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dove c'era un paguro- capitolo 11

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 8 mar 2023
  • Tempo di lettura: 40 min

C’era silenzio ed era l’acqua ad assorbirlo. Se un essere vivente, o una palla dotata di un’illusione di arbitrio, o un personaggio -se una di queste cose capace di muoversi e fermarsi, viva e lasciata libera di strisciare nelle viscere del silenzio avendo imparato dai ratti nella stiva, avesse avuto tra i suoi ingombranti impulsi quello di riportare la mente agli avvenimenti precedenti ancora scottati dal sole, avrebbe avvertito forse un senso di rinascita. Così si sarebbe dovuta sentire, nel ricomporre pezzo per pezzo la propria manifestazione concreta in un’aria refrigerante: dalla sabbia s’era sbucciato un corpo nuovo, privo di asperità. Questo si sarebbe potuto immaginare, e udire assieme l’eco del silenzio diverso, quando in maniera diversa finiva assorbito dalla fragilità del suolo. Terra di sgretolamento perenne. Silenzio e calura compattati in identica proporzione nella sua materia. Ma una creatura, un personaggio, una palla -nel cui nucleo ribollivano un’assai spiccata illusione d’arbitrio, acqua di mare ingurgitata, e lo sciabordio irrequieto che assieme creavano- non avevano proprietà che permettessero un paragone senza costringerlo a scagliarsi contro qualcosa. E nonostante questo fosse contrario alla sua consueta percezione di ciò che conviene e a tutti i costi va preservato, non provava, in quel momento marchiato dal fresco, nessun desiderio di muoversi.


L’essere vivente chiamato Hr, capace di muoversi e di fermarsi, aveva deciso di fermarsi. Forse per la prima volta con l’intento di lasciarsi cadere in un vero e proprio riposo, ignaro di quanto quella caduta lieve creasse silenziosamente un’immagine speculare della caduta che, nera e famelica, l’aveva accompagnato senza interruzione nelle ore più calde, anticipandosi sotto di lui, sospeso nelle sabbie mobili su di un precipizio che non poteva vedere. Come nel dolce rifluire delle cascatelle, apparentemente innocue, dei rivoli sabbiosi, Hr ora scendeva in una nuvola che allentava la tensione muscolare e gettava vapore sulle escandescenze recondite nei suoi filamenti. La pelle nuda, sporca e ustionata poteva assomigliare alla membrana di una percussione pronta allo slancio del suo tuonare. Ma si tendeva a un ascolto passivo.


-ucciderò Kiy.-, disse Hr, senza nessun motivo particolare. Una serie di suoni secchi e vuoti che sembrava piuttosto un prodotto di scarto del naturale cigolio sprigionato dal digrignamento dei denti. Anche simili parole, se mai c’erano state, passavano con l’inconcludenza d’un raffreddore di scimmia. O venivano sbalzate via da pareti incolumi, incapaci d’ascoltare e per nulla intenzionate a farlo.


Il silenzio erigeva una parete infiltrandosi nelle onde, pronte ad accoglierlo: un istante prima che finissero di generarsi, parevano retrocedere all’improvviso, ricevendo un segnale dalle quiete di quel tratto di spiaggia. Allora si ricordavano di dover attutire la risacca. Gli uccelli si ricordavano che le strida lanciate dopo il segnale dei nuovi colori del cielo dovevano diventare nenie sottili, simili a trascurabili ma melodiose variazioni della nota fissa del vuoto, affinché in volo indolore giungessero a conciliare il sonno di nidiacei lontani, sparsi per le fronde di tutta l’isola, o anche al di là degli oceani. E le fronde, anche, strisciavano camuffandosi nella tessitura stessa dell’aria dopo il crepuscolo. Hr in piedi da solo trovava quel muro davanti e dietro di sé. Solo e cinto dal silenzio: era una sensazione strana, come essersi abituati a un pericoloso indolenzimento al punto da non saperlo più distinguere dalle condizioni normali, pur seguitando a conoscere la certezza della diagnosi. Così si sentiva Hr quando era in piedi, o fluttuante, nella quiete che avrebbe dato refrigerio ad altri uomini, e come costoro sembrava accomodarcisi. Ma qualcosa non andava e un rifiuto s’ingenerava in lui, facendosi tuttavia insidiosamente introvabile per aver assunto la stessa conformazione del silenzio esterno, dell’innaturale calma di cui tutto s’imbeveva. Hr non aveva fiducia nell’isola. E in virtù di questa sfiducia, già rialzava la testa la bestiola dentro lui che non poteva accettare d’aver scelto, anche solo per pochi minuti, il riposo.


Un’isola che mostrava un’altra faccia, un’altra faccia che era un altro inganno. Il nuovo lato raggiunto, dovevano essere vicini al posto che cercavano. Ma perché assecondava quella “missione”? Pensava di preferire gli avvenimenti che si sarebbero susseguiti, la possibilità di osservare, in un corteo di bestie, le forme prive di catene del caos risvegliato da ogni azione, ogni incontro dell’uomo con la natura o la sua distruzione, ogni incontro col nuovo giorno che sorge, e di quella frenesia distruttiva sarebbe stato un protagonista, parassitario dentro la missione ammantata d’oro di Kiy, il conquistatore dell’inconscio, il “missionario”. Ma i piaceri di un’isola di donne, che sembrava ormai un’isola dentro l’isola, erano stati quasi dimenticati, per l’azione di una nebbia inspiegabile cresciuta all’interno della fronte, come sprigionata dalle spore infette di un bianco fungo dell’oblio. E i colpi, le escandescenze, sempre meno riuscivano a demolire la materia di cui erano fatti il cielo e la terra e il loro confine: la materia del tempo rimaneva inscalfibile e resisteva agli attacchi, alle affermazioni nerborute di sé, restituendo al massimo la scintilla effimera di un superficialissimo graffio su una corazza di metallo. Se le azioni da disseminare lungo la via, pronte a sotterrarsi e continuare a influenzare ogni successivo pensiero così da sabotare la via stessa, non avevano più alcun potere, quale ragione restava di seguire? -seguire Kiy, ammise. Si stava comportando da seguace. Ma c’era per lui qualcosa alla fine di quel viaggio? Hr odiava non capire, odiava la nebbia del fungo, e ancor più odiava capire: sapeva che era appunto qualcosa di inconoscibile, che non gli riusciva bene di vedere, a muovere alcuni dei suoi passi -fosse stata anche una particellare porzione di volitività in un suo singolo passo, Hr non avrebbe mai potuto sopportare che appartenesse a esseri senza forma.


Così perso, sedette infine su una dunetta affacciata di fronte ai resti del tramonto, intessuti nelle rifrazioni vicine, in galleggiamento ora gonfio ora sciupato come alghe piene di gas fermentanti. Nei suoi occhi quei rossori erano cicatrici, scottature, bocche di suzione: la maculatura del corpo ritrovato. Negli occhi di Hr, con disgusto e rifiuto imprigionato dentro se stesso fluttuava l’immagine residua, e impossibile da scacciare, delle gambe arrossate del corpo dormiente di Kiy, quando prendendolo per i piedi e le spalle l’avevano sollevato, e trasportato diverse centinaia di metri prima che desse un cenno simile a vita -una strana e rigida vita, movimenti d’un poligonale furore paragonabile a quello di un oggetto inerte in cui all’improvviso prende dimora un fantasma giunto da un altro mondo. Dimenandosi all’improvviso, dopo aver innescato una scarica di brividi lungo l’intera sua magra figura, nella maniera di un cefalo fulmineamente destato dalla morte apparente a riva prima di dare gli ultimi strattoni e respiri, era balzato con il dorso dal torace di Hr, aveva divincolato le gambe inarcate dalla visuale di questi fin sopra le spalle di Dii. Gli occhi spalancati e la bocca in improvvisa apnea. Ma Hr rimaneva, chissà perché, amareggiato da quelle gambe. Sembravano rovinate, sgradevoli alla vista come cancri rosseggianti tratti fuori da una ferita praticata chirurgicamente. Sembravano gambe di chi avesse corso e nuotato per infinite distanze attraverso profondità di mare e roccia. E Hr non voleva che fosse stato Kiy a compiere quella traversata.


Non voleva forse che le cicatrici costituissero una prova dell’esistenza del mondo dei mostri dal quale era riemerso, dopo averlo attraversato per distanze refrattarie a ogni unità di misura, perdute in un buio totalmente cieco, come certi animali di caverna simili a scheletri pallidi. Non voleva ammettere che un simile mondo avrebbe voluto visitarlo. Superarlo, soggiogarlo sì, ma entrandoci dentro, ammetterne esistenza, fascino, potere. Era Kiy un uomo migliore adesso? Stava accadendo qualcosa in lui, che l’avrebbe reso nonostante tutto più forte? Nessun effetto era mai scaturito dagli insulti, le forzature, le minacce dei più forti. Un uomo poteva essere cambiato dalle gesta e le parole dei mostri, e non dalle mostruosità dei suoi simili? Era tutto una ridicola barzelletta: immaginare che un povero pazzo potesse aver trovato nel fondo d’una putrida buca una compagnia intima di mostri e fantasmi attraverso i quali sentire finalmente un contatto con la vita, era il suo climax di ridicolaggine.


E adesso dormiva. Di nuovo il sonno dopo il risveglio, la furia contenuta in un’identica nube che tutto azzerava, separava dal mondo per portare in una dimensione di torpore infinito. Nell’isola dove la nebbia non si vedeva mai, se non sollevandosi in impercettibili soffi di vapore dagli steli d’erbe notturne, la nebbia infine esisteva dentro i loro fastidi, negli ostacoli -doveva esserci una diffusione epidemica, di quei funghi maledetti della fronte. Hr malediceva la sua fronte. Tendeva le orecchie al mare, sembrava sereno.


E dormiva anche Dii. C’era da maledire Kiy e quel suo invisibile carisma. Finiva per contagiare uomini d’altro stampo. Dii dormiva nella stessa maniera incosciente. Stecchiti sulla spiaggia, appartati tra rocce come ubriachi sotto a un muricciolo affacciato sui frangiflutti, in uno squallido porto. Hr era sveglio. Tutto era tinto del colore di un livido, in cui il dolore venisse diluito in un fresco acquerello. Hr, unico sveglio e presente sulla terra, sembrava invece un bagnante avvolto in un panno per proteggersi dal vento e riscaldarsi, incerto se pentirsi d’esser stato in acqua esponendosi così al freddo, o se sognare una fortezza, un proprio castello che esiste solo nella protezione da quel gelo. Il mare leggero slittava sull’umida lingua ambrata della spiaggia, grigiabluastra ormai per il rimescolio alla luce, quel nuovo dipinto che stava venendo disegnato. Hr tornava a essere un figurante in una scena che non aveva la forza in quel momento di guardare da fuori, e nessuno c’era -nessuno!, si ripeté evitando con apprensione di voltarsi lateralmente, lo sguardo fisso all’orizzonte- che potesse ammirarlo, farne figura plastica e manipolabile. Questo era un elemento, persino per lui, di quiete. Questo era forse il significato della scena e del suo impulso inusitato, allora. Ma sopra il fruscio inintelligibile, passava il battito cardiaco, contro le pareti del castello, della fortezza, del panno del bagnante. Contro le pareti del petto. No, non è il cuore: l’acqua di mare reagisce in lui. E per la prima volta in decenni di viaggi per i mari del mondo parve, a lui solo (a me!, gridava internamente, inascoltato), d’udire i tamburi di giungla che sempre venivano raccontati dai marinai sbronzi di tutte le locande, gente di storie interrotte da languidi sospiri tesi a una distanza d’esotismo e smarrimento simile agli effetti di una puntura d’insetto capace di alienare la mente da se stessa, affondare tutte le sue navi partite al largo. Poeti incrostati di salsedine. E le loro percussioni, suonate da uomini-scimmia mai esistiti, si concentravano nel folto inaccessibile di giungle varicose nel fegato di Hr. Simile al tramonto ormai trascorso, rifulgeva di colori cangianti, trapassando la copertura: lì in pancia, placida come un riflesso di luce reticolare proiettato sull’intonaco da uno specchio d’acqua vicino, ondeggiava un’intangibile iride di blu, viola, rosso. Hr non si guardava lì, non guardava sé stesso, nemmeno l’orizzonte che aveva davanti a sé. Il suo mondo era ormai il picco dell’intollerabile, il suo mondo era invisibilità.


Nel suo odio delle cose invisibili, un uomo da solo sulla spiaggia, pieno dell’irritazione inibita di un infreddolito, non aveva in realtà fatto altro che pensare alle cose invisibili. Come si potesse ammaestrarle, senza mai doverle nominare, ignorandole; sfuggendo al loro controllo. Forse in quella fortezza di silenzio avrebbe potuto imparare a conoscerle. Non voleva farlo, ma avrebbe potuto. La necessità di governare con mani e calci poteva estendersi alla padronanza non solo di ciò che si vuol fare, ma anche di quanto viene rifiutato.


Forse per questo non sussultò, quando infine si accorse, senza dedicare un solo sguardo ad altro che l’orizzonte, che seduto accanto a lui sulla spiaggia c’era un essere strano e minuto che lo stava fissando con enormi e rotondi occhi giallastri. Di pelo mutevole in anelli concentrici e vischiosi, una specie di inchiostro vivo sottocutaneo. E odore pungente di sudiciume sotto il fogliame caduto nella foresta, muschi imputriditi. Hr si era accorto di lui, ma non stava reagendo. Che fosse quel maledetto con un potere -ennesima cosa invisibile- insito nello sguardo? Gialli bulbi di maledetto veleno, palpitato fuori dalle punte delle pupille e cristallizzato in giavellotti che raggiungevano lui, iniettandogli un oppiaceo disfattismo. Non stava reagendo e non stava guardando, né dentro, né fuori di sé, e la nebbia raggiungeva infine anche la fortezza d’invisibilità, tessuta per lui con maestria degna d’una congiura dall’insieme del cielo e la temperatura e l’attutimento dei rumori e il sonno irreale dei compagni.


L’animale fece a Hr la domanda più difficile, quella la cui risposta avrebbe comportato l’ammissione più dura da sopportare. Doveva essere in effetti un mostro. Giunto magari da una fossa. Trascinandosi, con le strascicanti grinfie ineluttabili di uno spettro o la persistenza di un bimbo capriccioso, una voce infantile.


-che fai?


.

Dii dormiva.

Dii era stato, un tempo, il personaggio di un quadro. C’erano pieghe buone nel suo animo: buono può essere un essere che perde se stesso nell’osservazione, che di fronte alle asprezze dell’ambiente ritira ogni affermazione, ogni impulso a fuoriuscire dalla tana incolume del punto di vista. In una distanza dentro se stesso, aliena tanto alla propria introspezione quanto agli sguardi intrusi del mondo, s’era molte volte rannicchiato, e come un esteta aveva raccolto i frutti dolci e aspri ed effimeri dal giardino del visibile. Nessuno poteva davvero osservarlo quando osservava, perché nessuno capiva cosa accadesse in quei momenti. L’uomo buono e semplice si rendeva l’enigma più insolubile, perché presto faceva cadere la domanda della sua soluzione: lui era così e basta.


Dii aveva visto se stesso passeggiare sulla linea di terra in persona. Personaggio come lui. S’era visto penetrare le profondità della tela, innocuo come una macchia d’inchiostro che viaggi in fluide nuvolette. Dii aveva ricordato quei bei quadri della locanda. E in una notte aveva creduto di vivere nella loro ombra: in un buco nel muro, dietro la loro cornice, si protendevano verso la tridimensionalità d’un mondo speculare, dove il chiaro era scuro e lo scuro era chiaro, delle opere in negativo. E qui ogni quiete era tempesta. Ogni spiaggia immobile era calpestata dalla danza che aveva infuriato sotto la luna, dinanzi a una tempesta che poteva esser scoperta in ogni cosa esistente: nel tumulto delle branchie, delle spore, delle menti.

Delle correnti sommerse e della neve che non avrebbero mai visto.

Ma Dii era sempre stato al sicuro.


Le narici stantuffarono, suono identico ai loro corpi grassi e inadeguati nella trappola dei formicaleone giganti. Era la sagoma di sé rannicchiata dentro sé che s’agitava troppo nel sonno, che goffamente cercava di non far rumore per non svegliare la casa immersa nel riposo e che proprio per l’ansia dovuta a tale premura risultava ingombrante, impacciata. Dii non era in una casa: sembrava una goccia accoccolata fetalmente sulla spiaggia; e poco discosto doveva esserci Kiy, il suo respiro del riposo vicino, altra goccia di sonno indivisibile. Eppure, pur non esistendo d’altra parte che lì, e pur non trovandosi nei corridoi d’un sogno, sentiva provenir da un soggiorno e da stanze vicine gli indistinguibili odori della polvere e rantoli di sonni pomeridiani. Molle di materassi, l’intera casa è attraversata da un rispetto che si dona in omaggio alle tombe. Sono coerenti i suoi coinquilini, chiunque siano: hanno insegnato a lui bimbetto il rispetto dei morti, “perché è così e basta”, e lo stesso rispetto praticano verso se stessi, quando impersonano senza avvedersene una simile morte, così simile da far paura: lo sente la pelle giovane di Dii, che il sole torrido e bianco s’abbatte allo stesso modo, con identico vigore, sulle lapidi simili a creste nell’erba, traversate dallo scampanio e il vento, e sulle pareti delle case in quelle ore interminabili paralizzate nell’intensità del cielo, ore in cui l’unica cosa sveglia è il tedio di un asino dal raglio immortale. Dii non dovrebbe ritrovarsi al centro di tutto questo. Era stato in un quadro. Ne era uscito. L’osservazione rinnovava se stessa e il suo feticcio ogni istante, senza mai mutar natura. Era nel sonno, nel nulla nero che si può osservare in esso, dalla postazione della caverna. Ma vedeva qualcosa, Dii che non stava sognando. Era stato il quadro a visitar lui, non vedendolo arrivare?


Non era Dii che stava sognando. Era la parte di sé recisa, e appoggiata incurantemente in una diversa collocazione di se stesso, come riappropriarsi della propria materia perduta ingerendo un proprio dito amputato. Come l’esca d’una rana pescatrice serpeggiante nella foschia limacciosa del fondale sconfinato d’una secca, quell’unica cosa sveglia si contorceva in un recesso di colore buio e carnoso. La sola a sognare. Un filamento metteva l’altro Dii, il corpo inaspettatamente premiato da un sonno di incoscienza perfetta, in contatto con lei.


Per questo Dii si alzò in piedi. Personaggio d’un quadro privilegiato dalla non-apertura degli occhi. Si inoltrò nella foresta senza vedere gli alberi e toccarne le cortecce. Appena pochi passi aveva fatto dal giaciglio. Una spiaggia a forma di goccia s’inscriveva nella spiaggia più grande: la virgola che lui aveva tracciato esistendoci, come firma nascosta sotto i colori, tra pentimenti seppelliti dai granelli in costante rinnovamento. Letargici principi geologici somigliano ai dubbi di un pittore gigante.


-Dii, Dii!-, lo stanno chiamando. Non vedendo niente, può solo vedere ciò che gli trasmette il filamento, dal luogo in cui egli stesso andò a ficcarsi e imprigionarsi, in volontario esilio della volontà. Chi è che lo chiama? Una signora che porta il latte, la polvere della strada maestra a imbiancarle rughe e vene affioranti sulle caviglie. L’asino raglia, rispondendo, prima di chiunque altro, alla chiamata, risvegliando il sonno grasso e solare del paese così da ricordargli l’inevitabilità dello strazio, la fine del riposo. O lo stanno chiamando da dentro la casa: il raglio e quello che contiene hanno destato tutti, e adesso occorre muoversi all’interno di una nuova scena, dove i figuranti faranno allegorie con ogni gesto. A Kiy anche piacerebbe un pensiero del genere. Ma saprebbe essere una guida? Può interpretare quanto accade nella scena prima che sia conclusa, e mostrarsi pronto al rischio di perdersi, sparire nell’oscurità come solo una guida esperta sa fare, così da riemergere dall’abisso? Saprebbe, insomma, spiegargli se a chiamarlo sono quelle persone remote, quasi senza volto e nome e odore -e certamente senza corteccia che li codificherebbe immediatamente-, oppure qualcosa che vive nella foresta. Le voci sono femminili, e in un attimo sono un tumulto indistinto.


Sulle guance di Dii, non intercettate da nulla che viva o che abbia coscienza, scivolano due lacrime. Assomigliano alla commozione dell’artista, sta rimmergendo i peli del pennello in una mistura dove ha versato, e racchiuso in cerchio vischioso, tutta la vertigine del potenziale, e di quanto non diverrà mai atomo del sublime, restando a seccare e incrostare sulla tavolozza.


Forse Dii, in un altro mondo -forse proprio uno di quelli oscuri, che le pareti della locanda ostruivano cercando anche di nasconderne i portali d’accesso con inesatte riproduzioni del mare-, sarebbe stato un buon artista. E all’infinito avrebbe disegnato, riportando ogni minima variazione e scrivendo su ciascuna di esse un manifesto infervorato e tormentato, le cortecce di tutti gli alberi incontrati in vita sua.


Lo chiamavano rintoccando le sinistre sillabe del loro conversare comunitario chiamato foresta. Lo facevano passare nei tunnel dove una foglia calpestata crepitava, e qualcosa, persino simile a un vecchio corvo delle terre lontane, gracchiava. Sollevandosi all’improvviso dall’ombra.


Un monotono ronzio di nulla c’era stato in spiaggia, a scavare nel sonno canali indolori, che il sonno irroravano. Nella foresta un insieme di concertanti rumorini, presto precipitati in un totale e solenne niente, era fatto della stessa sostanza. E una parte di Dii, l’uomo che cammina senza un volere e forse senza un vivo animo tra gli alberi, gli trasmette che vede il paese ammassarsi verso le violacee pendici dei colli, mentre il mare gli è dietro la schiena; gli trasmette contemporaneamente che vede davanti a sé, nel mondo fisico che sembra più irreale di quello ricordato, un’ultimissima luce catturata da un groviglio di rami in fondo al sentiero nelle ore finali del crepuscolo come in una ragnatela. Lì, oltre quei tronchi, c’è una radura. Dove le voci lo chiamano, stanno cantando quasi.


Cantavano irriconoscibili. Forse perché ancora sprofondato nel sonno, benché attivo, non risuonava in lui niente che potesse comunicare con quell’insieme misterioso di suoni. Forse Dii non aveva mai avuto a disposizione uno scaffale di suoni stipati con altrettanta meticolosità degli odori, gli intrecci tattili del legno. E dopo essersi recato lì da una spiaggia dove silenzio e fruscio, acqua e sabbia formavano un’innaturale connessione appartenente a un sogno che sembrava esser cominciato da pochi passi e subito essersi gettato, simile a una semiretta, a lambire l’infinito con le sue braccia gassose distese; dopo aver scostato le prime fronde sulla soglia, per un riflesso privo di qualsiasi legame con la propria volontà, le canzoni infine gli giungevano come una lingua straniera. E muto come al suo solito stette, in piedi, facendo l’ingresso nel lago d’erba traballante di riflessi turchese del momento di sospensione serotina, in cui ogni sorgente luminosa è scomparsa, ma il buio non è ancora uscito dalla sua tana.


In quella sospensione di luce, gli occhi dei gatti sono i più penetranti e s’intrudono a fondo nelle cose che all’unisono, allo scoccare dell’ora, cercano di eludere gli sguardi, respingerli con un nascondimento che vuole assomigliare alla notte stessa. Sanno che è un futile sforzo. Vibrisse e orecchie, acuirsi di percezione per ogni tensione superficiale del pelo. Balzi, sonni profondi, scatti, inerzia. Senza soluzione di continuità. Dii vide i gatti, animali tipicamente non da branco. Li aveva davanti a sé, particolari e universali: in frammenti si ricomponeva un’immagine ideale e sintetizzata, mentre in volo essa giungeva alla coscienza di Dii, l’intruso nel loro mondo come la loro vista era intrusa negli spazi sigillati dentro ogni essere. L’immagine diceva: “gatto o qualcosa di simile”. Il bagaglio ammassato dalla coscienza quand’era stata sveglia disponeva di diversi colori possibili da sovrapporre a uno scheletro incolore. Diverse strategie comportamentali. Stiracchiarsi, vomitare una palla di pelo. Dii salutò. Gesto senza ponti con la coscienza. Coscienza senza ponti col resto: a guardare in un cannocchiale da dentro una remota anticamera, appendice in agitazione.


I gatti subito allertati si sollevarono dal loro sonno danzante. Non era Dii il solo a veder fratturata la propria opposizione tra sonno e veglia, sole e luna. Ma non era una giornata particolare, non la sera di un rituale. Semplicemente succede. Vibrisse evolutesi per recepire con il brivido dell’equilibrio su di una fune d’argento tutto ciò che semplicemente succede. I gatti sanno che il nascondimento delle cose in loro presenza, affannate nella ricerca di veli di buio d’avvolgersi attorno come guscio, è uno sforzo futile: non si può assomigliare alla notte! Oppure, se lo si può fare, esisterà sempre da qualche parte nel mondo qualcosa che si predisporrà a una misura identica e contraria, uno specchio che risplenda come la luna verde dell’occhio, piena e traballante nella superficie di uno stagno: occhi che imitano pianeti, e in quel buio, gemello del cosmo sospeso, tranquillamente fluttuano in anelli di luce. Con due pianeti ciascuno nel cranio, ricompongono anche loro un’immagine, sintetizzata, stereotipa: grosso essere: stirpe scimmiesca: in piedi; sangue: caldo, ma lento; intenzioni: molli e abbandonate.


Ricevono il cenno che ha fatto e concludono che non è di questo mondo. La cosa non li sorprende né li allarma: devono essere abituati. Anche alle interruzioni. Ciò non significa che non siano una seccatura.


Rimasero in molti a riposare col ventre a terra, dello stesso colore del suolo. Alcuni, donne dai capelli lunghi fluenti sui talloni intenti a scalciar l’aria, erano ancora presi da un girotondo di saltelli leggeri e lenti, una canzone tutta ritornelli, ripetizioni, motivi ripresi più volte: ricordava la lunga marcia dei viaggiatori smarriti che riconoscono posti già attraversati, quasi un elemento inconscio che pur conoscendo benissimo la via per il proseguimento si sforzi di evitarla e li spinga invece a ritornare ossessivamente a veder sempre gli stessi luoghi, sentirsi sempre come s’erano sentiti in quelle tappe dello smarrimento, riassaporare nel petto affranto la vertigine di quella particolarissima caduta nell’ignoto. Questo soltanto poteva ricordare una canzone senza nemmeno note musicali nell’orecchio del ricevente, senza capacità d’ordinarne gli istanti spezzettati in pentagramma.


Dii era un personaggio di un quadro, non di una ballata. Ma nel mondo della tela, penetrando la penombra come gli occhi verdi e gialli, gli giungevano le parole intraducibili.


Non erano i gatti di montagna. Esistevano davvero quelle montagne? Ne avevano sentito il gutturale rombo quando avevano camminato tesissimi, sulla passerella sospesa al di sopra del precipizio dei formicaleone. Non erano forse nemmeno esistiti, in quel momento, se inesistenti erano le montagne il cui canto titanico di quell’ora era stato tale da far credere che nulla potesse dirsi esistente più di loro, del loro messaggio intenso come lo è solo un dolore che può affliggere la roccia inscalfibile e millenaria.


E se non esistevano quelle montagne, non esistevano i riti che lassù erano stati officiati. I gatti selvatici senza una casa. In questa parte dell’isola, chiamata notte, si radunavano per un gioco, un cerimoniale senza nessuna connotazione ufficiale per il calendario del loro paese. In silenzio accoglievano la seccatura dell’intrusione. Sempre avevano un odore selvatico che, dietro il filamento di Dii addetto al cannocchiale dal fondo della grotta cerebrale, stuzzicava a far prudere un altro filamento, pronto a dire tra sé e sé in bambinesca eccitazione tutte le infinite cose che su quell’odore proliferavano, in numero uguale alle pulci e i parassiti microscopici. Ma sorrise solo dentro sé, Dii, l’uomo, in piedi, a sangue caldo, sonnambulo, che non mostrava tracce sul volto ancora rosso per quello spaventoso pomeriggio che all’improvviso, vittima di quello stato indefinibile, gli pareva non esser mai esistito.


Ciò che in volto non gli affiorava si dimenava per farsi vedere dalle braccia, dalle dita -terminazioni assai ricettive, che in tanti luoghi profondi l’avevano condotto con le loro domande e risposte. Il goffo gesto da meccanico fu intercettato, prontamente ignorato da molti dei gatti quadrupedi o bipedi, e di nuovo intercettato da un esemplare che d’un tratto appariva perfino sorpreso, il massimo stupore possibile della sua testa triangolare -presto lasciato evaporare, al suo posto accomodato il muso silente in cui ogni commento è serrato. Aveva riconosciuto l’umano che l’aveva tenuto in braccio. Non era però l’umano a cui aveva detto poche e inefficaci parole d’avvertimento. Non sapeva se poteva farsi sentire.


-mi senti?-, chiese il gatto, la coda all’insù, avvicinandosi alle caviglie nude di Dii ritto in piedi all’intrico d’ingresso, facendo come per strusciarcisi.


Poteva sentire? Dii credeva che qualcosa l’avesse chiamato… parte della canzone delle donne isolane, forse. Pagane che chiamano se stesse ninfe nel linguaggio della musica. Si poteva venir fuorviati a tal punto da una lingua sconosciuta? Poteva darsi che nessuno, a eccezione del gatto, lo chiamasse.

Un gatto che chiama. Strano.


Solo una parte, molto trascurata, di Dii, poté rispondere all’appello, fuoriuscendo con enorme sforzo dalle varie catene occupate a formar serpenti nel continente della sua mente.

-eeehh…-, fu tutto ciò che riuscì a rantolare.


-dove sono gli altri due?


-..altri?


-sì. Altri umani. I tuoi… amici, no?


-a..mici. Ah. Mmmm…


Dii sembrò riflettere. Occhi aperti e guance distese, nulla denotava cambiamenti drastici: solo frammenti inerti di fogliame marrone scuro nella barba. Sveglio senza veder nulla, sentir nulla: l’impassibilità del volto faceva soltanto passare, come sentinelle svogliate, tutte le cose distanti e aliene a se stesse che chissà da dove provenivano, per conversare con chissà chi.


-Kiy dorme. In spiaggia.


-mh…-, il gatto sembrò deglutire. Attendeva che gli dicesse dove fosse l’altro.


-Hr anche in spiaggia. Altrove. Visto con coda dell’occhio. Davanti al mare. Accanto a una specie di macchia.


Il gatto rabbrividì per un presentimento che nemmeno lui conosceva. Nulla avrebbe saputo dire riguardo quell’improvvisa paura, e il fatto di scoprirla in questo modo.


Guardava in su, le braccia ciondolanti che l’avevano tenuto e riscaldato con tanta e ammirevole padronanza di gesti in un giorno ormai lontano, da far pensare che in quell’individuo ci fosse la nobiltà di un animale dal raffinato e sensibile istinto. Braccia di un uomo che con aria ebete, eppure spoglia di ogni stupore, contemplava la danza praticata senza struttura da abitanti percettivi e notturni dell’isola, in una radura qualsiasi, scelta uguale a tutte le altre di quella metà del paese. Qui ogni fase della notte calava più intensa. E anche in quel preludio, nel diluito inchiostro ancor blu, già rimbombavano i movimenti successivi, i sublimi obelischi del nero, la conclusione in invisibilità uniforme. Ma era tutto normale. E un brav’uomo, capace di farsi rispettare da un orgoglioso esemplare selvatico senza da questo attendere conferma, rimaneva in piedi come dall’altra parte di uno schermo, sprovvisto di qualsiasi capacità di osservare il fenomeno normale.


Gente che meritava forse d’esser salvata. Un presagio gelido che aveva scombinato le mappe sotto la pelliccia. Cose strane accadevano nella metà scura.


(-lo dicevo io, che sarebbero successe delle cose molto strane)-, disse tra sé e sé, col suo cervello felino, quell’esemplare di una strana specie di gatti selvatici, strusciandosi a caviglie e piedi cui aveva d’un tratto cominciato a trasmettere fusa regolari e baritonali. Ansioso perché non vedeva quella paura, non sapeva quale immagine di minaccia fosse custodita in lui per risvegliarsi e preoccuparlo così. Pronto a rassicurarsi e rassicurare. Tornava a sentire attraverso pelo e muscolatura il calore custodito in quell’umano.

(-c’è da aver paura.)-, aggiunse mentre Dii, ancora preso -per modo di dire- dallo spettacolo, lo sollevava e teneva nella conca formata dalle braccia aderenti al petto, in un insieme di gesti inconsapevoli che finivano nelle dita, il loro ritmico carezzare la parte di pelo rado tra le due orecchie triangolari.


.

Hr si ostinava a non guardare l’interlocutore, e la sua ostinazione voleva che fosse grande, la massima concezione di bellezza da cui si lasciasse sfiorare. Statuaria: corpo con le braccia spalancate nel vento in cima a una vetta conquistata, ormai irraggiungibile a chiunque altro. Era il suo massimo desiderio in quel momento: si risvegliava in spire urticanti, là dove il fegato gli doleva, ridonandogli periodicamente un nuovo fuoco per plasmarlo, gonfiargli ciò che lo rendeva se stesso. La versione migliore di se stesso doveva superare l’identica ostinazione che percepiva provenirgli da quegli occhi che con tenacia rifiutava: qualcosa di simile c’era nella creatura, no anzi, più animalesca ancora, perché inconsapevole; e covando in quel corpicino essa era risalita per raccogliersi infine negli occhi, dove doveva aver scavato cerchi rifulgenti come magma in un cosmo nero di roccia lavica. I bagliori lì racchiusi, ogni notte impenetrabile s’incidevano nella tenebra, più a fondo di una lama di coltello, praticandovi due fori fluttuanti. Attraverso i quali si poteva sbirciare in un mondo spaventoso, qualunque cosa avesse dentro. Qualunque caotica giungla custodita nella testa di quell’affare, quando dalle fronde degli alberi, muto e invisibile all’intero universo, osservava le cose nelle ore più buie.


-che fai? Bagno?


Hr non capì la domanda. La ripeté sottovoce: bagno? Avrebbe mai potuto sperare forse di scrostarsi di dosso il sudore gelido, rinascere dai flutti sempre più gelidi ogni istante trascorso? Non era un prete né un fedele, no. Si bagnava solo nell’immobilità ancora intrisa dell’afrore di loro condannati nella sabbia, quell’odiosa esitazione che l’aveva afferrato nell’incantesimo maledetto della sera, che davvero lo stava facendo assomigliare a un aspirante sacerdote di sua conoscenza. S’imponeva di vederla come un temporeggiamento, un’aggressione camuffata dagli stratificati preliminari della strategia. Solo così sopportava, solo così entrava a far parte della scena in cui lui era un giochino rimbalzante sui dentelli aguzzi di quella boccuccia nera. Morsetti di una piccola peste che impara a conoscere gli oggetti.


-idiota! Ti sembra che sto per entrare in acqua?


-idiota! Idiota! Idiota!


Saltellò. Linee scure ondeggianti ai margini del campo visivo. Quella cosa viveva, era lì, cercando di farsi vedere e sentire. Piccoli pennacchi di sabbia sotto i piedi e la coda. Acute risate nello scimmiottamento, passaggi frettolosi dalle fronde vicine al cielo lontano di volatili disturbati. Hr istantaneamente si voltò verso la boscaglia, da dove gli era parso d’essersi sentito raggiungere le vertebre gonfie come perle nella schiena nuda da uno sguardo. Un altro ancora.


Spoglio forse di quel giallo terribile. Dal guscio di fuoco umido, viene tratto un mollusco di pupilla puro, e da questo ancora un altro filamento interno, è un mollusco senza corpo. Aleggiava, invisibile frusciava su tutti gli alberi, tutti gli spazi scuri fittissimi e onnipresenti tra essi. Era ovunque la presenza. Quello il vero micelio: l’ombra: funghi bianchi che annebbiano sono solo appendici, nei che ammorbano una singola, insignificante mente, abbarbicandocisi assetati.


(-sto impazzendo. Anch’io. Proprio io, il solo essere di questo mondo che non è pazzo.)


-siamo altri spiriti isola.-, disse la creatura dalla lunga coda e la bassa statura.


-mi fate ribrezzo.-, ringhiò Hr. Da un fondo cartavetrato della gola gli emergevano quelle parole d’odio cavernoso. Non era mai stato così spaventoso, così efficace nell’incarnare la paura che avrebbe così tante volte voluto trasmettere ai propri nemici. Purtroppo in sua compagnia c’era qualcosa che non sembrava potersi impressionare -non perché trovasse ridicolo in particolare quell’atteggiamento, tra tutte le cose del mondo che trovava ridicole, quanto perché non s’accorgeva affatto della variazione, e alla velocità dei suoi impulsi morti e rinati in continuazione Hr si presentava come un oggetto incapace di cambiare, o che avesse già concluso tutti i possibili cambiamenti. Oggetto fermo. Quasi bianco senza espressioni del volto e intonazioni.


-..ribrezzo.-, ripeté Hr, ascoltandosi con piacere per come suonava in quel modo inedito.


-però altri spiriti piacevano… bei capelli, profumo. Tocchi pelle bruna. Gambe, braccia. Tutto. Spiriti pure quelle. Te piace.


Era strano sentirlo parlare delle donne. (I bambini e le bestioline morbidose non dovrebbero sapere certe cose.)


-ah, è così, e cosa saresti, una specie di guardone?


-mh! Sì, sì, guardone, guardone! Me piace, guardone da oggi! Così voi date nomi, vero? Guardone, guardone, io sono.


-perché sei qui? Non è passata la vostra notte?


Annuì. Hr lo sentì annuire. I suoi spostamenti d’aria erano concreti, concreto era “lui”… o nulla di tutto ciò lo era, ed era in un magma di incorporeità che riuscivano dunque a mettersi in comunicazione, trovare somiglianze. Questo sarebbe normalmente sufficiente a invogliare Hr a sollevarsi dal collo la testa, lanciarla da una rupe tra macerie di noci dure destinate alla gravità, la devastazione della scorza. Pietre in fondo a gole diventano altari rituali. Macchie di sangue più belle di pesciolini rossi in mulinelli tra i coralli con le pinne pirotecniche. Più intricate e imprevedibili anche di quel sangue di china che percorre la livrea semovente della creatura. Hr torna al presente, da cui mai prima d’allora aveva desiderato fuggire. O forse tutti i suoi assalti, le sue ragioni, erano fughe, e sempre non c’era stato altro che un correre angosciato. Tornò al presente che senza muoversi lo stava aspettando in un posto irriconoscibile, che non sembrava nemmeno suo.


-mh mh. È come dici. Sì. Notte sacra passata. Fine. Di tutte cose.


Perspicace. Capiva le poche allusioni di Hr, la sua recondita e inferocita intenzione di parlare, porgli domande.


-portali chiusi. Non dovremmo stare qui.


-e allora sparisci.


-ma qui altra parte isola! Diverse regole. Se morti vivono dopo fossa, regole scattano. Mischione.


-non capisco una parola e non voglio capirla.


-niente! Niente capisce! Capisco, capisce, capisci!


Capace di far sentir male. Ogni cosa della creatura -un animale in fondo, di cui Hr poteva e voleva soltanto presumere il pelo striato di nero, bianco e bruno-, ogni possibile significato della sua essenza veniva racchiuso in una voce da bambino. Ma in questo bambino qualcosa non va, sentiva Hr formicolante: nei passetti innocenti e i giochi che nell’esagerazione di se stessi mancano di riflessione e consapevolezza, s’annidava un qualcos’altro di sinistro, un’ombra spinosa di celacanto ingigantita nel raggiungere il fondale e le epoche distanti dopo le estinzioni di massa. Si sarebbe piuttosto detto che la sua voce fosse l’imitazione, ostentata e brutta, di un attore che interpreti un bambino, sottolineandone la fastidiosità; eppure era una voce naturale, e proprio questo contrasto la rendeva sgradevole in una maniera che sembrava non aver nulla a che fare con il gusto o la musicalità, appartenendo invece allo stesso pozzo profondo dove si generavano depressione, angoscia, stupore negativo… cose alle quali Hr non aveva mai saputo né voluto dare un nome. Fantasmi, riti, animali parlanti. Era in un territorio che non gli apparteneva. Hr non aveva mai contemplato l’idea che un conquistatore potesse dover conquistare territori estendentisi in mappe esterne a quelle dei propri desideri, galleggianti in eterno su mari di colori strani, tempeste sconosciute.


Propenso come mai era stato a ritornare sulle contemplazioni delle cose ormai svanite, perfino le parole di una bestia, valutò quanto gli aveva detto, quella sua natura di “guardone”: cos’è che aveva visto, e a quali altri spiriti si era paragonato? Confrontò due figure incontrate sull’isola. Quella del presente distorto, non vista veramente, di una creatura selvatica, imprigionata in uno stadio infantile e primitivo, pelo dipinto di pattern fluidi incapaci di definirsi e stabilizzarsi in un’immagine costante che si lasci catturare dal pensiero. E l’altra figura, seducente. Fatta di temperature e odori che man mano andavano scomparendo come l’ordine all’interno della memoria di quei giorni di pausa, ma di cui rimaneva un lieve, quasi inebriante tepore come fosse stato lasciato dal passaggio in primavera di caldi raggi attraverso un pergolato di rami intrecciati.


-e quindi, tu… voi, sareste come quelle? È ridicolo… non ti credo. Perciò sparisci.


-no ridicolo. Dite anche voi, no? Dove c’è pistillo c’è anche… c’è… facciamo dove c’è pistillo c’è anche insetto pungiglione grosso ronzante zzzzzz. Voi dite! Ah! Voi dite, piace a me, piace a guardone, barzellette, storielle.


-ah! Pistillo e insetto. Buona questa. Ma certi discorsi dovreste farli a chi ha bisogno di lezioni su come si fa a far nascere i figli. Un certo ciccione addormentato.


-non piace te brav’uomo?


Hr trovò irritante, di nuovo e più che mai, quella tendenza dell’animale a scoprire che esistessero anche per lui domande estremamente indiscrete. Intime negazioni che gli era scomodo pronunciare.


-a che serve un brav’uomo? Solo a rendersi ridicolo.


Dii era un brav’uomo? Un elemento importante. Affidabile. Forse era lui a tenere a galla il fantasma di una nave che era affondata da un pezzo. Tensione superficiale: placida e indifferente. Indifferente anche quando una furia, gettata sotto strati di distanze così vaste da farsi insondabile e quasi inesistente, fa sì che la superficie cominci a incresparsi, fino a uscir da se stessa in creste di schiuma lacerante e ferire, uccidere, distruggere. Dii non sarebbe mai esploso in una simile rabbia come quella che l’oceano aveva regalato loro quel giorno fatidico. Dii avrebbe anche lasciato che le cose esterne lo dilaniassero, se fossero riuscite a farlo in maniera indolore, e in modo tale da permettergli ancora di gettare due sguardi impassibili qua e là. Ridicolo in questo, pensava, e nelle sue altre ingombranti forme di disinteresse. Ma lo era davvero? Il dubbio visitò Hr come un estraneo presentatosi per la prima volta alla soglia della sua casa, e il rimorso si disegnò stupido e goffo sulle sue labbra intorpidite dal costante livellamento di tutto quanto era sciocco. Ciò che è sciocco secondo Hr: ciò che ignaro di come le cose funzionano veramente: sassi che cadono, protezioni che vengono infrante ogni momento. Ma l’irriducibile Hr era -all’improvviso o da sempre- un cauto, l’anima sua camuffata da nera ombra si muoveva a passetti calibrati tra felci e agavi per non far saltare i nervi dell’animale lì dietro angolo, più agile di lui, più reattivo anche -la paura stessa in forma mammifera.


-me piace brav’uomo. Alberi parlano bene lui. Lui e uomo strano volevano vedere noi. Curiosi di noi. Contatto. Tu no. Tu invece no, signore ringhioso non vuol vedere.


-e allora vattene!


-no no, no no, no no! Ha ha ha ha ha!


Un marmocchio dispettoso. Sapeva che Hr, ribollente di rabbia, voleva afferrargli la lunga coda, e strappargliela via, gettarla in mare; ancor meglio sapeva che riuscire a farlo sarebbe stato per lui come ammettere l’esistenza di quella conversazione. E sapendolo saltellava, scherzava, inventava nuove acrobazie. Senza conoscere un singolo gioco di umani, un singolo passatempo tediato e senza scopo, aveva vinto la sua prima partita a scacchi.


-vattene. È una minaccia.


Silenzio, poi onde, poi vento. L’insieme dai confini indistinti si ripresentò, e indistinti si ripresentarono i confini tra il senso opprimente esteso e impersonale proveniente dall’isola così trasformata, e l’oppressione irradiata in maniera più piccola e pungente dall’essere apparso lì. Non stava rispondendo, poteva non esser mai apparso. Hr sentiva che lo guardava, occhi enormi, occhi gravidi del raccapriccio istintivo germinato dalle falene. A occhi siffatti avrebbe voluto lanciare dei sassi, se solo li avesse guardati senza distogliere l’attenzione.


-vattene. Me ne vattono. Me ne vado. Ma poi voi come? Come senza?


-mph. Credi di essere importante? Niente è importante: nemmeno uno di voi cosi.


-come fate senza cosi a fare la magia? Senza cosi non si può vivere isola.


-non facciamo nessuna magia. Perché le magie sono stronzate. Hai capito? Ora lasciami in pace.


(pace? Adesso voglio la pace? Non voglio forse colpire il muso di questa scimmiaccia notturna? E provare che sto tirando cazzotti all’aria, nient’altro che l’aria? Non c’è male nel menar colpi all’aria. Ci sono erezioni che sorgono senza nulla in cui ficcarle. Sarei un nudo e bagnato dio potente e basta, a dar pugni all’aria, non un dio insensato, come tutti gli altri dei.)


-magia è quello che tuo amico cerca. Uomo uscito dal mare. Magia di incontrare i morti.


Hr d’un tratto deglutì e fece per voltarsi in uno scatto alla sua destra, dove era certo sedesse l’animale, e pentendosene immediatamente constatò che il rischio era cessato: in un balzo agilissimo e discreto doveva essersi spostato altrove, dietro, dove gli occhi continuavano a fissarlo e inciderlo. Doveva rimanere cauto: sapeva che lo spostamento non era stato motivato da un impulso a evitare d’esser visto, complementare al suo sforzo di non vedere. Doveva esser stato distratto da un insetto o una noce o una stupidaggine del genere, e basta. Hr doveva stare attento a non stupirsi.


-ah, ma allora sai proprio tutto, bestiaccia. Chi te l’ha detta, questa? Il diavolo, mi dirai!


-macché! Tutti sanno.


-“tutti”?


-terra. E i vivi suoi. Quello che succede e che si vuole fare sopra terra sappiamo.


-una terra di pettegoli. Non piacerebbe questo a quel mio “amico” di cui parli: un’isola dove crede d’aver trovato le fate e i cavalli magici che lo portano a spasso nel mondo delle idee o chissà cosa! Nientemeno che un frivolo e sozzo paesello uguale a quelli lasciati lì a casa, pieno di comari che sanno tutto! Ha ha ha ha…


La risata di Hr, trascurata da tempo, si librò senza significato. Non si sentiva leggero, non era nemmeno un terrorizzato che rida per illudersi d’aver conforto. Ma si sarebbe detto che il suo ritorno fosse un buon segno. Hr era più sveglio di prima, nonostante alcuni dolori alla pancia.


-quindi se ti butto in mare Kiy non riuscirà a fare tutto quello per cui siamo venuti qua. E noi con lui. Il nostro “amico”… scommetto che non sai nuotare.


-ah, Kiy riesce, Kiy nome suo? Io guardone: lui Kiy: altro brav’uomo: e tu?


-ora non farmi incazzare. Hai capito cosa ho detto che farò di te?


(e tu? E tu? E tu? E tu? Ma perché diavolo sono venuto dietro a un uomo inutile? Perché nell’isola non ho trovato quello che cercavo?)


-incazzare! Cazzate, cazzate, ha ha ha ha! Tu uomo di tante cazzate.


-non hai paura di quello che dici, ora che puoi guardarmi bene?-, disse Hr grattandosi il fiato per far ritornare la voce che gli era riuscita prima, e alzandosi in piedi, ostentandosi per quanto più grande s’ergeva rispetto all’esserino che cercava di evitare. Esserino arboricolo che riusciva però anche sul suolo spoglio a essere infinitamente più flessibile, più inafferrabile di lui.


-paura io no, tu cazzate sì! Perché siete tutti ormai di qua: qua è sempre notte! Isola notte! Festa noi le….


Hr non udì il resto della frase. Un ronzio si tuffò nelle orecchie, e in spirali concentriche prese a inoltrarsi lento, lento, facendogli capire nonostante la fugace impressione di risveglio che la nebbia ormai lo riempiva tutto, facendogli provare il massimo odio senza sbocco nei confronti di tutto quel tempo trascorso davanti alla spiaggia, come fosse soltanto il personaggio impotente d’un sogno degli altri due addormentati chissà dove. Faceva male ai timpani. E irradiandosi da lassù, sentì gli strati inferiori dell’intero suo essere pervadersi di un inconsistente dolore. Qua è sempre notte. Hr all’improvviso capiva i simbolismi, le cose implicate. Cosa diavolo era l’isola, o la sua altra sponda, dove erano approdati? Non c’era davvero nient’altro per loro? Esaurite le forme di cambiamento.


Ripensò alle ombre, le alte belle ombre nere che dal cielo s’erano proiettate a terra, quelle di cui mai più lui e Dii avrebbero parlato, perché erano ineffabili, perché c’erano anche altri motivi, perché sì. E nell’istante di un lampo, rimasto invisibile e inascoltato nel cielo violaceo di quella sera, la creatura era davanti a lui, senza che avesse avuto il tempo di accorgersi di nulla.


-dimostro!-, esclamò. Uno strattone, un singolo suono sgradevole. Subito cancellato. Il tempo e il mondo avevano ingoiato qualcosa, una chiave. Una serratura s’era aperta nel ventre degli avvenimenti. Minaccia dell’irreversibilità.


Il tempo veniva cancellato dai movimenti dell’animale. Hr fu privato d’ogni calore interno per aver visto dritto in faccia il muso che sembrava umano, gli occhi resi d’arancio bruciante dal contrasto del buio progressivamente più fitto, i disegni vivi, il veleno vivo della pelliccia d’enigma. Guardando poi se stesso in cerca di un aiuto, vide la cavità in cui la creatura aveva affondato una zampa simile a una mano di dita lunghe e acuminate, ricurve come uncini allungati. Vide la cavità squarciata sotto lo sterno da cui nessun sangue fluiva, dove solo un liquame nerastro simile a guano di pipistrelli adornava i contorni dell’ingresso aperto con la forza -una forza sovrannaturale che non lasciava tracce di se stessa sottoforma di agonia o terrore immediati. No, il terrore lo raggiungeva soltanto dopo che la ferita era stata inferta, quando constatava che, muovendola, lì al centro del suo corpo, qualcosa scrosciava delicatamente. Come acqua di mare racchiusa in un ampolla. Come qualunque cosa fosse -sangue o acqua di mare- quella che, per quanto invisibile, gocciolava, stillava dal foro. Ne sentiva le gocce e lo sentiva al tatto, toccandosi per disperazione, infermo che incerto d’aver trovato la propria ferita. E sentiva le gocce, ma non vedeva. Forse perché non c’era niente da vedere.


Hr gridò senza fiato. Sottratto immediatamente dal tempo. Ingoiato con la chiave. Piegato verso il suolo e impallidito, cercava di riempirsi il buco con le mani, unite, intrecciate, una stretta di conforto per se stesso. Un’unica domanda si faceva strada negli spettri di caos che impazzivano rovesciando ogni cosa nei percorsi della mente: se la ferita potesse rimarginarsi, o no.


-visto?! Se non passati da fossa voi non qua! Se non usciti dal mare voi non qua! Nessuno infatti viene qua! Solo voi! Dietro lui che è sceso. Kiy! Kiy! Kiy! Kiy!


La creatura gridava, danzava, e pareva chiamasse il nome di Kiy, il resuscitato delle sabbie e del mare, il dormiente. Ma forse non si trattava di questo. Era soltanto il verso stridulo di un animale, un richiamo che innescava la notte, improvvisamente accelerata, in pochi secondi infittita tutt’attorno senza progressione come se avesse divorato in un baleno manciate di istanti. Secondo i dettami di un tempo che non era fatto di quegli istanti messi in fila uno dopo l’altro, come perle in una collana, ma si generava anzi scriteriato e deforme proprio al centro di quel verso, quel segnale che senza artifici o vacui contorcimenti d’eloquenza incitava, richiamandole da un nascondiglio, tutte le cose scure e fredde: “ecco, adesso! Vivete, ascoltate, captate ogni evento, e in silenzio di spettri lasciatelo passare!”… o forse era davvero passato un tempo lungo, rimasto sconosciuto alla paradossale agonia senza dolore di Hr.


Hr si alzava, barcollando, svenendo e svegliandosi a ogni passo. Si sentiva sfinito e più forte di prima, e malediceva la contraddizione, e dimenticava poi subito di maledire: s’appigliava a quella sorgente che gli muoveva i passi, perché voleva essere quel tipo d’uomo, e il suo volere, bastonato e umiliato, trovava forse un’ultima motivazione per risorgere di fronte al timore della propria distruzione, un timore che voleva irridere. Voleva essere un uomo che si appiglia senza indugio alla sorgente quando è svuotata quasi del tutto. L’istinto lo condusse a voltarsi: vide della bestiola solo una coda, la punta della lunghissima coda sparire fulminea in cima a un albero, e poi nel nulla. Per quel coso, un albero era tutto, entrare in un albero era ritrovarsi in un attimo in un qualsiasi altro albero dell’isola, era un nuoto dentro una rete ch’era il suo più profondo elemento, più agevole che se nuotasse nei meandri del proprio cervello. E lì dentro era sparito. Non l’avrebbe dunque afferrato, uccidendolo, ma neanche ne avrebbe ammesso l’esistenza, e la ferita, ancora fonte di delirio ma già rimarginata, già inesistente, non poteva costituire una prova: la sconfitta a scacchi si rivelava infine un pareggio. E l’istinto di nuovo emerse sicuro e quasi vittorioso in Hr, dicendogli di recarsi da Kiy. Accertarsi che stesse dormendo, che attorno a lui non ci fossero cose strane, risvegliate dal suo nome lanciato in stridii acutissimi a tutto quanto era in ascolto, con dita d’ombra aggrappate a tronchi e insenature. Il mondo che attendeva di trasformare ogni cosa in una foresta della notte.


.

Kiy dormiva ancora, così come s’era trovato deposto per terra, senz’altro tepore che la pelle del suolo, senza giaciglio. Sotto lo sguardo vigile delle ossa nude e cineree di lei, già vestite di nero e blu.


Era bella e terribile come lui nei suoi sogni di poeta aveva immaginato potesse essere una specie di anti-ninfa che segretamente abitava dentro di lui e d’ognuno, lei che si rinvigoriva nel mondo sotterraneo della penombra di una radura dove ninfe d’altra specie avrebbero preferito bagnarsi dei pochi raggi di sole. Nel sonno profondo e separato da ogni cosa sentiva un solo legame con quanto esisteva. Il respiro di lei lo carezzava. Ma se Kiy avesse avuto con sé la coscienza, mai avrebbe saputo dire se fosse un fiato caldo o freddo.


Eppure, come privo di mente, privo di tutto, riusciva a vederla. Qualche parte di lui, risparmiata da quel sonno annullatore che non sembrava appartenergli ma piuttosto progredire da un insieme di cause criptiche, doveva star sognando. Riconobbe. Una figura già presente in altri sogni. E Kiy si rannicchia fetale, sorridendo impercettibilmente al saluto degli occhi spaventosi, sotto la sua unica regina per la durata di quel tempo sospeso. Ponte pericolante tra sponde inconoscibili. Saluto di lei: alza la mano di ossa bluastre.


Si disegnò anche nel volto disteso a panneggio sul teschio, non ancora del tutto scarnificato, un sorriso lieve. Teso in insenature effimere stava quanto rimaneva delle guance come flaccidi e sottili fogli di pelle. Sotto gli enormi occhi di smeraldo assorbiva riflessi nei denti, che sembravano minuscoli, una cerniera che sfregia il viso rappresentativo della notte e sfregiandola le dona un più autentico volto. Gemme di irradiante smeraldo incastonate in un cranio, l’ombra di un ghigno futuro che mai prende forma, e afferrando i bagliori dello sguardo uniformato nel verde, quasi bianco abbacinante, sembra ammantarsene. Comunicazione con Kiy, ma può un uomo nel suo stato rivolgere quella parte di sé vigile in un anfratto di sogno intercettare trasmissioni d’amore? Spettrale contorto amore. Lei procede dal segnale che avvia la tenebra. Lui procede nel sonno che non lo rende vivo né morto, è, in tutta la sua vita, quanto di più vicino a un’agognata nonesistenza, senza coscienza dell’inizio, senza trepidazione della fine -qualcosa che mai potrà ricordare, qualcosa che mai verrà soddisfatta.


La sua regina di tenebra conosceva tutto questo e cercava un altro metodo per cullare il feto ancora nudo, ancora assetato del latte desiderato in seguito alla sua riapparizione nel mondo, rotta la placenta di onde. Istintiva trasmissione di calore, in lei corrispondente a un ossimoro, un gelo d’accoglienza così incoerente da precipitare in abisso ogni vivente consapevole di propri principi d’equilibrio, ogni colonna vertebrale. La sua trasmissione fu un avvicinamento, appena rilevabile, un’inclinazione del torace striato dalle costole e dalle carezze che su di esse spargevano i brandelli setosi grondanti dagli spazi nella gabbia toracica -veste o pagine di carne divenuta diafana-, verso un altro torace che bacia il suolo e le ginocchia, protetto così in guscio di sé e di mondo, ricongiungimento d’umile argilla interna ed esterna. Kiy diventava lo stesso luogo dimora di paguri che con sforzo avrebbe voluto ricostruire, perché l’animale vi tornasse, perché l’anima avesse occasione di ritornare dove mai c’era stato un ritorno. Avrebbe smosso le squame dell’irreversibile, una volta ottenuta la capacità di agire, rubandola nel mondo della nonazione, dell’imbattibile e fulgido nonsenso. Dormi, dormi, bambino mio. Sei ora nel mio regno. Non ricordi ciò che ci siamo detti?.......... Pronuncia la tua emozione, quella che provasti nel momento della perdita. Tutto ciò che è della terra, qui può esistere, anche quello che cerchi. Sono sempre io. Non lo sono. Lo sono solo perché tutto è una parte di me. Non lo sapevi? Anche tu. Mi appartieni e mi appartiene il tuo sonno. Dicono che sono una predatrice, e un inganno. La corolla del fiore che azzanna l’impollinatore. Gli occhi sulle ali della falena. Le lacrime della luna sulla pelle bianconera dei serpenti marini giunti a perlustrare la terraferma come streghe di scaglie umide. Ma ti nutro. Queste immagini io ti dono, e saranno per queste ore il tuo unico latte, unico desiderio.


Dormi, dormi più che puoi. Ti sveglierai e dovrai alzarti, dovrai andare.


Hr sopraggiunse con lo sguardo rivolto al suolo, risoluto e cieco. Il rumore destò la regina di tenebra dall’estasi del suo amore con le sue ipnotiche distorsioni. I passi e il fruscio, i primi passi nella rada vegetazione della salitella che poneva Kiy in un luogo di riposo leggermente sopraelevato rispetto alla spiaggia, l’orizzonte annegato ormai nel buio dal quale poco a poco Hr era emerso biancheggiando coi fianchi, le gambe, e il chiarore reso più intenso per contrasto attorno a una zona dove gli s’era fatto il buio dentro. Sembrava un pezzo di pelle dal quale tutto fosse stato svuotato, quella falsa guarigione d’organi morti. Una mano s’adagiava là mentre coi passi continuava a raggiungere la meta del suo istinto, la preda dormiente, il suo amico, nemesi, signore, capitano. Poteva assomigliare, incosciente com’era di tutto, a un carattere puro, una creatura simile a un implume del mare caduto sulle assi, figlio dell’albatro nidificante sui pennoni in cima all’albero maestro, una creatura che dica capitano, capitano, un tuo soldato è qui. Per vegliare il tuo sonno e proteggerlo dai fantasmi e le cose strane.


Le cose si dileguarono. Senza lasciar di sé nemmeno una coda guizzante, la regina era balzata nel folto, non vista da nulla. Hr era arrivato, era sopra di Kiy, il suo petto gonfio, morto in una sua parte, sopra il fisico magro e rannicchiato su di un lato. In modo ingombrante lo schiacciava sotto il suo peso, come l’incedere di una foca su uno scoglio.


-io, sanguino! Non…-, fece alitando sulla faccia insensibile, sprofondata in una morte apparente che non conosceva formula di scassinatura. Hr gocciava a profusione dalla ferita ormai chiusa, lo sentiva, sentiva le gocce picchiettare sulla sabbia.


-…oooh, visto che sai sempre tutto, visto che hai visto tutto, ogni merdosa cosa!! La vita la morte lo spazio in mezzo, la sua faccia di schifo, il fegato marcio!


Hr gridava contro la faccia, perché per una vita aveva gridato ai muri, credendo di infrangerli, e di riconoscere in graffi indecifrabili, impossibili da collocare in un prima e in un dopo rispetto a tutti gli altri, la propria firma.


-dimmi capitano, dimmi bastardo, dimmi Kiy! Io sto morendo? Lo sai, vero, lo sai?? Lo hai visto?? Dove cazzo sei stato!!


Hr scuoteva Kiy stringendolo per i peli del petto, se lo avvicinava agli occhi sgranati, credendo di fare in modo che se lo mangiassero, gli facessero fare una passeggiata dentro la sclera come in un paradiso lunare. Ma furono le sue gocce a cadere, lacrime impreviste, sulla fronte, e a bagnarla, con tutta la concretezza dell’acqua, del fluido, della linfa senza nome e colore. Stava sanguinando davvero? Così gli parve di cogliere nell’odore di ferro, eppure non avrebbe mai potuto sapere cosa fosse. Kiy aprì gli occhi, disturbato o forse coccolato dal contatto del battesimo invisibile.


Le ultime propaggini del sogno poco sentito, subito più che vissuto, filtrarono ogni sensazione: la sua regina senza labbra gli aveva baciato la fronte più volte.


Kiy sollevò veloce il busto e in un attimo fu in piedi, davanti a Hr incredulo ancora in ginocchio. Sollevata la parte superiore del corpo rispetto a quella inferiore pietrificata, come una colonna che creda all’improvviso di essere una gamba, aveva attraversato l’aria in un sol movimento senza tracce, senza ingombri. Quante volte in vita sua Kiy aveva desiderato di essere la sostanza di un’ombra di banchi di pesci, di nuvole e polvere, ombra di un poeta che genera immagini respirando. Nei suoi muscoli non c’erano fretta e lentezza. Nel suo alzarsi non c’erano volere e arrendevolezza. Hr non riuscì a far altro che espettorare sillabe sconnesse, dissuaso momentaneamente dal terrore che gli forava il petto, lasciando stillare un contenuto fantasma. Colto quasi da gioia, eccitazione, che nemmeno riusciva a connettere alla sua propensione a condannarle, osservò la marcia fluida del resuscitato ora in piedi, ora diretto all’orizzonte scuro dell’isola come se ivi riconoscesse una meta, dove avrebbero dovuto proseguire. Orizzonte dove gli occhi appena spalancati, senza alcuna luce o traccia d’animo nella pupilla, stavano scorgendo l’insondabile in un mondo che non fluttua, nel mondo ch’è fin troppo solido.


La quiete strana della spiaggia al crepuscolo aveva lasciato spazio ai lamenti lugubri di tutte le forme. Si tornava a esistere. Kiy tornava a camminare, e nessuno poteva seguirlo. Non prima che arrivasse fino al posto che aveva scorto. Per quanto Hr o tutte le bestie della terra tentassero di rincorrerlo.


Su di Hr prudevano ancora le parole ermetiche che aveva ascoltato, ancora lo tormentavano -il suo amico, nemesi, capitano, figlio, qualunque cosa fosse, quel cadavere vivo marciava inesorabile verso la visione in fondo al tunnel scavato dalla fronte e l’occhio vitreo di un profeta; ma non era forse lui, Hr, quello attorno al quale le parole ancora fluttuavano, con la persistenza parassitaria di una profezia, un destino petulante e desideroso di farsi ascoltare? Ciò che aveva ascoltato Hr era la strana verità, che “erano già arrivati”. E allora il raggiungimento di un posto specifico, che solo Kiy vedeva, non era altro che una fase cerimoniale in un rito già cominciato, già scritto con la sua conclusione. Erano sangue purpureo raccolto in panieri di offerte. E tutto sembrava volersi compiere in una progressione scritta in fasi di dolore come il decorso di una malattia contemporaneo ai giorni rituali, tutto compiuto uguale alla scelta presa dall’isola, dal cielo e il mare sopra e sotto di lei.


E Kiy avanzava, avanzava. Nessuna mano poteva toccarlo distendendosi attraverso il buio. Kiy proseguiva e vedeva montagne, a un lato della visione cieca -chissà se vedeva davvero; certo però vedeva, in qualche maniera, quelle ombre di montagne, e insenature, e laggiù nell’orizzonte distinguersi, d’un nero diverso da tutto, le scogliere, le conformazioni rocciose. Negli occhi di Kiy non c’era nulla: Hr li aveva scorti correndo, nel tentativo di raggiungerlo e fermarlo, chiedergli con minaccia forzata cosa stesse facendo; ma nello scintillio dello sguardo immobile, come fosse ancora dormiente nonostante le palpebre sollevate, non poteva veder nulla, se non la pallida ombra di quanto contenevano: le insenature minacciose nella baia ch’era il loro arrivo, somigliante al luogo in cui erano morti tutti. E forse anche loro erano morti sin da quel giorno, senza aver ricevuto nel medesimo tempo la punizione o il sollievo della morte del corpo. C’era stato un dislocamento, una mancata coordinazione… e più d’ogni altra cosa era assurdo per Hr sorprendersi a pensare la morte del corpo “separata”, espulsa altrove. Dunque connessa a questa morte era stata la sua vera pulsione? Ogni suo strattone tuffato nel nettare della vita, uno schiaffo alla stessa per sentirla puzzare di decomposizione? Ogni parossismo di vita era questo, ogni frutto troppo maturo. Erano arrivati, senza poterlo vedere sapeva che era quella meta che Kiy aveva visto, senza potersi fermare.


Non era soltanto l’andatura zoppicante di Hr. Kiy non poteva esser raggiunto, era un inseguimento che non aveva senso, nato soltanto per donare estetica a un inconcludente paradosso -per il sollazzo di chi? Granchi notturni filosofeggianti tra barbe di schiuma, in simposi della salsedine? Troppe cretinate come quella esistevano, eppure Hr continuava a correre, inciampare, riposarsi, annegarsi nel fiatone che da solo si alitava in faccia sentendone il marcescente retrogusto. E per la stessa insensatezza non poté trattenere l’autoimposizione di correre, recuperare spazio e tempo perduti ch’erano la strada della sua separazione da lui, nel momento in cui, improvvisamente, s’era fermato.


Un uccello marino sedeva in cima a un albero spoglio. Guardava, placida barca dalle vele ammainate del sonno portuale, quei passi affranti senza speranza, la scena dell’inseguimento di qualcosa di fermo che rimaneva irraggiungibile come se le sabbie sotto i piedi facessero retrocedere quelli in movimento e avanzare quelli in stasi improvvisa. Sotto il volatile s’affacciava a far da spettatore alla stessa scena un animale arboricolo, e un granchio di terra s’inerpicava su per il tronco senza curarsi dell’uno, dell’altro, della scena, di tutto.


Kiy aveva visto lei, un’ultima volta prima di proseguire -era lei, era stata lei. Nel suo sonno privo d’ogni sensazione, una breccia: gocce. Erano baci di lei. Le coltri di nebbia del sonno s’erano ricongiunte al sogno che da qualche parte stava ancora facendo, in un filamento della sua coscienza. I baci di lei che, seppe immediatamente, aveva vegliato sul suo sonno, sfoderando zanne e smeraldi d’occhi, tutta la terribilità della notte in lei, tutti gli eventi della notte in gestazione dentro lei e al contempo già compiuti. Chi sei tu, solo un’ombra di regina, o è l’altra a esser la tua ombra? Siete una cosa sola, e io sono con voi -ma smise di parlare a se stesso in questo modo, perché adesso era lì, da vedere: simile all’arrivo di una nave tra banchi di foschia al largo, la sagoma s’intagliava nel buio alla sua sinistra, dai bordi della discesetta erbosa verso il mare, e felpata avanzava muovendo le zampe leggere. Si fermò, immobile anche lei -perché così, credette, potesse assomigliargli, dargli uno specchio, un conforto tanto bello quanto spietati erano i suoi occhi. Era una specie di enorme lince. Senza coda, altissima e lunga, l’osservava, come l’illustrazione di una fiera collocata in fondo all’ultimo verso di un poema, mai vista dal poeta che finisce di comporre la sua opera nell’eremo umido di un sottoscala, e fabbricata perfetta, vicina più che mai all’originario delirio della prima ispirazione, una selvaggia nostalgia di foresta vergine. La sua pelliccia di pantera splendeva anche lì, segretamente, sussurrando in suggerimento il colore giallo e macchiato sull’esile corporatura corridrice, avente quasi l’eleganza della cacciagione balzellante tra gli arbusti del parco privato del re. E orecchie lunghe, coronate di pelo, forse erano corna, forse antenne che l’ascoltavano.


La fiera annuì, impercettibilmente lasciando che Kiy, solo quella parte di lui sveglia, capisse che aveva accettato il suo saluto, e glielo restituiva. Per imitare un sorriso, scoprì per lui i canini, fradici fino alle radici di un sangue bianco fosforescente.


Nessun bagliore raggiunse Hr, per pochi minuti piombato privo di sensi con la faccia in un cuneo di sabbia, le narici nelle impronte delle formiche. Non vedeva il suo sangue, non quello di lei. Mai avrebbe saputo se gli fosse possibile vederla.


(“questo dovrai versare nel tuo paniere rituale. Non si sfugge al versamento. Dovunque tu vada, dovunque aveste voi intenzione di andare. E ora vai. Tu per primo. Ora andate.”)


Kiy annuì di nuovo, pronto alla lunga traversata, il pellegrinaggio continentale di un golem tenace. Sollevando senza soluzione di continuità lo sguardo dalla caduta di un istante all’ascesa del successivo, vide che era scomparsa, così com’era apparsa, senza che potesse ricordare d’averla vista materializzarsi o sparire. Riprese la marcia. Ripresero a scorrere le cose al di fuori di qualsiasi incanto ottico, riprese Hr a respirare d’un normale fiatone che nulla aveva a che fare coi paradossi, ed era solo il frantumarsi del respiro di un uomo sfinito che in nessun modo, attraverso nessuno sforzo, sarebbe riuscito mai ad avvicinarsi a un altro uomo, un suo simile che nessuno poteva toccare. Perché tutto il mondo s’era stancato d’andargli dietro.


Ed era questo un altro dei significati della notte. Il mondo appartiene alle fiere: dall’oscurità perlustrano, appaiono per andarsene nel viavai degli spettri, lasciando solo la lampeggiante traccia dei denti loro scoperti, il fulgido sangue candido di un sacrificio; e nello stesso brutale istante il mondo riposa, dorme, è stanco di correre e faticare. E gli unici passi che si sentono sembrano il sogno d’un bambino, che continua a battere, senza alcun affanno o pretesa di rompere la quiete, in mezzo al rallentamento di tutto.

Hr correva e riprendeva fiato sulla spiaggia, grondando la propria trascurata stanchezza fin dentro la sofficità dei rumori sparsi sulla sabbia.

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