dove c'era un paguro- capitolo 4
- Milky
- 30 nov 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 1 dic 2022
4
(pezzi di ninfa galleggiano in un magma di indistinzione opalescente. Una coda di pavone spiovente adagiata su onde, uguale a cristallina armonia tracciata da rugiada che scivolando giù lungo trame vegetali si sfrange e a da ciascun globo vitreo reciso spara raggi di luce, nuovi soli. Pezzi di regina si mescolano a quel cielo blu e verde e giallo, quella coda, quella notte vasta: lei è una coscienza che smette di vedersi, pur sapendosi esistente, lei affoga in una specie di mare. Io sono una regina e sono un’isola. Tutte sono isole. Ma le altre isole, che sono a forma di pesce, che sono a forma di tartaruga di mare, da me vengono, e chiedono che io pronunci delle parole che possano chiamare saggezza. Dovrei dischiudere un forziere attorno al quale a lungo ho attorcigliato draghi di fondale, murene, re d’aringhe. Il mio petto è senza vita mobile, il mio petto è non-vita furente: vulcani subacquei che mandano incandescenze fino alla superficie lontana, placche -qualcosa che nessuno sa nominare, qualcosa che è numerosi giganti dormienti sotto i più profondi strati della terra, e sposta i continenti, e decide quanti maremoti uccideranno gli esseri del giorno. Loro vengono a me: annego in questo incanto, come isola, mentre divento le piume dell’uccello del cielo e del mare che ha disteso la coda sul mondo, facendone un velo che una regina può vedere, in cui una regina può entrare. Sono la casa reale dell’isola e le sue vene salate, sono l’isola, sono le acque intorno, sono i voli alti nel cielo sopra, fino alle montagne, sono sui picchi la neve, l’acqua, dentro, falde, vene, sangue, sono un bagno nel mio stesso sangue e a ciascun respiro ogni cosa vibra e avviluppa in suoni d’abisso come fossi in gestazione dentro al cuore di una sirena che canta ininterrottamente. Un cuore di pesce, fatto di squame e branchie. A volte ricoprono anche me. Se mi ferisco con le spine degli arbusti, nascono sul mio corpo altri buchi da cui respirare. Se il sale graffia la pelle, facendone tessere cadenti, nasce su di me una livrea che mi farebbe luccicare se m’inabissassi. Ma sono ancora una bestia di terra: mi accarezzo la faccia con una mano, una zampa, per pulire gli occhi. Io sono i miei occhi mentre raccolgo con le mani, con gli artigli che nei polpastrelli tengo nascosti, questa vanagloria di non aver gloria né nome né io. Perché coloro che mi cercano e chiamano loro regina non vedono che sono come loro? E perché accetto che mi vedano così? Queste domande nei miei occhi che diventano pesci che diventano alberi le conservo ancora, da un tempo in cui me le ponevo, ero una creatura chiamata ragazza, una creatura che adesso è morta. Trovavo in passeggiate di giorni di malinconia quasi tenebrosa, quasi generatrice di vere nubi sopra di me, segni su spiagge e scogliere di devastazioni avvenute in nidi di sule, e i frammenti di uova, nidiacei, piume -ciascuna una coda intera, ciascuna lo stesso cosmo di arabeschi di cui l’uccello integro è messaggero. Significa che ogni essere chiamato ragazza, chiamato nidiaceo, chiamato uovo, chiamato individuo cresciuto, chiamato ali che ora sanno volare, chiamato respiro palpitante che si vede sotto il gozzo anche quando è immobile, chiamato pulsazione inspiegabile che continua nel petto, prima o poi si disintegra. Io sono regina e non sono più là, io sono serena. Ma vengono da me a chiedere che dischiuda il forziere che dovrebbe esistere nel mio petto, o nel mio cranio, in ciò che è visibile. Vengono da me, sia sorelle che figlie, e sono foche che hanno timore del latte che le gonfia dentro, e sono pesci che non vedono l’acqua e non capiscono come possa essere il loro respiro. Ho mani che possono accoglierle? Le vedranno, un giorno, aprirsi, enormi, sono giganti di dita che un giorno sorgeranno spalancandosi sull’isola, corolle roteanti di carne per ricevere la lenta cerimoniosa caduta del sole. Questa è profezia e rivelazione, l’unica per tutte loro, povere creature di quest’isola. Non hanno che una speranza: vedere il giorno in cui il sole tramonterà per l’ultima volta, vederlo diverso da come apparirà in tutti gli altri regni del mare. Perché la regina che ci sarà allora -io, una mia discendente, ciò che divento quando credo che siamo la stessa cosa- esisterà per accogliere. La caduta, la fine, e tutti i pianti che ci sarebbero stati nella fine, tutto bagnato dal fuoco. E grazie a questo, grazie al sole che comodamente può entrare dentro lei, nelle sue mani di gigante sull’isola, nelle sue ferite, nelle sue cavità, vedranno la fine come fosse nient'altro che un ultimo, bellissimo tramonto. È questo che sono per loro? Un bellissimo mostro di leggenda? Una ragazza viene da me, no, viene dal mostro, che è l’isola stessa che è il cielo stesso. Mi chiede qualcosa, anzi mi parla di qualcosa. Che accadrà. Oggi vengono tre uomini. Noi li attendiamo.)
(sorella, madre, regina. Le tue mani un giorno si apriranno sull’isola per far addormentare il sole?)
(sarà un sonno d’incendio, nulla diventerà leggero fumo uscendo dal fuoco. Tutto diventerà greve cenere, e marcescenza di fiamme su percorsi di carne, cicatrici.)
(Regina, cosa accadrà, con quegli uomini?)
(la guardo, sostituisco gli occhi. Diverse gemme faccio incastonare nel cranio, al volgere dei secondi. Ora i miei occhi, nella testa di bestia mammifera, nel cuore di pesce, nel mondo di pavone, ora i miei occhi sono invece lucertole che scintillano di squama in squama sotto i passaggi del sole. Diventano altro, e muti, parlano in questo modo. Camaleonti appaiono in pomeriggi in cui le viscere si riempiono di pazzia e lanciano verso l’alto un calore che vuol ruggire, vuole uscire in urlo contro la persistenza del sole. In quei pomeriggi, camaleonti nei cespugli; e le zampe prensili tese, tremano nell’aria, tra un rovo e l’altro senza ferir mai i palmi callosi; e il fruscio incessante, come impigliato tra le spine per continuare ad agitarsi a mezz’aria, appena la creatura sparisce in una cavità formata dai rami e le nuvolose foglie aromatiche; si può anche tranciare tutto l’arbusto, e non si riuscirà a trovare nessuna creatura di quelle dimensioni capace di produrre rumore e agitazione dei legni calpestati: sparito attraverso quel portale.)
(così diventano i miei occhi quando li chiamo rettili, li chiamo portali; e tenendoli in silenzio, tenendo sigillate le labbra nascoste nella pupilla, lascio che in altro modo parlino e chiedano a lei, mia figlia, mia amatissima sorella senza nome e per sempre diversa da ogni altra cosa che esiste, e per sempre diversa da se stessa; lascio che le chiedano, come a trafiggerla -la vedo quando le tonfa in fondo all’addome la viva e scalpitante voragine creatisi alla domanda non udita-, riguardo a ciò che teme, ciò che la fa muovere; cosa c’è in tre uomini che vagano sulle spiagge e i confini di foresta di un’isola sconosciuta a tutti, cercata in viaggio in un mare d’anomalie, a iniettare movimento e volontà nella sua forma, nel suo animo che come quello di tutte le sue sorelle e madri e figlie è il più perspicace che sia mai esistito -e che pure non sa trovar altro sbocco al suo essere, in contorcimento nelle profondità di se stesso, che non sia la domanda, che non sia la richiesta, che non sia l’urlo d’aiuto mitigato dal turbinio equalizzante delle parole del linguaggio quotidiano. Tutti gli spiriti perspicaci di questa terra vivono in anticipo e costantemente rivivono, ogni volta che chiedono e incarnano la debolezza e paura stesse del domandare, il giorno ultimo di tutta la stirpe vivente. In cui in ginocchio si sente precipitare dal cielo infinito e incontenibile il peso di qualcosa che la migliore e più intensa profezia non avrebbe potuto mai generare, comprendere, raccontare. Ogni volta che una mia perspicace figlia chiede aiuto lei sta morendo nell’ultima solitudine della specie vivente, quando prima dell’ultimo fiato a ogni cosa viva è richiesto di arrendersi, e domandare un perché, e rimanere senza risposta.)
(la mia risposta è la responsabilità dell’ultima bugia -consolatrice, o assassina, o premurosa, o simile a una canzone o simile al vento tra fronde- sussurrata nell’orecchio dell’ultimo istante prima dell’ultimo fiato. La mia risposta è il mio esserci: e le chiedo essendoci, con occhi lucertola, cosa le succede quando sente avvicinarsi sulla sabbia i passi di quelli che arriveranno, ed entreranno nel nostro villaggio. E lei nemmeno risponde, lei che è diversa da me e non è regina, non sa sostituire in un istante i suoi occhi. Risponde con le spalle e i sospiri, e un’agitazione del petto che non esiste sull’isola, che esiste solo quando qualcosa mi si avvicina. La responsabilità dell’unico dolore inflitto. Il comando esercitato da una cosa viva.)
(sei confusa, figlia mia. Qualcosa entra da noi: sono intrusi, ma noi li accoglieremo. Non li rigetteremo verso il mare. Sarà il mare forse un giorno a rigettarli, o al contrario accoglierli, in un modo che loro non sanno chiamare ospitale. Vogliono vincere quella forma d’ospitalità che sempre si deposita in tutte le cose; che è il fondale intero dell’oceano e del suolo, gli strati passati ed estinti e sovrapposti. Lische e conchiglie. Quell’uomo che in silenzio li guida, figlia e sorella mia, è un capitano senza parole di comando, e ha deciso di ricostruire ciò che ha perduto dalla calce delle conchiglie più strane di tutte. Quelle che hanno denti e buchi e orbite oculari, intente nella fissità dello sguardo di caverne dove un tempo c’era un paguro. Ricreare un tappeto di conchiglie per seppellire quel guscio vuoto.)
(figlia mia, sii non più confusa. Voltati dopo aver ascoltato me, che chiami Regina, e torna a essere la creatura priva di increspature, infinitamente saggia, che sei assieme a tutte. Perché così deve essere. Perché è questo un mondo in cui le cose sono scritte in maniera incontrovertibile, in maniera che fa male, fa male, fa male, persino a me, che mi avete eletta isola, che mi avete eletta strega uguale al cielo, e agli elementi. Un pavone di vento, un calore mammifero, un pesce del freddo che scorre, una sabbia di lucertola. Eppure fa male. Ma non vederlo, tu, e se lo vedi, dimenticatene. Sei fatta per recarti da me, e provare per un solo istante l’angoscia, e per vederla subito cancellata, mai esistita, dopo esser stata insieme a me; sei fatta per ricevere il mio tocco, il mio occhio eloquente, il mio sorriso anche; e per andartene tranquilla mentre io continuo a guardarti, rimpicciolirti e sparire oltre una linea della distanza, oltre la quale c’è la tua vita; e soprattutto per questo sei fatta: vivi, e non sapere assolutamente nulla, mai, di tutto questo, del mio dolore che ancora da qualche parte esiste in quelle parti in cui era esistita la ragazza che aveva nome me stessa.)
(vedo mia figlia e sorella, senza nome, che porta come clamide la sua unica irripetibile esistenza e la fa scuotere a ogni passo, le spalle verso me, le spalle avvolte dalle ipnosi della capigliatura, dal sole e le ombre. Nulla d’altro esiste che io possa chiamare amore. La tua figura che se ne va. La tua vita dopo questo momento, tu che andrai in spiaggia e ti rannicchierai. La tua orina in rivoli se ne scivolerà verso il mare, sulla sabbia, attrarrà granchi e isopodi, sarà schiuma in cui s’intrappoleranno piccoli arcobaleni; e vi si mescoleranno a volte le tue lacrime, perché sei ragazza e certi pomeriggi li odierai e saranno il grido tuo lanciato con gloria e furia al mondo e il suo incomprensibile esserci; e poi ti alzerai, e ti siederai su uno scoglio per essere la tua sola sirena che canti nel mare del tuo esistere, e alla bocca come una bimba ti porterai le dita e il polso per succhiare e così rinfrescare le piccole ferite che ti sarai fatta nel muovere come una medusa indolente la mano tra le trame d’una bellissima trapunta di conchiglie adagiata sul limaccioso fondale del primo sottile strato d’acqua di là dalla battigia; e in altri passi che condurrai oltre quel momento, e in altre scene che disegnerai attorno alla tua figura capace di muoversi in questo posto, sotto il suo sole e le sue ombre, dimenticherai le ferite e le cicatrici e il sapore del tuo stesso sangue rimasto come polverina nella lingua e nello sguardo che lanciasti a tutta l’acqua e tutta la terra e tutto il visibile che ti circondava quando mettevi in bocca una parte di te.)
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