dove c'era un paguro- capitolo 14 (finale: senzanome e rumore)
- Milky
- 7 apr 2023
- Tempo di lettura: 43 min
14
(Anche in piedi, forte e deciso, anche sotto il sole, gli sembra di affogare.)
(In una stanza dentro di lui: una mano tesa: non mi abbandonare. Vede nel cielo la stessa ombra che aveva condotto tutti i suoi compagni, tutti i suoi simili rimasti, dall’altra parte del mondo. Sotto le ampie ali, i rannicchiati artigli dei pugni squamosi che pendevano sospesi nel vento, a rapire e abbracciare le distanti sagome del suolo.)
(Chiude quella stanza. Si fa il silenzio in numerose aree della mappa del posto chiamato Kiy. Un silenzio diverso da quello che aveva sempre custodito, un silenzio che s’eguagliava dentro e fuori. Come una spiaggia che venga visitata dall’anima d’un morto, ed echeggi soltanto della paura d’uno che li teme, così tanto da provocarsi epilessia. Hr, che lo insegue, i passi assordati. Si sta facendo giorno.)
(Il giorno è schiuma rossa. Lambisce le sporgenze della roccia che vuole assassinare il visibile -vuole, lo vuole intensamente, quasi provi desideri più forti di quelli d’ogni carne nella sua violenta e frastagliata tessitura di silicio e ombra pura, fresca come tane bagnate di granchi. Rischiarata dal sangue del sole albeggiante -sangue solo vede Kiy in silenzio. Kiy che si avvicina al giorno. Come un miraggio. Come gli ultimi passi prima della spiaggia finale.)
(Kiy in piedi, alto, più alto di quanto mai era stato. Un nuovo rigore nella postura. Un obelisco forse, nella spina dorsale. Ma chi è stato a conficcarvelo? Male deve fare, come ogni cosa che venga trafitta, ogni cosa che sperimenti un promiscuo e feroce scombinarsi del proprio interno ed esterno. Tutte le cose incontravano questa fine, tutte le cose dovevano distruggersi nelle loro parti e venir raccolte soltanto dagli occhi e le dita -e gli artigli e le ali- di uno spirito misericordioso che sorvoli i poveri resti delle cose diventate resti -Kiy è colui che solo questo pensa, ormai, e pensando soltanto questo, può esserlo.)
(Kiy visto di spalle, acqua e terra sinistra destra. I primi raggi gialli nell’incombente marea rossa s’impigliano nella barba che sporge rigonfia ai lati, come un collo di lucertola gonfio di falsa minaccia. Hr la vede, avanti a sé, catturare la luce, in due alettoni laterali alla figura che s’intaglia di spalle in quell’orizzonte di miraggio che non s’è ancora dissolto -che Hr non ha visto, cieco anche lui come la sua preda-, anzi diventando più solido.)
(È un po’ come…..-pensa Dii, quando comincia a prudergli più forte nel naso ormai sveglio l’odore della salsedine- …….è un po’ come quando seguimmo la prima fanciulla nel bosco. Si pensa una cosa alla volta.)
(Dii ha ragione.)
In Dii c’erano foreste intere di corpi diversi dal suo, enigmi. I punti interrogativi formicolavano ancora, sconquassandogli i consueti percorsi delle vene, ridisegnandolo internamente. L’ultima notte che avrebbe ricordato era una poltiglia indistinta di odori e le loro scie, segni d’artigli che esalavano grumi fragranti veloci ad avventarsi sui vasi sanguigni delle narici, continuavano a seguirlo sulla spiaggia, ricordandogli la foresta alle spalle e l’esperienza d’aver compiuto dei passi nella confusione più sconfinata del suo mondo, avvezzo all’immobile, a un nutriente costante sfinimento. Fotosintesi dell’archiviazione sensoria. Graffi felini già cicatrizzati su braccia che non sentono, abituate. Corteccia.
(Kiy è arrivato. Nessuno saprebbe dire come, e Hr non è un testimone: è un corridore dello sfinimento, tutto quanto vede è miraggi. Ce l’ha fatta però. Kiy schiaccia un’orma di sé che attendeva già di posarsi, scura e silenziosa nella roccia d’aspetto lavico come una tracina acquattata nel limo. In pochi istanti ha varcato quel netto confine, di bianco e di nero, tra sabbia e conformazione minerale, abbarbicata al suolo come improvviso tumore, comparso oggi scomparso domani. Una zona dell’isola, chiamata baia da chi la brama, appare rocciosa nell’angolo più lontano dell’isola, lontano da ogni altra sua parte.)
(Seghettature microscopiche e innumerevoli grattano le piante dei piedi di Kiy, marcia inarrestabile. La pelle scalfita da tutto e sensibile al niente risponde: sono a casa. Non mi abbandonare: così risponde invece una porta chiusa, ma ancor cigolante, nel cervello. Parla a una nave lontana, a una nuvola, un miraggio d’avvoltoio?)
(Nessuna nave compare nel mare. Una foca guaisce e si tuffa da uno scoglio sferzato da un moto d’onde violente -un leggero vento s’alza quella mattina generando effetti insoliti, eccessivi per la sua natura. L’animale grasso e bruno, cagnaccio oleoso, scompare, in un attimo agilissimo e invisibile, nelle profondità tartarugate sotto i cerchi concentrici del suo tuffo.)
(Nessuna nave compare nel mare. Nella mente una marea e una tempesta riversano pezzi di relitto e di gamba. Denti di squalo e strane, indescrivibili ferite liberate da ogni cosa che possa recarle: mappe di scalfittura e sangue incrostato che fluttuano indipendenti ed eterne somigliando a vermi liberi di volare, rimbalzar nel vuoto o nella sordità d’abissi luminosi come quelli in cui fibre di kelp catturano il sole, facendone raccolto e grano per l’inverno. Forse anche il loro mondo laggiù raggiunto, altro non è che una serra in fondo all’oceano. Forse così è ogni isola d’ogni mondo sotto il sole giallo.)
(Un altare. Quello scoglio che si vede là, distanziato dalla linea bavosa dell’acqua a ricordare l’ancestrale sommersione delle terre intere, è un altare. Nero e frastagliato: fratello della baia che li aveva uccisi tutti. Vedendolo Hr grida. Tende una mano. Racchiude in essa la figura di Kiy rimpicciolita nella sua ostinata distanza senza senso logico. La stringe, credendo d’ucciderla, formica. Grida Hr, che più della vista del luogo di morte non può tollerare la vista d’un altare.)
(Qualcosa di scuro fruscia nella vegetazione -l’ultima che esiste prima d’estinguersi a contatto con la sterilità del suolo fintovulcanico della baia miraggio-, raggiungendo le orecchie dell’inseguitore ignaro di esser fuggitivo. Negli incubi di Hr, agonizzanti e inascoltati, tormentati dalla paura di non aver più notti avanti a sé per sprigionarsi -nei loro antri d’irrazionale si fa avanti da quel frusciare una figura nebulosa, di peli ispidi in barba e denti. Zoccoli caprini smuovono solchi di sabbia ed erba sotto la sua ombra, corna ricurve e seni forano con ostentata notturna irriverenza la luce, ormai confermata, del giorno.)
Ciao, sentì Hr, mi riconosci? Ma riconoscere qualcuno o qualcosa era una difficoltà di Hr. Qualcuno o qualcosa erano l’allucinazione di Hr che credeva sentiva insomma sapeva insomma era convinto di essere solo in una fossa umile merdosa piena di pupazzi inerti, comprendonio limitato all’incameramento di percosse. Solo così capiscono e mi faccio capire. L’allucinazione di Hr esalava dai tormenti del corpo, acqua salata a infuocargli il grembo, produceva convinzioni nella coscienza, anzi le nutriva. Hr non ricambiò il saluto e suoi ciechi imprendibili sguardi circolarono circospetti lateralmente come in cerca di selvaggi osceni, di infide trappole della ragione e la concretezza.
(Kiy avvicina le mani all’altare. Kiy si è fermato. È raggiungibile. Qualcosa s’era rotto nel cielo e Hr sa che Kiy s’è reso raggiungibile. Sente lo stesso spezzarsi -non riconoscendolo- d’una lancetta d’orologio in una casa lontana, un’attesa lontana. Un salotto bruno. La sua forza, la sente esplodergli nelle braccia, nella bava colante che sporcò per la prima volta il viso di qualcuno, indifesa. Aveva deciso lì di rompere l’orologio con quel gesto, ringhiandole che era stato quello a farlo impazzire così come lei lo vedeva, incombente, intimidente, timido nascosto dall’alito che appannava la faccia, cancellando dal mondo ogni unguento, ogni aggettivo eburneo. Riempito di cani.)
(Qualcosa s’era spezzato nel cielo, tutte le lancette del mondo si spezzano. Dii emerge infine dalla foresta. Un brivido come mai ne aveva avuti, perché s’era spezzata la lancetta dell’orologio del suo vecchio paese, cadendo dalla parete, sopraffatta dal raglio del pomeriggio. S’era spezzata e un brivido come nessuno mai: perché diceva, convinto: non rientrerai nella foresta, mai più. Nella schiena che s’allontana dagli alberi, quasi inconsciamente a salutarli, si disegnano allora dei brividi. Sudando Dii ha visto la costa nuova d’oscurità e ruvidità. Figura officiante che sembra un re d’ombra che assoggetta e che ottiene. Kiy in piedi, alto.)
(Hr sa che Kiy può esser catturato dall’inseguimento, adesso: qualcosa si spezza nel cielo. Ma anche in lui che col cuore in gola s’è fermato. Perché mi fermo? Perché sto fermo? Quasi non vuole più inseguire e impossessarsi di niente. Sfiancato sulla soglia rocciosa. Vede da lì, come a studiarlo, Kiy che rimescola in un perverso massaggio privo di calore le mani sull’altare.)
(Notano tutti e tre, in momenti diversi, le grotte. Fin laggiù si spingeva l’acqua della baia ed entrava, acqua delle caverne, antenata. Lì gli scrosci del mare graffiano, vivi artigli sulle cortecce. Non ti abbandoneremo, non ti abbandoneremo, ripetono. E annuisce sapendo dove andare Kiy, pieno di direzione e decisione, che non aveva avuto, che non gli appartenevano. Pieno di tutto tranne sé: si dissipa il vento crepuscolare di se stesso nel suo torace, accogliendo un eterno giorno. Perdendosi. Salire al trono è perder se stessi. Per alcuni è così.)
Per te, Kiy, echeggiò lontana una serena regina dissolta negli interstizi ventosi tra gli stalattiti, per te è così. Sembrava le sirene trasparenti nella roccia e il cristallo di un tetto, un sottosuolo chiamato grotta che emerge per prender fiato scrollando gobbe cetacee dal pelo d’acqua, che in lei rientra, sempre refrigerante e di parole premurose in maniera quasi sospetta, perché naufragate da un passato troppo lontano per ricomporre cause effetti evoluzioni inganni seduttivi nascosti nel processo. Fisica di riverberi diafani biologia dell’ibrido. Musica planetaria risuona dal calcare cristallino, mandando luccichio e stillicidio di stalagmiti opalescenti come ghiaccio.
(Un ultimo ricordo: Kiy è entrato nell’ombra del sistema di caverne: un ultimo ricordo simile a un lampo, poi gli altri si fanno solo torbida oscurità, scorrente in canaletti sotterranei del suo esteriore solare. Un ultimo ricordo: lei permane in un ultimo balzo ancora, nella sua mente che s’era lanciata in viaggio la notte precedente: i suoi passi di volontà che ancor vedono l’ultimo balzo della lince dorata, prima di annuire, camminare inseguito e disperato e risolto.)
(Forse un gatto in foreste lontane, che nessuno avrebbe mai più rivisto, fantastica di quelle bestie protagoniste dell’immagine e dei tesori degli umani -vede rifulgere d’oro e sole terrestre, sole feroce che squarta e ruggisce, i leoni dei bassorilievi e le corone regali e le mappe della terra, e dei dipinti che ancora vivi e capaci di far male si dipingono nei giorni e nelle notti di irrazionale, sprigionando ogni arte celata, ogni selvatichezza dello spirito.)
(L’acqua cancella ogni rete di luce proiettata ogni istante sulla pavimentazione, soglia che sembra lava solida. Baia che è viscere d’un vulcano spento. Tranquilla acqua trasformata in tiepidi raggi come magma traslucido indifferente agli schermi del sottosuolo. Questo è il luogo in cui Kiy per primo arriva. S’odono i passi di Hr che ha finalmente ricominciato a correre non avvedendosi della differenza nel suolo calpestato scelleratamente. S’ode indifferenza. S’ode un pasticciar d’acqua come se in quella grotta da qualche parte si rifugiasse un proteo giocoso, una foca estinta. Solenne, Kiy avanza, non preoccupato. Un nuovo altare lo attende. E finalmente vede la sabbia. In fondo alla grotta una sabbia che non si ferma nell’occhio: né gialla né grigiastra. Inscomponibile ambra.)
(Non è un ricordo. Sospirando chiude gli occhi. Se in quel momento vede ombre, le stesse due ombre che avevano tratto Hr e Dii fuori dalla fossa predatrice, non è perché le sta ricordando. S’incidono nel rossore lancinante dentro le sue palpebre. Sfrigolano contro le fragili cellule degli occhi chiusi, demolendoli. Li apre. Sono stati trasformati. Ha visto la sabbia, finalmente. Pregiata sabbia della migliore clessidra di sempre. Si proietta in un futuro ipotetico, di mano che raccoglie, lascia ricadere, e ogni granello luccica d’un colore e suono che non esiste in nessuna spiaggia e nessun deserto, che esiste solo là, nelle rive sporgenti di roccia attorno a una pozza battesimale di mare infiltrato in fresche e ombrose grotte costiere. Una musica scende dalle dita, la sabbia frusciante è una canzone che s’esaurisce nel tempo, e subito resuscita.)
(Per quanti rivoli di sabbia rotolino nel pozzo, disciogliendosi e perdendosi, e per quanti altri ancora si frantumino nell’invisibilità del mondo microscopico diventando impalpabili nuvole che impolverano impercettibilmente l’aria, per quanti ne spariscano in altri modi e fughe, quella sabbia non s’esaurisce mai. La sua quantità sembra rimanere la stessa, sempre. Questa era tutta la magia dell’isola e nient’altro in nessun altro luogo. In quella sabbia, poca eppure inesauribile, depositata attorno ai bordi rocciosi dell’acqua, si concentra ogni avvenimento, ogni assurdo, ogni inizio ogni fine.)
(Kiy ha già aperto gli occhi quando Hr infine entra, come irrompendo in una stanza nello stesso istante in cui ogni parte di sé dimentica cosa stesse cercando. Indifferente a Dii che giunge pochi istanti dopo, foglie morte sui polpacci ragnatele nelle narici. Dii indifferente a tutto. Sembra il solito, non lo è, non lo sembra, non sa decidersi: emerso da una notte senza regole, soltanto subita, si guarda intorno e riconosce i nomi che da sé aveva dato alle specie degli stalattiti e stalagmiti, trattati come animali dalla commissione scientifica di se stesso, diciamo una qualche specie di bizzarri crostacei. Eppure non riesce a far funzionare la sua osservazione. Nessuno di loro ha modo di preoccuparsi ulteriormente di simili problemi.)
(Kiy ha aperto gli occhi davanti alla sabbia.)
(Hr piange. Pelle desertificata s’amplia colonizzando il volto laddove sono scivolate le lacrime e si è affievolito il loro contatto come per l’intorpidimento di una puntura di mosca. Vede cambiare Kiy, ch’era stato nella sua fuga monomaniaca sempre identico a se stesso e perfetto e integro e chiuso in un unico visibile cerchio di tutto quanto era stato, lo vede ora in altra forma.)
(Dii stanco. Nell’ombra delle conformazioni rocciose vien raggiunto, dietro alle orecchie e come in carezze sul collo, da un materno sciabordio delle acque chiuse. Si accorge all’improvviso di aver attraversato un’intera foresta e di aver stampata in sé la vaga impressione di un sogno intenso, ma dimenticato. Vede incorniciato in un’ellisse bucato nella parete roccia il mare azzurrissimo. Puro pensiero. Deturpato naturalmente e di continuo dalla frenesia della schiuma. Punte bianche intermittenti sulla superficie. Cervello e sua malattia.)
(Uno scroscio intollerabile di tamburi. Sembra che debba arrivare la caduta del sole, programmata per quel giorno che nessun calendario segna in quel paese: giorno noto solo per essere inscritto nella costituzione fisica: e gli esseri tremano in risposta, senza animosità per questo o qualunque destino. I più piccoli tra i granchi e gli insetti saprofagi dei cadaveri di schiuma e gli scogli e le alghe schizzano nelle insenature, sinfonia dell’autoconservazione. Nella grotta della baia trovano riparo dal rimbombo assordante: ogni cosa diventa eco tranquilla dall’altra parte di pareti vecchie come il tempo, giovani di pochi istanti e presto pronte a sparire.)
(I miraggi si spostano e mutano forma. Dentro il miraggio, dentro l’ingrandimento dell’insenatura più minuscola dove prendono dimora gli esserini impregnati che filtrano il mare: sono rimpiccioliti, è questo il senso del miraggio? O s’è ingrandito un buco insignificante per includere tre uomini? Perché dovrebbe interessarsi di loro e della loro specie? I miraggi si spostano. Isola di spostamenti ed esseri migratori. C’è un’ombra di scimmia da qualche parte in ascolto a tastare con la mano la parete, come in cerca di movimenti crostacei dall’altra parte. Nuda a soffrire il sole che è nudo a soffrire perché vive ancora e non è questo il giorno della sua fine. Una simulazione. Solo una simulazione.)
(Essere un sacerdote è una simulazione. La medesima verità è due animali diversi nelle menti di Kiy e di Hr. Una verità è un falco del mare, un occhio che per primo s’è squarciato nel cielo della disperazione, nel mare inverdito dalla tempesta nera e di fulmini e pece sommersa secreta da ogni materia affogata e distrutta. L’altra verità è zanne sporche ringhianti, lingua rossa, soffi imprigionati negli interstizi tra le cose modellate per dilaniare.)
(Al riparo nella roccia. Si gettano a terra, riparandosi ancora con le braccia. Il tamburo scema gradualmente. Kiy rimane in piedi. Nei fianchi e nelle gambe sembra entrargli la percussione che mai prima era stata ascoltata sull’isola, il nuovo strumento, la nuova musica. Lui il suo suonatore involontario. Rimane in piedi: lo sguardo una lama, volizione contraddice. A terra Hr e Dii si guardano le facce forse un’ultima volta in ricordo di una morte insieme, guardano Kiy, in piedi davanti alla sabbia. Non sanno cosa guardano. Non sanno in che modo sono arrivati là. Un pazzo crederebbe che sono rimasti nella buca. Mai mossi da là -solo in verticale, sprofondo. Nessun’ombra rapace a scortarli fuori dal centro risucchiante del pericolo. Un pazzo.)
(Lo sguardo di Kiy, se è una lama, allora è ghiaccio. Pezzo di ghiacciaio. Decisione: solleva una mano e affiorano le vene dal braccio deperito che il sole ha a lungo abbronzato e scottato: saette palpitanti di sangue fino alla punta delle dita. Le richiude, infilzandole nel palmo: comincia a officiare. Decisione: raccoglie quella sabbia e una manciata la getta nell’acqua scura, dove vortica solo un istante prima di sfaldarsi in sottili spirali che capitombolano verso un fondale invisibile per qualunque essere d’immersione: pozzanghera senza fondo. Vuoto abisso.)
(Lama asportata da ghiacciaio. Precisione e comando accompagnano quel modo di piegar polso e dita. S’è seduto a gambe incrociate: comincia a far ricadere nuove manciate di sabbia al centro della forma assemblata dalle gambe, antico triangolo. La sabbia cade, rifluisce. Colonne si compongono una a una, venendo a esistere solo per il suo volere.)
(Per un altro volere erano morti. Per un altro ancora erano nati. Per il volere di Kiy sarebbero rinati. O così era sembrato un tempo. O, sempre per il suo volere, sarebbero rimasti dov’erano finiti quando erano “scomparsi”, ma non c’erano cose, tra quelle ingombranti, che scomparissero con la bellezza del vapore: rimasti dov’erano finiti quando erano esplosi nel nulla e nella crudezza e nel nonsenso. Per il volere di Kiy tutto avviene e la sabbia si deposita, frusciando. Sotto la lama glaciale degli occhi.)
(Hr vomita. Nessun fluido visibile cade dalle labbra. Aria infuriata viene sospinta attraverso la sua glottide, dal fondo rosseggiante di una vescica che esplode. Dii con improvviso disgusto e stupore, con improvviso e inspiegabile senso di stranezza concentrato in un singolo punto dello spazio e istante del tempo, osserva quell’infiammazione che palpita dal centro del compagno di viaggio fino a cingergli i reni e le adiposità tra addome e schiena.)
(Dello stesso colore si ricopre Kiy: una vescica vivente lo risucchia, parassitando: le sue scottature da sole. Fori nelle pareti della grotta, fievoli raggi: mostrano fulgide tutte le scottature che avrebbero dovuto riportare da quella loro interminabile marcia. Il corpo si ricorda adesso d’esserci stato, e di aver subito. Col suo dolore, peggio d’un cane agonizzante, il corpo viene a farsi sentire, prima d’andarsene, mutar significato e dimensione. Spellarsi. Squame benedette e maledette crollano una a una tra i piedi e dai fianchi, diventando morta materia del suolo, reintegrata, sbattuta senza direzione, sparita. Sabbia e detriti giacciono promiscuamente sul suolo sacramentato.)
(Sguardo glaciale tuona comando. Un altro conato di Hr. Dii cerca in quel mare incorniciato dall’ellisse, bocca di roccia, qualcosa, disperatamente. Sente il rimpianto eternamente amareggiato di un ruminante giunto all’ultimo dei suoi istanti con la consapevolezza di aver avuto in tutta la vita un singolo desiderio, palesatosi soltanto poche ore prima della fine, incapace di completarsi prima di stramazzare al suolo e veder crollate le zampe che in passato, appena nate, avevano reagito subito all’esistere, apprendendo la camminata con gioia fluida. Spezzate. Sente il rimpianto farsi nelle sue orecchie come le onde del mare osservato e i mormorii della caverna, e dirgli che vuole guardare, guardare, continuare a guardare. Distogliere.)
Kiy era morto, Kiy era certamente morto. Non più lui. Questa era la morte del sole, l’allegoria della più grande leggenda e profezia dell’isola: morendo, il sole avrebbe disegnato nel cosmo la sua vita, più che in ogni giorno vissuto: fiammate rosse nel suo saluto finale, il sanguinamento rovente: esisteva, era esistito, crepando prendeva tutto. Non esisteva il sé della notte. Da nessuna parte. Il cosmo tinto d’esplosione.
(Kiy era morto. Nel re del comando, lì seduto a gambe incrociate al suo posto, a giocar con la sabbia come un cucciolo di demiurgo sulla spiaggia della galassia che faccia ricader gli uni sugli altri come in pile di ciottoli i pianeti e i sistemi solari, nel suo spirito d’occhi ormai celesti e vacui e di voce pronta sprigionarsi dopo l’overture d’un baritonale terrificante ronzio proveniente sempre più gonfio da una caverna, nel suo volto: in queste cose c’è un nuovo niente: non desidera resuscitarli. La sabbia non ricomporrà i teschi.)
(Ma come, o qualcosa del genere -pare gridare Dii. O forse lo fa davvero. Disperatamente lo ripete anche Hr, tossendo, gettando conati nella roccia dura e fredda tra i cui indiscreti abbracci giace carponi, inconsapevolmente prostrato al re del comando. Ma nessuno ode o distingue i rumori bruschi grattati via dalla sua gola. Forse non griderà mai più al mare vasto davanti a lui in una sera burrascosa o in un’altra di quiete.)
(La sabbia ricade, luccicando, frusciando, indifferente. Disinteressata a qualsiasi progetto della materia non silicea. Qualsiasi interrotto desiderio di non morire, o di non veder morire mai più. Non è che sabbia magica simile a sassetti in matrice d’ambra grigia, materia bastevole a se stessa: nessuno scopo scritto nella sua caduta. Nessuna conclusione dell’inchiesta. Nessuna parola fine in fondo al poema.)
(Soffrì Dii, il personaggio ch’era stato nel quadro. Quasi nostalgia per quelle tempeste dipinte dagli inesperti. I portali appesi nella locanda. Che siano infine arrivati dall’altra parte, passando attraverso le cornici? Non è così bello. Fa paura. Vivere nella vita o vivere nella nonvita affollata di fauna, immaginazione: stessa cosa, stessa identica paura. Innesto da uno stesso seme: terrore: tempesta reale o immaginata, tempesta che riempie tutto. Anche nella quiete lo scrosciare dell’acqua. Calmati, dormi, calmati, dormi, dicono le ondine di sotterranee falde acquifere a Dii, sconvolto dal primo terrore.)
(Kiy parla e s’estinguono i suoni, le loro modulazioni. Le musiche del mondo sono solo ritmica. Per questo sull’isola viene inventato per primo il tamburo.)
(Vi preparate, mormora qualcuno, vi preparate a una nuova vita nel mondo rovesciato, nel mondo della nemesi. Ma è troppo esplicita, e pronuncia i suoi commenti quando è sicura che nulla sia in ascolto.)
(Le abitanti non stanno guardando. Per giorni, millenni anzi, senza nomenclatura e ansia di catturarli. Per giorni avevano percorso le spiagge fiancheggiate dai rivoli. Depositi della risacca. Indietro e avanti del mare, andare e tornare del suo confine. Passi grandi spargono le paure tremebonde dei passetti: minuti, ombre rimpicciolite: granchi e gamberi e sciami grigi terricoli: sono crostacei che nascondono ciò che avviene in loro, nascondono in conchiglie l’evento del loro esserci. Per millenni le abitanti erano trascorse di fianco al giorno della loro maggior leggenda, alla cui incarnazione, simulata o reale che fosse, forse nemmeno avrebbero assistito. Era necessario? No. Il sole, quando deve succedere, può darsi che vada a morire appartato come un gatto.)
(Nel fondo della foresta intanto nulla è necessario. Raggi picchiano tra cicale e dita frondose dei rami. Sembra che ovunque, sotto ogni ombra e sopra ogni sasso arroventato dal bianco, ci siano tracce di qualcosa che se n’è appena andato, una festa del buio conclusa di corsa, pochi rimasugli di disordine che quasi non si notano. S’ode però il tamburo, la nascita di quella notte. Vita ricomincia. Da qualche parte certamente un tamburo muore. Battiti così, di diversa specie, impregnano a fondo fino a passare inosservati le scene della foresta, come volti immobilizzati.)
(Il sole osserva senza morire, per il momento.)
(E Kiy muore perché non ha nemmeno lacrime per il proprio funerale. C’è una sua ombra in catene, stanze segrete presidiate dai filamenti sono invase dalla sua figura gettata in cella, a rannicchiarsi, pianger dentro se stessa per sempre. O forse non succede affatto: tutte le sue forme, passati presenti futuri reintegrati fino a cancellarsi gli uni negli altri e rimaner con una manciata di bianco nulla, sono compresenti e sottratti da lì, trasferiti in un altrove. Kiy scarcerato allora sta proseguendo la liturgia che gli è stata poggiata davanti, certamente da qualcosa che assomiglia al destino, unica in cui ancora crede, unica continuità.)
(Il suo gioco di sabbie prosegue come un tuono. S’ipnotizza, Kiy, della caduta da lui provocata: in ogni cosa sempre aveva scorto la sua fine, e ora in ogni cosa, in ogni granello ch’è tutto l’esistente, scorge come andrà a finir per loro: il paguro lascerà il suo guscio. Sarà pronto per uscire.)
(Andate, andate pure, dice Kiy. Monotono. Convinzione freddezza poesia che dilania e non imbalsama. Andate pure, dice Kiy ai teschi lontani, abbandonati. Non preoccupatevi, andate dove dovevate andare. Non vi ruberò alla via. Ho una nuova fede adesso.)
(S’aprirà il guscio. Della grotta miraggio, là nella baia dove si muore perché uguali sono tutte le morti nella costa e ovunque, non rimarrà nulla. In ogni cosa la sua fine. In ogni parete, dura, fredda, invisibilità. Non esserci stata. Loro, nudi, sotto il sole diretto, come al primo giorno, come all’arrivo. E lui. Imperatore.)
(Dii ha freddo. La voce sparge inverni, Dii voleva vedere le montagne, Kiy voleva vedere le montagne, ma occorreva farle scendere giù dal cielo dove si trovavano, quelle fate morgane dell’entroterra. Che distillavano gorgoglii dai burroni aperti e le rocce preistoriche, di tanto in tanto precipitanti sul suolo moderno. Chissà quali bestie lassù. Dii le sente nel tono. Questo è il suo brivido di freddo. Le carezze all’addome di Hr non leniscono.)
Voi andate. E voi, invece, venite: vi servirò all’altare. Quando sarà sparito. Quando tutto questo sarà sparito. E rimarrà solo una baia di morte, con i suoi tre falsi vivi. Avvicinatevi. Vi vedo. Offerta che reco è il mio sguardo.
(E Kiy vede gli dei e i loro figli e raffreddori e mal di pancia e tumori e innamoramenti dell’adolescenza senza importanza e colori preferiti e segni zodiacali e variazioni nelle forme e le dimensioni delle impronte nude sulle spiagge leggendarie del loro passaggio. Qualcosa vede e vedendo sente barrire, collo lungo del mondo antico che lancia il suo grave e bel lamento ai cieli di palude.)
(Kiy vede un gabbiano, il primo, nel cielo verde, i fulmini gli uccidono le ali e vola, belle ali spiegate incolumi; diventa un albatro; diventa un sole, ellittico; diventa eclissi; l’oscurità diventa l’unica cosa che nella sua pancia si vede: diventa giallo con una pupilla; occhi di lince madre, sei bella sei una manticora; nel buio s’erano nascoste le acque; diventano una preistoria immersa, corpo da tartaruga marina senza guscio, pagaie da un carapace di pelle indurita, il collo è una serpe che ha dentelli innumerevoli da delfino, serba un abbraccio e un soccorso agli annegati; e diventa tutti quanti; e affianco a loro balza un’ombra giunta velocissima dal nulla e dalle sue ancora sconosciute foreste; diventa tutti e uno spettro e bestia e umanoide e grida e ruggiti formicolanti dal suo centro, sparpagliarsi, colpire il petto. Pugni e dita e braccia lunghe e occhi notturni, le zanne sono sfoderate perché il volto è feroce e gli appartiene la foresta per la sua stazza, dieci volte gli spiriti guerrieri e spiriti dei morti suoi sottoposti; e gabbiano e albatro e sole ed eclissi e lince e mostro marino e lemure. Siete voi gli dei di quaggiù? Sì, risponde lo scrosciare ininterrotto del mare. Le zanne si vedono luccicare nelle stelle e nella burrasca nera.)
(Qualcosa, l’ultimo dio, in un altro mondo morde Kiy al collo, iniettandogli da laggiù il virus della somiglianza. Kiy è violento. Sente un fresco adrenalinico sferzargli le sporgenze d’un corpo nuovo. Lo sente per la prima volta.)
(Come le squame della sua pelle, sono crollate al comando fulmineo del suo pugno le pareti vicine della spelonca. Andiamocene, andiamocene, sembrano dire le gambe pedalanti nel vuoto di Dii che striscia sui glutei e si trascina dietro Hr quasi esanime, pesante. I malati aumentano di peso. La paura gonfia le ossa di Dii, rendendole gravi. Goffamente si allontanano evitando macerie in crollo, arrancando sul suolo che pare aver disconosciuto la loro appartenenza all’elemento. E anche agli altri elementi, forse: possono morire assieme, con quelli che se ne sono andati nell’acqua? Non è tardi? No no no dovrebbero gettarsi, solo camminando nei flutti e scendendo scendendo scendendo potrebbero. Dalla grotta sparita fino al largo. Pochi passi di una scelta. Semplice sarebbe: suicidio d’acqua. Nessuno lo fa. Arrancano lontano da Kiy che fa paura. Spacca la pietra, distruttore di mondi.)
(Macerie roboanti, questo il terremoto che producono i simboli quando crollano: presto evapora la roccia che non tocca suolo e non schianta i malcapitati: fa paura lo stesso: fa quasi più paura che non faccia male: la grotta s’estingue dopo aver svolto ciascun passaggio liturgico, la sua processione di distruzione.)
(Kiy, in piedi, alto, in colpi d’automa. Braccia cicliche di pugni serrati, magre, uniche forze che sappiano distruggere: egli apre le pareti del mondo, del temporaneo guscio, grotta mera conchiglia abbandonata dalla spiaggia dall’acqua dalla pazienza mineraria di eoni che hanno raggrumato bave del mondo, donando un’effimera, tanto effimera durezza destinata alla stessa fornace dell’ancor più effimera anzi insignificantissima mollezza, personaggi di quadri. Kiy, ora, eroe: stravolge. Non c’è più miraggio, esiliato dal suo padrone quando lo decide.)
(Non vede nulla. Argento o ghiaccio, giacimento di montagna. Sceso da lassù per depositarsi nei suoi occhi, forma una membrana, colore è diaframma. Nessuna luce filtra eccetto quella proiettata dalle cose del territorio di provenienza: immagini giganti. Titani in guerra: questa l’essenza dei sogni per Kiy, spettatore di guerre distanti, continue, danzanti belve del suo paesaggio. Ma esistono quelle montagne? Fate morgane dell’isola.)
(Kiy vede più nitidamente che mai i riflessi che altrove avevano sempre accompagnato ogni azione: agita le braccia e vede solo muscoli ricoperti da pelliccia nera che s’avventano sulla grotta, distruggendola, in sincrono alla sua ombra, all’unisono tra i mondi non comunicanti. Passano questi riflessi soltanto sulla retina, ombre sopra la superficie di una calotta ghiacciata impenetrabile. Lui vede un ululato fatto carne e una carne fatta di niente. Spauracchio. Ululato diverso da ogni altro emesso da tutte le altre cose nere.)
(Un pugno. Un urlo. Un altro. Le grida aumentano e Kiy capisce la storia, l’anatomia, la loro identicità: muscoli neri, pelliccia nera notturna e striature. Code che rimangono introvertite nel coccige. I muscoli ruotano e s’ammassano, l’essere che vede è una poltiglia senziente di muscolatura che l’evoluzione ha raggrumato attorno a un baricentrale osso musicale. L’evoluzione senza alcuna vergogna dell’assurdo, bramosa d’un caos d’esperimenti, ha messo quella muscolatura in piedi. Eretta imponente pollice opponibile: forse solo per quel momento, forse solo perché potesse, da un riflesso non comunicante, mostrare a Kiy, all’agente qualunque che dovesse infine agire quel dovere, il volto del tempo che si stava compiendo. Consumandosi ogni secondo e di questo gioendo in ultrasuoni, selvatico, arboricolo, sceso dall’albero, in piedi, mani forti, distruzione. La grotta non c’è più.)
(Il sudore appiccica tra loro le mani di Hr, saliva mononucleotica. Incancrenito nei movimenti d’un tratto rigidi. Al cielo volge gli arti e le sue sporgenze. Voglio diventare uno scoglio. Non più urlare ma essere urlato. Subire il mare e non ucciderlo. Ma senza affogarvi. È in quel momento che Hr vede, o gli sembra di sentir avvicinarsi sinistramente dietro di sé, sagome di creature in piedi. Le pelli sono cenere, suolo lunare. Sentendo voragini aprirsi nel respiro Hr cerca i loro volti e piange di paura e rabbia e irrazionalità. Decentramento.)
Mmmh, mhhhh, sembravano mugugnare le allucinazioni perverse, non chiedendogli nemmeno se le riconoscesse. Pazzo chi le riconosce, pazzo chi non le riconosce e le vede apparire per la prima volta sapendo già. Le braccia di Hr diventavano ridicole danze, smettevano d’avventarsi sugli ostacoli circostanti. Spinte in dentro verso le tempie. Pulsano accelerate e di fuoco prima del battito cardiaco. Lì si contrae la malattia.
(Dii non sa che fare. Sono inerti, schiacciati al suolo della spiaggia tornata deserta: senza la grotta, appare molto più spoglia e ampia e perfettamente intagliata nel blu acceso: forma della baia. Morso di disintegrazione. Sembiante riconosciuto ricomposto dalla memoria.)
(Sta in piedi Kiy, al suo centro. Appena diventato il centro. Luogo del suo ergersi. L’altare, qualunque cosa sia, pare esserglisi spostato davanti, passi decapodi svelti quando nessuno guarda. Roccia scura finta lavica. La tocca ed è ruvida. La tocca e sente tipi diversi di tatto, extraterrestri ed extracosmici, fuori dal conoscibile. Un liquido imbratta l’inguine e la nuda ombra di Kiy, grondandogli profusamente giù per le gambe. Il mare davanti osserva. Qualcuno un tempo lo vide e sentendosi mancare decise di chiamarlo oceano. Era con lui, era con tutti loro. Nel cielo e nelle acque e nei suoli eternamente danzavano mappe, i veri dipinti dell’esistere, le vere leggende. C’erano coste frastagliate e onde eterne e immobili e mostri e stelle del cielo che erano tutto questo ed erano specchio e resurrezione. Nostalgia della specie.)
(Già, non teschi dalle sue sabbie. Il tempo già consumato. Isola al centro di una clessidra: è questo il viaggio che finisce, il primo che finisce con la consapevolezza di star finendo, e la consapevolezza dei suoi componenti? Pezzi di rottame che torniamo a essere. Non io: io sarò l’isola: imperatore. Non c’è perché.)
(I volti che s’avvicinano a Hr. Biglie, pupille nel bianco che ticchettano, spostandosi agli sbalzi impressi dai passi. Fissità. Volto umanoide grigio acqua. Suolo lunare. Le imperfezioni e le dune sono più antiche di lui e ogni cosa che abbia mai visto e il pensiero gli dà vertigini e vomito. Nessun fluido esce dalle fauci che imprigionarono l’acqua di mare. Hr tossisce e li vede, hanno una proboscide carnosa al posto del naso. Dii non vede. Ha tra le mani Hr che smascella al vento come cercasse di mordere qualcosa attorno a sé.)
(Siete venuti a prendere me!, crede di articolare. Le sue mani s’incollano e fanno obelisco di vermi carnosi verso il cielo, credendo di toccarlo, in una sua minima parte, singolare molecola devota di polpastrello. I “diavoli”, così li chiama la sua milza dove s’è trasferita, scendendo, la sua psiche, che perlustra innervosita con gli occhi bulbosi a scafandro dal pelo dell’acqua di mare ingoiata, volto che diasporici popoli sabbiosi sottomessi alle proprie allucinazioni avrebbero chiamato serpente di mare, megattera, muso del delta; si sente al sicuro, mezzo rifugiato laggiù; lo è davvero? Sente il loro odore demoniaco: reagisce con l’acqua dentro, che ribolle. I “diavoli” simili a rocce, interiora di collina resuscitate, circondano Hr. Cosa ne faranno?)
(I diavoli circondano Dii. Cosa ne faranno? Dii non li vede affatto. Comincia a sentirsi strano: gli si sono intorpidite le gambe. Non gli dispiace. Non vuol muoversi. Ma fa paura lo stesso. Sa che Hr ha più paura di lui e che non ha fatto niente. Che posso fare, non posso far niente, avrebbe detto. In fondo erano animali egoisti. Cosa ti aspetti.)
(La grotta ricompare, solo nel campo visivo di Dii. Si richiude attorno a lui. Qualcosa, in un angolo di ibridi tra fitta fredda penombra e luce frazionata dai fori che minutamente costellano ogni rientranza e lì stanno appesi in sonno da pipistrelli, lo attende.)
(La grotta ricompare, solo nel campo visivo di Hr. Vieni con noi, gli dicono. Dove immaginasti quando la terra stava per inghiottirti. Vieni a vedere quanto è reale tutto quello che tremando hai negato.)
(Kiy non ha nessun grottino attorno. Valicato l’altare della preghiera, piante dei piedi nell’acqua. Scroscia e fermenta la schiuma cingendo la linea delle sue orme, baci al suolo molle. Dalle acque della prima fascia dopo la linea liminare tra i divergenti modi del respiro e dell’apnea, là dove una secchetta precipita bruscamente in una fossa che sembra senza fondo, leva il collo una cosa. Gocce picchiettano la superficie, grondano dal muso. Sono imperatore, dice Kiy. È il suo modo di ringraziare il conoscente che ha mostrato la testa.)
(Questo è l’amore, risponde la testa. Nel muso di serpe si costellano, nascendo in quel momento da placente di raggi, dentelli di minuscolo e acuminato avorio, file perfette, lunghezza intera del cranio, curva di perenne deforme sorriso. Fissità d’occhi. Pesce sacro. In catacombe della mente, antenati terrorizzati, i più ancestrali, avevano disegnato per comunicare in codice la forma sua e quella di altre bestie, quasi tutte con lunghe code.)
(Bene, bene, annuisce la testa. Accetta il gesto solo liturgico della carezza di Kiy, sulla guancia, non chiaro confine con l’inizio del lunghissimo convoluto collo. Pochi passi e tonfi in avanti, verso le gobbe cicatrizzate che s’affacciano dai flutti. Sale appiccicato. Odore di lische marce di preistoria dal suo respiro. Bene, bene, chi sei?, non lo riconosce, non riconosce la forma di quello in piedi che ha riconosciuto lui. Liturgia anche quella. Kiy ripete, nel monotono nuovo: imperatore: è il suo modo di dire che comprende e accetta di dover sottostare a quel disconoscimento.)
(Fu salvato dall’annegamento. La bestia è un padre. Vede il figlio succedere. Che succede? È successo tutto. Chi è tutto? Mio figlio. Ma non lo vidi nascere da un uovo nel fondo oceanico o lacustre. Nessuna lacrima di commozione sfregata e disintegrata sempre più lungo la mia pelle rugosa e il sangue freddo della sopravvivenza all’estinzione di massa. Ciò significa che nessuna lacrima per lui verrà versata e che nessuna commozione conosco, io che non vidi il suo uovo.)
(Kiy aveva un tempo visto schiudersi un uovo d’albatro per far nascere un sole d’eclissi.)
(Del suo uovo invece nessuna traccia. È giusto ormai, è logico e perfetto ormai, aggiunge Kiy. Non rimangono pezzi di guscio da nessuna parte. Tutto è sottratto.)
(Solo i padri tornano a salutare, rivolgendo i ghigni sprezzanti di vendicative ere geologiche sprofondate nello stesso oblio di isole di civiltà leggendarie. Kiy giura di veder sgusciare dai dentelli, in un singolo istante separato da tutti, una lingua biforcuta di serpente e sentir spargersi, come lance sollevate nel vento da un esercito alla sommità del colle, un afrore di porto sporco decomposto fermentante; porto definitivo del tutto.)
(Mordi in questo punto, dice Kiy, indicando. Nel volto della bestia marina non c’è nulla che possa rispondere: ghigno congelato di pesce sacro permane ignaro di futuristiche e troppo complicate forme di comunicazione. Comprende il sì e il no e lo stupore e l’indignazione e sembra non aver mai pensato che li si potesse incarnare in contorcimenti della faccia o dell’aria circostante e sembra non aver mai sofferto per questo.)
(Kiy invita a scorticarlo. Questo è ciò che è diventato: punta con il dito laddove prima ha sentito infilarsi le zanne di una pelosa bestia di diverso tipo, che puzzava di lui; ma sente adesso che anche quella del mare ha il suo tanfo. Combaciano i morsi, ritornando nelle stesse ferite: lo stesso sangue deve sprigionarsi. Zampilli che chiameranno, da lontano, le balene. Quando, nel giorno che i profeti avevano avvistato, i loro sfiatatoi sarebbero diventati del color rosso della supernova.)
È solo il sangue che passa attraverso la loro trasparenza, la loro espirazione. Nell’affanno d’esistere ancora fanno sgusciare dalle onde i dorsi protuberanti, il mare risucchiato si getta fuori sperando di reincarnarsi in eruzione e vulcano e fluire nel tutto in irridente scossa sismica di tre elementi compenetrati. È trasparente. Da lontano gli altri sfiatatoi, rossi e densi a riva, dai quali stanno colando via la vita e il colore, confluiscono nel pennacchio distante a largo e nel suo vapore residuo, ultimo barlume affacciato sul nulla. Tutte le distanze, tra il largo e la spiaggia, sono d’un tratto inesistenti. Si sarebbero dovute vedere fontane di sangue attraverso la trasparenza delle fontane di espirazione, tanfo di unione tra pesce e mammifero.
(Kiy esige il dolore ed esige il rimorso ed esige la vergogna di esigerlo ed esige la vittoria sulla vergogna nel momento in cui nelle sue mani unte e rosse lo stringerà ed esige lo svenimento e la vertigine nel rendersi conto che è una scelta soltanto una scelta e nient’altro un’ebbrezza autoindotta e falsa come tutto il resto ad aver determinato che infine si decidesse a comportarsi come nei suoi sogni più rinchiusi ai tempi dell’immobilità ma esige sopra ogni altra cosa la fame e la sazietà che si fronteggiano tra i suoi denti annaspanti nel momento in cui finalmente decide che la profonda lancinante costernazione datagli dalle contraddizioni di sé e di tutto non lo fermerà dal tuffarcisi e gridare, gridarci dentro tirando bracciate in un mare di schiuma rossa. Sole esplode. Corpo s’apre. Nel mare sta nuotando come allora, quando era un pesce un mostro un uccello d’acqua un guizzo un barlume immerso sciaguattante nel ventre ondoso d’una tempesta nera e verde e gialla. Tuoni elettricità acqua, acqua non smette di gonfiarsi come un cadavere che avviluppa metà del globo. Produce mostri nella coscienza.)
(Senza segnale l’occhio vitreo. Scatta in un istante la testa di serpe. Si ritrae subito dov’era, galleggiante a mezz’aria in fondo al collo. Nessun mutamento.)
(Gode Kiy che guaisce ultrasonante di fianco a una cresta spumosa della sua spalla, zampilli rossi verticali in aurora australe sprigionata dal morso. S’ode il trambusto del corpo ingombrante, la creatura marina che, dopo aver morso e ferito, se ne va, ruota tutta la sua massa un goffo strattone alla volta per far dietrofront verso le onde, e letargicamente immergersi. Nessun volto dietro di sé, disegnato falso sul dorso, sulla coda. Gasso cilindrico muscolo remigante. Il suo volto mai più si vede e la sua sagoma per l’ultima volta appare, alla coscienza del mondo in veglia, come nient’altro che uno sparuto insieme di collinette carnose, forse soltanto ciarpame galleggiante in cui non si può esser mai certi di riconoscere un essere vivente, un mistero, un ennesimo miraggio. Così se ne va e sembra aver vergogna, non voler esser visto dopo quel che ha fatto. Senza volto rivela il suo sentire. Padre d’acqua.)
(E il sangue non s’esaurisce. E Kiy in piedi, davanti alle onde rimaste vuote, davanti alla schiuma riversata di continuo. E non s’esaurisce proprio come la sabbia, e Kiy in piedi, braccia a parte, senza esaurire le grida della sua nuova voce, indolore, custode del dolore più grande e della selvaggia gioia d’averne fatto un amante e un amuleto suturato alle pareti interne, tra i tumori e le scuciture purulente e le oscurità che potrebbe veder solo entrandosi dentro munito d’appendice bioluminescente, esca, occhio. E il mare lì dentro è strati sovrapposti di ciechi abissi imperturbati, e il mare là fuori ruggisce, no, è una quieta risacca d’un giorno normale, è Kiy che lo sente ruggire, e si sente ruggire, braccia sollevate, vento e mare e detriti microscopici volano arrangiando e disfacendo nell’aria a ogni istante fasce d’asteroidi che danno alla pelle un prurito granuloso, lascia tracce di polvere al suo passaggio. Come quando un bambino già adolescente già innamorato del distacco vide il mare la prima volta. Volgendogli le spalle, una patina sulle piccole dita. Il ricordo diventa qualcosa che si scompone nell’illusione inebriante d’essere un fatto sensorio, gelosamente mantenuto in cima a un polpastrello. Croci e fari in cima a promontori.)
(E Kiy guarda il mare e il cielo, e finalmente in piedi così resta, e la sua ombra rotea, rotea a infinita velocità accelerata dal suo vedere e sentire sul suolo torrido giallo, fendendo poi il mare, allungandosi sulla sua superficie fino alla linea turchese dell’orizzonte visibile acceso a giorno, fino a dove mai era potuto arrivar nulla, è lui, il primo uomo a toccare l’orizzonte senza raggiungerlo, il sogno d’infanzia e dei giganti, è lui, esploratore, pioniere, eroe, rovesciamento. E Kiy è in piedi e Hr è prostrato, e Dii è in piedi e nella sua ombra cominciano a strisciar liane.)
(Dii non ha rimpianti. Dii non ha fatto niente. Dii ha assistito, ma senza capire. È forse questo un rimpianto? Si sorprende a desiderare la presenza dello strano felino selvatico lì con lui, che possa rassicurarlo con un rumore misterioso, vibrazione nascosta alle indagini d’ogni scienza. Gatti d’alchimia. Un gigante gatto, leone giallo e bianco sintetizzato dall’ibridazione fittizia di gatti selvatici delle isole reali e leoni di dipinti e bassorilievi nascosti nei raggi solari, un giorno s’alzerà verso il cielo e divorerà il sole. Pulsa una simile scena nel calore custodito al centro del piccolo corpo, appena al di là del pelo tiepido e morbido. Vibrazione. Dii sente la mancanza di una vibrazione. Come ricordo, finto sensorio, sulle dita ancora un alone colloso di feromoni. Tanti tocchi di felini mutaforma. I brividi che aveva avuto nella notte, irrelati alla temperatura.)
(Presto lo avvolgono le spire che hanno cominciato a crescere. Solo attorno a loro, a Dii e Hr prigionieri dell’invisibile, è riapparsa la grotta. Forse non ne erano usciti, forse è stato solo Kiy, con un trucco o un ipnosi, ad avergli fatto vedere la roccia e il calcare sbriciolarsi in polvere accecante. Perché Kiy era voluto uscire, e adesso tutto ciò che vuole a tutti vien mostrato prima ancora che si compia, prima che lo senta. Ma dentro la grotta rimane chi non vuole altrettanto, chi non incute terrore agli esseri. Nell’ombra stantia, cullate dall’inudibile gorgoglio delle virescenti e prolifiche muffe parietali, radici prendono vita. Abitanti ipogee. Piante che si risvegliano sentendo Dii, odorando Dii come fosse un muschio di sesso opposto, gettato a mantella su un quadrupede umido.)
(Dii non ha fatto niente. La presa, lasciata e dimenticata, dimentica cosa stesse custodendo. Gli pare di ricordare, in illusione sensoria sgomitante in mezzo all’intollerabile confusione di feromoni, che si diceva di miti antichi, prime navi lignee sulle onde del disgelo: su quei ponti le mani avevano liberato uccelli: ricognitori, messaggi costieri. Chissà se tra i primi navigatori ce n’erano di quelli come lui, che tutto avevano osservato senza compiere. Le mani di Dii rimaste vuote a penzolare a mezz’aria stringono il nulla, liberano il nulla. Hr non è più soccorso da lui. Le mani, vuote penzolanti aperte inerti, restano in quella posizione, quando una radice o una liana come un serpente cieco spiraleggia a fiacchi tentoni per cingerle. I polsi mandano un sinistro cigolio da stringimento di fune quando catene di legno liscio vi strisciano su, applicando in un istante una spaventosa pressione, bloccando le vene. Movimenti coordinati del legno bruno e grigiastro, scosse dall’epicentro d’un cervello vegetale nato nell’angolo della grotta, innalzano Dii. Le gambe s’infilano in un involucro di molle cartilagine bruna simile a legno quasi marcio che sbuca fungino dal pavimento di rocce livellate dall’erosione. Dii immobile può solo guardar avanti, fluttuando.)
(Hr si arrabbia, Hr in ginocchio sotto le gambe fluttuanti. La sua ultima rabbia, non verso la tortura o il destino. Dii sta rigurgitando robaccia, spinta fuori da rami radici e liane che entrano in lui disinvolte. È semitrasparente e grumosa, già fredda e appiccicosa come sudore impregnante, bavaglio liquido in petto a Dii. E Hr sembra lamentarsi, sembra voler rimproverare che dev’essere lui il solo a vomitare, non è giusto che anche lui, non è giusto che chi non ha acqua di mare nei reni…, sbava Hr incapace di articolare. Desiderio di sofferenza preclusa. Hr non può alzarsi, non può aggredire il visibile dentro la grotta per rappresentare l’odio verso un destino comune. Hr può solo prostrarsi: mentre Dii fluttua lui comincia ad arrancare, comincia a smettere di vedere Dii, la pianta mostruosa che l’ha preso, il tempo in cui diventano una sola cosa. Hr come nel bosco tanti giorni prima vede e sente una sola cosa.)
(Aveva perseguito multiformi piaceri e le loro effimere distruzioni, i loro susseguenti rancori della sazietà e della fame, presto estinti. Era balzato di maceria in maceria. Una sola cosa vede: la paura che ha preso in lui, nella sua visione annebbiata, una forma, un alone radiante. Quasi un palazzo, che viva e cammina imitando gli uomini, impossibile indovinarne l’altezza, distante là sulla linea torrida e illusoria del deserto. Gigante è la luce che si sparge atterrendolo: non può che seguirlo. Gettarsi nella paura, eseguendo, soltanto dentro di lui, non visto da nessuno e intimidente per nessuno, lo stesso movimento di quando si gettava negli oggetti suoi godimenti e insieme nemici mortali. Hr impara la preghiera. Hr rimane inginocchiato e, non voltandosi più verso le pareti interne della grotta nel cui fondo Dii cresce al centro di rivolanti fiumiciattoli di corteccia, vede là fuori, vede il giallo della spiaggia e l’acuminato azzurro davanti, come se la bocca della caverna riapparsa poco prima all’improvviso intenda dirgli d’averlo fatto solo perché fungesse da cannocchiale per lui: vedi terra, Hr, un’ultima volta, una tua ultimissima volta da marinaio prima di diventare, invece, un devoto. Un seminarista. In ginocchio verso l’uscita, Hr vede solo Kiy in piedi sul giallo e l’azzurro.)
(Ti amo e ti temo. Come quando s’era gettato su un oggetto in fuga irraggiungibile, su Kiy in fuga irraggiungibile nella sua notte da automa, l’avrebbe inseguito, sapendo di non poterlo toccare. L’uomo chiamato Hr era morto: sì, dice finalmente a sé stesso d’esser morto, là dov’erano gli avvoltoi di puro intangibile nero, dov’erano i soffi raccapriccianti della sabbia che non dovrebbe soffiare: ammettendolo, quasi una brezza irrompe nella cella che aveva lasciato dentro di sé deserta, ma ancora recante le tracce del disordine di una lotta: le catene che a lor tempo s’erano spezzate, una volta per un bambino, una volta per un uomo.)
(L’uomo chiamato Hr era morto: l’avrebbe seguito senza toccarlo per tutte le spiagge, se Kiy avesse deciso di ritornare a essere un golem nell’isola, ripartire in marcia per uno scopo scritto su una carta ingerita, automatico linguaggio nello stomaco. E se non si fosse mai mosso invece, pur sempre avrebbe continuato nella sua percezione a vederlo e sentirlo muoversi come in fondo al tunnel di visione che adesso il cannocchiale della grotta gli forniva, sempre avrebbe sentito la sua anima scalciare per partire a un inseguimento forsennato, la nenia ripetitiva di una preghiera restia a scemare e farsi silenzio.)
(Gli sembra di vederlo. Dii in fondo all’ombra, il dorso ligneo accostato alla parete quasi a sentirne la ruvidità e assenza di linfa attraverso i ricettori della corteccia, ancora riesce a scorgere quanto c’è laggiù, oltre gli sporchi indistinguibili annebbiamenti delle vicinanze, prima che tutta la vista inverdisca, diventando linfa e respiro come ogni altra cosa. Dii può solo star fermo e osservare, come aveva spesso desiderato: può solo osservare l’osservazione sua che diventa respiro, ciò che non si aspettava. Il respiro era il primo ad accorgersi dell’insolito, il primo a frazionarsi. Dii non si chiede, riguardo se stesso, se sia un frazionato oppure un integro: ciascun germoglio una foresta di cellule verdi. Integro nel mondo che cresce e fa sbocciare consapevole di dirigersi verso un’oscurità chiamata imputridimento chiamata conclusione chiamata bioriduzione chiamata flusso.)
(E a Dii sembra di vederlo: è Hr quello? No, Hr è annientato. È Kiy quello? No, Kiy è annullato: nel suo silenzio, odiava gli imperatori: nel suo silenzio, amava se stesso: secondo logica non può essere imperatore senza esplodere. Il sole esplode. Kiy sta irradiando, anche Dii lo vede: questo significa che Dii e Hr, secondo logica, si trovano nella stessa dimensione. E non possono interagire. Ma nemmeno Hr può interagire col suo oggetto di devozione: anche Kiy è con loro.)
(Mentre croste di corteccia risalgono come ghiaccio che sferza l’asfalto per le guance di Dii in sincrono al suo ultimo umile mazzetto di sillogismi e ragionamenti attuati secondo logica, una singola vischiosa lacrima verdognola sguscia, cerca d’infiltrarsi là sotto la massa senziente che aggredisce e invade sostituendo gradualmente barba e guance. Dii crede all’improvviso che siano in paradiso tutti e tre insieme. E contemporaneamente Hr ha fede: sono insieme, sono davvero tutti insieme in un mondo possibile. Dii tace continuando a osservare cieco, tuffando e sempre più camuffando nel tronco del suo nuovo esserci il volto di sempre che nasconde sorrisi e commozioni, tace e diventa nutrimento per qualcosa che non conosce rimorso né rancore uccidendolo.)
(Non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire, piagnucola e prega una voce roca e sottilissima che sembra quasi sforzarsi di scomparire. Hr vede il semidivino e l’imperiale. Sul mare e la terra. Inseguimenti che avvengono e sempre dovranno avvenire adiacenti agli elementi, mentre il fuoco è nascosto eppur non cessa d’osservare. Radianza, regale radianza.)
(Re dei re. Un’espressione maledetta. Una chimera o manticora, gatto domestico dei diavoli di pietra, che ha preso Hr: il pungiglione inietta veleno trapassando la spina dorsale della bestia sporca nera lanuginosa ululante da lui esalata in ologramma di guscio che inguaina la schiena. Veleno come morso come infezione di un’altra forma aliena, la forma più aliena da sé.)
(Ma lui, il più devoto, non ha visto il semidivino venir morso, si è perso l’eucaristia. Punito già per questo: non può vedere il pungiglione che lo cambia dall’interno, un’arma d’inganno e strategia contorta, predatore alieno che non va a caccia con i denti e una maschera feroce.)
(La fronte al suolo, Hr prega perché è egli stesso il suo odio e la causa d’ogni sua nausea: nessuna peggiore punizione di essere qualcosa d’etereo, ch’è incerto di esistere: Hr è un servitore e un fantasma e tra i fantasmi è il primo ad aver contratto brividi come di febbre quando a lui si sono avvicinati diavoli di pietra, diavoli del mare straniero. Stanno continuando a osservarlo, lui che non alza lo sguardo.)
(Come quando in spiaggia non guardava chi gli sedeva accanto, rifiutando il credo e la vertigine, la puzza degli esseri d’abisso o di quella parte della notte non esperibile da lui diurno, quella parte della luna non visibile da lui terrestre.)
(Per Dii erano stati alberi, o un singolo albero. Piante non fanno enumerazioni. Isola rigida non fa enumerazioni: una sua algebra rimane nascosta e non la si decodifica mai. Le liane a un certo punto strisciano dai cunicoli delle grotte e ti afferrano, senza domande. Le figure che ti terrorizzano senza averti dato tempo di capire perché appaiono e dentro di te stai già disperando e ripetendo fino a esaurire l’ultima particella di forza le insensatezze dei matti rinchiusi.)
(Stanno in cerchio attorno a lui a guardarlo, corpi color sasso occhi sassi incasellati nei sassi. Nessuno li vede. Solo Hr potrebbe. Hr rifiuta dichiarando sconfitta. Sa che esistono e che la mera apparizione l’ha convinto a pregare. Nuova convinzione. Necessaria. In vita qualcuno o qualcosa dovrà vagare senza posa e inseguire, servitore, foss’anche solo per illudere l’oggetto della preghiera del fatto ch’esiste ed esistono quelli che pregano ed esiste la relazione fluente tra loro, fatta di mani di parole di vuoti di vibrazioni di forme diverse della fede di radianze di uccelli di fanatici sguardi di etere di qualcosa che infine come globo sguscia e fluttua alta e distante e diversa dalla somma delle singole parti.)
(Hr chiude triplicemente e per sempre le mandate del convento in cui s’è imprigionato. Scavato nella pietra sua, nel cranio suo, ah, il cranio!, pensa con nostalgia al suo maestro e suo semidivino e suo imperiale: lui del cranio aveva fatto ossessione, ne aveva fatto preghiera quand’era stato il suo turno d’esser uomo sulla terra, prima di ora. Al cranio voleva restituire il crostaceo rosso ch’era scappato.)
(E l’elemento del fuoco, come un occhio lanciato in tempi antichi da un eroe pioniere tra gli dei fin nell’alto del cosmo e lì rimasto incastrato, continua rosso e assieme invisibile e assieme disciolto nella radianza a osservare.)
(Hr chiude le mandate. I respiri ravvicinati immettono scosse di breve durata nella composizione compatta della sabbia, tutta sbuffante in subitanei geyser confusamente orchestrati dal fiatone. Torna a ricompattarsi.)
(E tu, Kiy, sei metà incrociate, ma formi assenza di somma. Senza natura guardi e respiri e assorbi la salsedine, continuando a sanguinare. Morso due volte, vieni toccato. Lei è qui e sparirà, e sai che sparirà e sembri di nuovo e forse inavvertitamente ancora lo sei un debole sperduto muto e sordo uomo quando chiudi le palpebre ancor sfiorate dall’azzurra brezza che in stormi di gabbiani e albatri e piovanelli vola ondeggiante parallela alle coste del mondo, diretta all’invisibile dove convergono tutti i respiri e tutte le cose che più delle altre avevano sin dalla prima apparizione sfoggiato senza rimpianti il loro sparire. Piume bianche. Gusci rotti. Fremiti nel folto. Sagome intagliate nella sostanza del buio. Persone. Anche le persone, anche lo scheletro.)
(Due mani d’ossa s’incrociano sull’ombelico, cingendolo da dietro.)
(Ci salutiamo?, chiede una voce che ha zanne e vibrisse e color della paglia, diurna in piedi dietro lui, vibrazione e solletico nel suo orecchio e collo. L’isola li chiama in diverse direzioni. Lui è capace per un’ultima volta di sussultare. Incapace di impedirle che lo senta.)
(Tutti i suoi amici tacciono. Madre sorella moglie ultime parole. Il rimanente di ciò che è udibile perpetra se stesso fino alla fine. E sembra esserci solo per dimostrare che sarà sempre più antico. Sssssshhhhh, ssssshhhhh, ciò che è costante invita a tacere, rivoltando il crine bianco della schiuma, facendone palle di tempesta.)
…
Il paesaggio era vacuo e capace di incantare senza un perché. L’incanto non si generava più in un ventricolo di nondentto e incomprensibile. Risposte esistenti di per sé. L’incanto era una matematica saprofaga che mangiava cervelli e defecava nuvole di rumore bianco, riempivano l’orizzonte. Incanto era trovarsi dove sapere che non c’è niente è uguale a sapere che c’è tutto. Kiy o una sua parte era lì. Punti e rette nel biancore sorvolavano, laddove ci sarebbe stato il cielo, sfregando rumorosamente come scie di comete. Luogo di appuntamento.
Lastre d’orizzonte ravvicinato, riquadri incolori di fondale portati in primo piano da un’iconoclasta convergenza di forze d’attrazione e repulsione, apparivano grigi avvicinandosi e fermandosi là, nelle immediate vicinanze non tangibili da alcuna appendice sporta come a provare d’esistere, pizzichi autoinferti nel sogno. La forma insignificante chiamata Kiy, resuscitata momentaneamente in quel luogo prima di ripartire come da un porto affollato dove ogni cosa galleggi sempre salpa al minuto spaccato, stava in piedi, incolore, piena di brusio. Una nuvola nei suoi contorni. Intorno scorgeva quel che sembrava una distesa di mare grigiobianco, o una vallata grigiobianca osservata da una sommità. In questo mondo attutito e ricondotto a schiumosi rudimenti riceveva da dietro l’abbraccio.
-quale sei delle due?
Kiy ritornato in sé e fuor di sé -perché quel luogo non era da nessuna parte, tantomeno in lui- riconosceva le regine e anche quella che non aveva incontrato, riconosceva aura e odore, e il giorno dalla notte, finalmente distingueva il giorno dalla notte: per riuscirci doveva andare dove non c’era niente. Soltanto una grammatica nascosta sotto il mare e la montagna permeava l’aria irrespirabile simile a un foglio dove la grafite si sia cosparsa cadendo per caso, e mai in mucchi così netti da imporre colori troppo decisi sulla muta vastità del bianco. Soltanto masse spigolose simili a iceberg al largo come conati di sintassi facevano sbalzare, fuor di linee ritte e raziocinanti, frastagliate punte intente a emanare echi cavernosi.
-quale sei delle due?-, e sentì sorrider dietro la regina ch’era venuta ad acciuffarlo in quell’ultima visione. Credette d’esser diventato il sacrificio portato in offerta alla bestia della foresta, servito sull’altare per artigli e denti e occhi.
Quale sei delle due?, disse mentre, ridotti a schermi e poligoni e trasparenze, continuavano a guardarlo lateralmente, fluttuando come una commissione di giudici incasellata in una nube passeggera, i mostri del pantheon. Diventano ogni istante dei soli, qui soli incolori, qui eclissi eterne. Mandando a intermittenza soffi irosi come da un serraglio, il suo afrore che sale al cielo formando una densa coltre che segnali alle nebulose più lontane la presenza sul pianeta del fermentante virus della vita.
Quale sei delle due?, e lei immediatamente risponde “entrambe”, il che era prevedibile, il che Kiy con il suo nome, che per piacere a lei è tornato per poco tempo a riemergere da un bianco e assuefacente dimenticatoio, accetta e ingoia e rifiuta e rigurgita in uno stesso istante, cercando di conciliare gli inammissibili opposti del mondo soltanto quando è lei a parlargliene. Soltanto stando in piedi laddove in un altro presente, Il Presente e Reale, esiste il mare espanso davanti, completa un sacerdozio e un’ascesi: tutto questo, sembra sussurrar lei ininterrottamente ogni momento in cui continua a esserci, tutto questo è propedeutico a quanto avviene, ogni cosa è agganciata, eccetera, eccetera. Lui annuisce. E che può fare? Sono solo due macchie nerastre anzi grigie anzi nuvole che colorano lo sfondo opaco degli antri del cervello di una cosa gigante che può esser chiamata soltanto nulla. Una delle due macchie è la notte, ed è il giorno, e lo abbraccia, da dietro, incrocia sull’ombelico le mani che sarebbero state fatte, in un mondo dove i simboli prendono peso e fetore, sia di carne che di ossa, sia di tutto che di singolo.
Nella mente e subito nel mondo -perché tutto è cordoni e ombelichi e tutto prosegue e tutto riflette- vengono sfoggiati in sfilata i principi sterili alla base dei colori, e quelli delle forme, si vedono sfilar la lince e il leopardo e il brontosauro, bestie di follia e sgomento, bestie da bestiario e serraglio: circense dileggio delle stravaganti forme possibili alla vita. Odori di femminilità indigena. Chissà gli odori che fine hanno fatto? La memoria qui è identità incerta. Ma appena la pensa, Kiy comincia a veder che qualcosa si colora attorno. Nella grammatica bianca opaca grigia che è ovunque, nella grammatica brusio e rumore bianco cominciano a tingersi colori, come fluidi nuvoloni cosmici di tempera variopinta secreti dal pennello nella teca sperimentale del bicchiere.
-hai così tanta paura di me?-, chiede lei.
-se ti conosco, mi chiederai perché ho paura di me stesso.
(-e smettila di sorridere)-, vorrebbe aggiungere.
-mh. Mi ricordi uno dei gatti selvatici. Chissà dov’è andato?-, sorride lei, ironica, forse per provocarlo, per giocare coi cadaveri delle sue parole.
-mph. Allora è vero che in te ci sono tutte loro. Assomigli alle tue creature.
-e se fossi solo la parte notturna?-, chiede, improvvisamente seria o fingendosi tale. -sarei tutti voi, tutti voi singoli con il petto che scoppia del desiderio d’essere, d’essere soli senza niente attorno, e gridare il proprio “nome”? E allora non sarebbe una contraddizione con quello che hai detto? Il sé non desidera mai assomigliare anche se deve farlo.
-ma tu sei entrambe, giusto?
Ridacchiò sonoramente. Rinsecchiti ciuffi d’erba, segale affetta da nanismo insulare, mezza morte su strisce di suolo troppo giallo per nutrire. Troppo deserto per non invogliare a gridare, riempire tutto il proprio verbo di belve soffianti ed esodi e secchezza sempiterna in vendetta del passato diluvio. Ridacchiava, e altre cose continuavano a disegnarsi. Una gola d’uccello piagnucolò un cupo singulto sulla cima schiacciata d’un albero strano, lacerando un pezzo del sistema di riferimento.
-hai visto cos’era quello che cercavi?-, chiese un dito appuntito che circolava sul torace, tra un pettorale e l’altro, come artiglio che squarci e indifferente balzi in un istante tra perielio e afelio, facendo fluire il sangue d’una stagione nel sangue dell’altra senza contezza d’equilibri.
Kiy annuì, infilzando l’aria vacua del cervello del nulla con la punta della barba, scura solo laggiù, pungiglione, scorpione, manticora. Serraglio mitico in dileggio delle forme del vero.
-l’ho visto.-, rispose infine, dopo infinito silenzio. -è come questo posto.
-e come ti senti?
-…a chi lo stai chiedendo?
-…vuoi dire, “quale me te lo sta chiedendo”?
Kiy sospirò, stanco del desiderio di lei di giocare. Il respiro prese colore nella sua nuvola interna: un flusso azzurro dal naso alla gola che si biforca dentro il petto. Si sente il rumore d’un’aria che viene smossa al suo interno dalla cristallizzazione di grani di sale. Sembrano un branco di vecchi con le barbe imperlate di riflessi esagonali, sono rimasti là a guardare dall’inizio di tutto formando una rete che li ha intrappolati.
-..me lo sta chiedendo la te in cima alla montagna. Perché questa è anche la montagna, giusto?
-finalmente la montagna.
E in un lampo di colore s’aprì dinanzi a loro un possibile fondale del visibile: e quasi sembrò che lei l’abbracciasse più forte, ragazza nostalgica d’un incontro: riconoscere il verde dell’erba diverso ad alta quota, dove il sole lo investe e impila bianche rocce le une sulle altre per erigere torri all’altitudine e le ombre d’aquile, anzi avvoltoi. Davanti al mare grigio un iceberg disciolse uno strato di vetro, e là sotto non c’era acqua ma suolo, un promontorio come proboscide nel centro delle onde. Echeggiava frastuono come di rotolii in un crepaccio, pack che annuncia di cadere a pezzi ogni momento. Erano davanti, erano in cima, erano su una cima più alta dalla quale tutto si può ammirare come racchiuso in un punto.
-esistevano, dunque, delle vette su quest’isola.-, disse Kiy riflettendo sul ghiaccio che ha visto, la sagoma di terra apparsa all’orizzonte, con lieve sorpresa, la massima sorpresa che possa scuoterlo: quasi si trattasse dell’unica nave mai esistita. -o la vetta. Arrivarci da solo.
-ma da solo è senza i compagni.
-sì.
-e senza i compagni è senza uno scopo. Non furono mai niente per te.
-no, non è vero. Si può esser distanti, certo, distaccati, come lo fui io. Si possono preferire le immagini…-, e sfiorò con una nocca protesa l’aria vicina, sgretolata per quel segmento tracciato in coriandoli roteanti presto evaporati -…alle concrezioni, i corpi, i loro fluidi, fastidi. Ma non si gettano via le anime, in questo processo. Non ho mai insultato, dal pertugio delle mie prigioni, le anime degli uomini.
-ma loro sono stati da te feriti, dalla tua indifferenza, dalle tue preferenze, i tuoi gusti, quel che vuoi.
-e solo uno dei miei gusti sarebbe giunto fin qui a resuscitarli dal teschio, dall’unica parte in cui…
-…in cui?
-…ho dimenticato.
Kiy aveva dimenticato. Dall’alto della montagna, come era accaduto in un ricordo assai confuso, velato da qualcosa di simile a vapori fumiganti, vedeva rannicchiati tre esseri dormienti, in fondo a una valle; tre feti premevano le piccole ginocchia contro i petti semitrasparenti da salamandra, quasi volessero schiacciare le cose molli scoppianti di ghiandole e arrossamenti che sotto la membrana sottilissima fluttuavano, tra un palpito e l’altro nell’agitazione di formarsi. Tutto quanto fermo al momento in cui prendeva vita, là nel mare e monte del nulla, tutto quanto costretto a eterna incompletezza, catturata in un fotogramma, simile a tortura che iniettata in occhi forzatamente spalancati li costringa ad apprezzare la sua perfezione istantanea, tutto il bello di un non-totale.
Rinascita. C’era da qualche parte un mondo intero, un’isola fluttuante, dove sotterranee frattaglie mammifere estendevano una rete tra grembi, un micelio materno
(definisci esistenza: fenomeno ottico e multisensoriale per cui ogni singola cosa trangugia merda da un tubo, e facendolo emette ripetutamente uno sciaguattante gorgoglio vagamente soddisfatto, troppo grasso e compiaciuto d’aver trangugiato la merda, nasconde il cadavere d’un cormorano morto in un canale di scolo sotto i ponticelli di legno antistanti le catapecchie del paesello piovoso e zanzaroso, uccello di gozzo piagnone soffocato putrescente ricoperto di schifezza marrone vischiosa).
Micelio chiamato madre e terra. Tutto nasceva, accudito, nutrito, selezionato, eliminato. Parti marcivano per far germogliare altre. Il tremore d’un lembo carnoso si trasmetteva fin nei recessi opposti, sbalzando funambolico tra gli intrecci, i palpiti, percorsi da respiro. Tre cuoricini di sangue grumoso e atrofizzato battevano continuamente sfaldandosi e ricomponendosi nei tre petti lì nati, in fasce al centro del suolo, visto intero dall’alto di un non-presente che strisciava ovunque, insinuandosi nel presente.
Comparvero uccelli di mare sugli appigli vicini, i loro occhi vigili sui nascituri, prede o forse tesori da proteggere. Un fruscio salato cresceva, sempre più assordante laddove non c’era altro rumore.
Forse era solo questo. Non c’era altro che da apprezzare la rinascita.
-…e la rimorte, e la paziente e industriosa continuità della decomposizione; e l’umiliazione non del morire ma dell’aver vissuto; e l’immagine che penetra il reale prostituendosi sporca e grondante, la melma che eliminasti dal sogno è innegabilmente sciaguattante tra le corde che dai ventri dei compagni vedesti spargersi; e i pesci del profondo che vennero a rapire con bocche e caverne oscure gli altri pesci, i profeti e gli annegati, creando il nulla del linguaggio futuro; e l’abbandono della casa; e la riduzione dell’anima, ogni giorno di più, fino al suo sparire indolore che quasi non si sente.
Disse così, la regina, facendo proseguire un discorso che nessuno aveva iniziato, che non c’era mai stato.
Dunque in piedi rimasero a guardare il mare e il cielo tenuto assieme dai perni dei picchi più alti. Recitavano innamorati in conversazioni, artefici delle torrette di sassi in prati d’alta montagna per sfidare il crollo d’ogni amore passeggero, la sparizione di quegli arcobaleni e temporali sorgenti d’emicranie, scuri sotto il sole abbacinante.
Tre feti, cui avrebbe fatto ritorno, dimenticando quel saluto.
Nemmeno il balzo d’un’ombra di lince, nemmeno un rimasuglio della notte.
(un rimasuglio di notte che sia visibile, cioè.)-, dice, somigliando quasi a un rimprovero, una voce infrasonora, ovunque strisciante a ondate nere sotto la coltre fragilina della superficie terrestre.
-sarai il piano compiuto di quest’isola. Sarai come me. nuovo me.-, lo accarezzò lei, sentendo sotto quella pelle il dolore, concentrato in tanti punti, nuovi nervi che nascevano mappando costellazioni.
-sarai l’isola stessa. E devi andare, braccia aperte a vento e mare, laggiù dove puoi incarnarla.
Prese colore il bianco in cima alle creste, il cristallo in fondo alle particelle traballanti dell’acqua, miliardi incalcolabili di occhi opalescenti e allegri e tristi e per sempre lancinanti lì, quasi per ostentazione, una superficie un alone una patina un utero dove tutto era esposto allo sguardo, laddove esisteva, laddove aveva un sé, vedendo assieme appallottolati il giorno e la notte in tutte le cose. Presero colore le cose limacciose che s’intravedevano tra una striatura e l’altra della superficie, le secche molli dove qualcosa si nascondeva, smuovendo polveroni umidi.
-anche qui, vai alla tua isola. Il tuo altare. Ma non indugiare oltre quaggiù, o quassù, ovunque sia: vai.
Vai. Fuori da questo codice spoglio che solo adesso comincia a colorarsi, proprio per invitarti ad andare dove il colore, con tutta la sua brutalità, è già nato, sta già morendo, già rinascendo. Ma una volta lì, dove altro? Kiy dove può andare? Ci sono solo il mare e la terra. Vasti, sembrano geometria. Eppure per la prima volta visti dalla vetta sembrano non avere nessun significato. Non hanno significato. C’è, proveniente da uno qualsiasi degli elementi, un rumore come d’onde cicliche, un rumore continuo che è senza nome. Sta in piedi a guardarlo, senza saper di guardare, o chi ci sia a far sì che colori luci e forme si riflettano in un duplice schermo incastonato nella conchiglia di sabbia dura chiamata cranio, l’unica che c’è; a far sì che si riflettano come su una superficie d’acqua, occhio che ha sempre osservato un qualcosa che si sente osservare, che non si sa più afferrare.
E adesso?
Senzanome, rumore. Schiuma là dove combaciano carne e terra. Si può diventare isole. Sentendo odore di isola, piccoli crostacei risvegliati, pulci palpitanti di branchie, schizzano con le zampette indaffarate sulle dita, i calli, le cicatrici; gli istanti del loro transito sono già cancellati dalla memoria dei tutti e delle parti, delle sfere e delle cellule.
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