinto a comprendere il pensiero delle sue creature in questi termini. Rocce belle e purificate da cuneiformi senza significato. Chissà se erano imparentate al masso che separava la via, che avevano incontrato in spiaggia. E probabilmente con la stessa intensità d’intenzione, corroborata da un silenzio minerale, univano anziché separare. Una vista dall’alto non avrebbe composto un disegno perfetto, ma delle figure, fatte di punti, rocce specifiche. Unione nel villaggio. Vista dall’alto non ostruita da chiome.


Senza le chiome era scomparso l’impulso misterioso a sprofondare in cose singole, una per una, in piccoli gruppi. L’ombra, vista ridotta la sua influenza, poteva al massimo sfiorare i passanti, ancora disposti in fila. Non riusciva a imporre il suo dominio di percezioni atrofizzate. Tornavano a una primitività in cui era però possibile recuperare certi elementi capaci di sconvolgere nel profondo, paure ed emozioni antiche come genitori ancestrali. Recuperare, raccogliere ossa da impiegare nella costruzione delle colonne portanti così ben visibili nelle costruzioni abitate dalle donne locali. Non sentivano però che quello fosse un villaggio primitivo. Si limitava a nascondere in sé qualcosa che si caricava dello stesso mistero capace di far sprofondare proprio delle cose antiche. E attraversando la via tra i filari, con i bordi di foresta distanti, e lo spazio intermedio disseminato di case singole qua e là, qualcosa d’ancor più lontano, molto confuso nel cielo, si profilava. Lo sguardo di una catena montuosa puntato alle vicende degli uomini, anzi delle donne, le isolane. Difficile dire se fossero monti mitici o di dure rocce, di duri inverni mortali.


Per Hr c’erano molti sguardi da intercettare. Non sprofondava soltanto in uno, per brevi istanti si tuffava in tutti. Se non avesse forzato un certo controllo su di sé, sarebbe diventato un assetato disperato, intento a gettarsi indiscriminatamente in ogni pozza per cercare una cura alle membra languenti. Guizzava da un paio d’occhi all’altro, cercandovi scintille: non scorgeva mai lucentezze nel fondo degli occhi nocciola, ma avrebbe potuto trovarli belli. Non sapeva d’averne bisogno, e non si interessava della scoperta. Colori paglierini di tetti e capelli si mescolavano mentre guardava le varie direzioni. Due teste spuntano, un lato e l’altro d’una capanna. Paura, curiosità, indifferenza, studio, chi avrebbe potuto dare un nome a queste cose? Qualcosa lo inquietò, equivalente fatto di sguardo del passo improvviso d’una minaccia tra i rami del sottobosco. Allarmato scattò cercandone la fonte, e a mezz’aria arrestò il frenetico movimento, come salvato al volo da qualcosa: capì che era lei, davanti a lui. Lo indirizzava, gli faceva seguire una linea simile al sentiero di reliquie per ritrovare una via del ritorno a casa, o all’ormone di una madre seguita da cuccioli. Guardava le spalle di lei, le immaginava sotto i capelli, ricordando quasi con nostalgia tutto quello che aveva imparato in quella sensazione di perdercisi dentro che risaliva appena a… quando?


Quando, quando, dove, tempo e foresta, convinzioni dentro la foresta e fuori dalla foresta -così più o meno pensava Kiy nel momento in cui si accorse che canti, cinguettii, gracchi dalle legioni degli uccelli avevano cominciato a incrociarsi in musiche sempre più piene, sempre più vicine. Non se ne vedevano né sui rami né sui tetti. C’erano, i loro colori affidati al suono, alla capacità di modularlo. Sapevano controllare un elemento, e forse tutti gli elementi. Far strisciare il colore dal proprio interno e farlo confluire altrove, affidarlo a delle vibrazioni: di questo era fatto il loro canto di seduzione, canto di vita lanciato spesso come a voler ferire qualcosa, a ferire un istante inerte della giornata che non s’aspettava di veder sfregiato dall’improvviso emergere d’una voce il cui solo scopo sia dire: ci sono, ci sono qua, in quest’assurdità, l’assurdità chiamata io c’è. Kiy visualizzò il colore dentro sé, s’immaginò quale forma potesse assumere se trasformato in piumaggio esterno, in vibrazioni, in melodie: Kiy provò a usare la stessa tecnica degli uccelli. Nessuno udì niente, nessuno si voltò. Numerosissime ragazze guardavano un po’ dappertutto, e guardavano loro, forse credendoli escrescenze diverse ma appartenenti a uno stesso gruppo unito, esistenze identiche, corallo, colonia batterica.


Uscivano dai lati delle case. Tutte donne, venivano partorite da qualcosa che non aveva vita. Porticine in cui entravano abbassandosi, quasi gattonando. Scomparivano, ricomparivano quando era necessario che qualcuno entrasse o uscisse. Soltanto una casa, al centro del viale, presentava un ampio ingresso aperto a bocca di caverna nella parte frontale al loro cammino. Dalla distanza vedevano la penombra appartata lungo i bordi visibili della porta, e simile a un alone che circondasse l’alta figura della persona seduta davanti all’ingresso. Sopra la sua testa, per un inganno prospettico di in un punto più a fondo dentro l’abitazione, si gettava verso l’alto un corno, quello che probabilmente era il pilastro centrale della casa, fatto d’un bianco osso capace di incorporare particelle fosforescenti rispetto all’oscurità circostante. Pareva trafiggere centralmente e senza dolore il cranio di lei, e poi il tetto, e svettare dominante lassù. Forse nel villaggio dell’ampia radura nella foresta, abitato da quelle donne che non sembravano umane, era tuttavia condiviso un basilare principio che gli uomini estranei conoscevano molto bene: il tetto più alto è quello della persona più alta, e la persona più alta è una persona che qualcuno chiama regina.


La regina è una persona che acconcia i suoi capelli, li controlla. Lacci, o altri capelli anneriti, cristallizzati in coroncine rovose e crepitanti, coordinano le masse di ciocche in modo che assumano una certa forma nell’aria sovrastante la fronte, per poi ricadere all’indietro e carezzare il dorso in una linea perfettamente controllata di tende lisce e fruscianti. Le ondulazioni sono quasi assenti, smuovono solo lievemente il colore biondo come a filtrarlo in una traballante coltre di calura. Le orecchie, visibili, s’appuntiscono e incurvano all’indietro, dando alla fronte scoperta e alla forma affusolata del volto un aspetto aereodinamico. In attesa, lo rivolge all’aria che penetra con lo sguardo come vedesse attraverso interessanti e gelidi cristalli, riflettendo se stessa nella loro fascinosa indifferenza. Un solo cenno, intermittente, sembra un tic: lieve inclinazione del volto. L’avvicina al dorso della mano lunga e quasi scheletrica, che si porta alle labbra, e sembra leccare tre volte. La posa poi sul grembo. La risolleva, lecca tre volte. Fa ticchettare le unghie perlacee, spaventosamente lunghe, sul sistema d’intrecci di corpi solidi simili a conchiglie e gemme scolorite che le ricopre la maggior parte del corpo a sostituzione d’un vestito regale. Il sesso scoperto è solo parzialmente ostruito da una conchiglia tagliata centralmente da uno schizzo verticale d’inchiostro, simile a un occhio, e in un atteggiamento che ha qualcosa di teatrale calibra la distanza delle gambe in modo tale che la scelta, estetica o rituale o comunicativa, non passi inosservata. La parte inferiore del corpo accoglie l’espressività e l’emozione che si prosciugano in quella superiore, scendono attraverso arti e ventre, trovano appendici capaci di dar loro sfogo. E per forza di cose si circondano di sfarzo, quello che nel mondo degli uomini estranei è chiamato un “trono”: si aspettano di veder ossa della stessa specie di quel prodigioso corno, con la punta ricurva minacciosa sul tetto, spuntare qua e là per cingere il sedile in eleganti gabbie. Ghirlande di conchiglie e sassi sconosciuti calano dalla vita e ricoprono, cozzano forse seguendo il ritmo dei volteggi della terra. Non si vede bene il trono, neanche una volta avvicinati. Sarà un masso. Forse un masso importante, forse una specie di pozzo. Kiy immagina fiati segreti che aggregandosi in geyser sotterranei si gettano dalle profondità della roccia verso l’alto per raggiungere lei, la invadono entrandole nell’ano e nella vulva, recandole ispirazioni assemblate da laboriose vitree particelle in acque del sottosuolo. Lei non è un mero ricettacolo: quella che vedono è solo la forma fisica di un pensiero generato dall’isola stessa, da lei stessa che si fa uguale all’isola: tutto ciò che le accade e che accade intorno è simbolo. È allegoria di una cosa che sogna conservando la capacità ingenua di sognare d’una creatura umana che un tempo doveva esser stata.


Fu lì, in piedi e con le caviglie sfiorate dalle ombre dei suoi due compagni anche loro in piedi accanto a lui, che Kiy ricevette per la seconda volta l’occhio dell’uccello, e con lui tutti i fantasmi trascinati dal suo mondo oscuro.

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