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diario di un ratto nero, 9/12/secoli bui

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 11 dic 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

Leggevo la malattia che sprofonda il cervello, inabissa il respiro e il volere. Scriveva sulla zona del cervello a me nota, che estingue tutti i propositi che ci passano attraverso. Spettri e pareti di una volta. L'ombra dell'ombra della malattia si manifesta, incombe.


L'autore pone un limone sulla pila di libri, reazione all'incombenza del decadimento fisico. Il profumo, il colore. Nella postfazione, letta nella nicchia di una colonna al secondo piano della facoltà, si cita Goethe, parla di Italia e limoni. Il professore di antropologia cita lo stesso identico passaggio. E già non ricordo più perché. Potrei con uno sforzo, ma... qualcosa di tedeschi, viaggi, ricerca sul campo. Sperimentare le cose in prima persona. La dottoranda collegata con Zoom condivide la sua presentazione e compaiono immagini di un rituale mesoamericano di contenimento della malattia. Gesti e precauzioni per prevenire il contagio. Fumi dispersi nell'aria, altri fumi invisibili. Ho saputo del rischio da me incorporato, in maniera ignara nella notte trascorsa, soltanto da pochi minuti, quando sullo schermo è proiettata la donna indigena. Capanna sotto monti caldoumidi, sciamare di rughe lepidottere sulla pelle, bocca sdentata. Accogliere la vicinanza con la morte e il dolore con sorriso e serenità. La dottoranda la descrive così, un esemplare di donna viva e reale, distante. In un mondo che conosce l’accettazione della sofferenza, possiede sapienze inaccessibili per noi. O forse solo per me? Timore improvviso di incarnare quanto di peggio c’è nel nostro mondo viziato, assuefatto. Un virus probabilmente prospera nelle foreste bulbose dei bronchi. Si ospitano nel proprio corpo molteplici mali.


Tante volte simili, ci sono state, già durante la quarantena più lunga. Rischi già passati, andrà tutto bene e non perché in quel periodo era scritto ovunque. Lo si diceva veramente. Ci si rassicurava quando veniva sfiorata la paura, una cosa che passava vaga e incorporea sulle vite tutte uniformate nella cautela, come l’ombra di un cetaceo sotto le onde, sotto una barchetta facilmente ribaltabile. Cosa c'è di diverso? È solo la probabilità maggiore del contatto, propria di questa circostanza? Sono le coincidenze?


Goethe, limoni, riti per sconfiggere le malattie, Kajii, la mia mancanza di direzione e il mio timore costante che l'impalcatura intera della mia sicurezza crolli in un fruscio, smantelli il sogno, i giorni mai apprezzati per la loro nettarina illusorietà. Pativo il fatto che fossero caduchi. Nel farlo non riuscivo ad apprezzarne il presente, e me ne drogavo senza godere, solo per ammansirmi, ammansire i giorni. Coincidenze: mi prendete in giro? Tutto quanto insieme? Come faccio a non allarmarmi? Del resto le cose non succederebbero se non fosse per questo. La lettura del mondo proviene dai propri occhi, arrossati da molteplici forme di congiuntivite. E i propri occhi dicono che la realtà è un organismo indefinibile il cui primario istinto è quello di prendere in giro colui che, completamente sperduto, ha la maledetta sorte di interagirci.


Scanso la gente vicina con scatti frenetici e morbosi, la flessione nevrotica dei miei muscoli deve essere così eccessiva da sbatacchiare sui timpani di tutto il circostante, ma io non la sento. Sento scricchiolare le ossa all'interno per lo stesso sforzo. È come il rimbombo debole, che sembra sempre malaticcio, del flusso sanguigno strofinante nel cranio e le orecchie. Loro invece sentono sbatacchiare e ciò che la campana rintocca è un allarme di paese, annuncia il pericolo sopra i tetti e i campi. Dal corpo individuale al collettivo. La chiesa è l’identità tangibile del paese, è l'allarme nella valle, è le paure di ogni giorno per i vicoli insudiciati. Si avvicinano in una visione, evocata dal mio comportamento, questi secoli bui (mi viene in mente che ero dentro la stessa colonna al secondo piano quando la stessa locuzione era stata citata in un video guardato indolentemente, quattro ore di buco. Un’altra coincidenza…). Medioevo disseminato a baccelli dalla mia sagoma, invisibile oscurità per i poveri ignari intorno.


Pensavo alla tigre ircana citata da Kajii. Il nome comune della fiera estinta ripetuto come un mantra nei suoi deliri. Rivedevo in lui le mie ossessioni, sospiravo la fortuna della mia salute, più per scaramanzia, per non mostrarmi ingrato agli spiriti regolatori degli equilibri, che per un reale sentimento di gratitudine per i privilegi della mia condizione. Presunzione di star comunicando con uno più sfortunato di me, che ho i pensieri esplosi senza controllo al primo profilarsi di un pericolo, tale da cambiare la vita, intaccare i propri sistemi. Comunichiamo con le immagini, le ipnosi che ci siamo autoindotti. I miei scritti, la mia tigre. Gli scritti che temevo sempre andassero a fuoco. Il blog perché non bruciassero. Gli studi che mi consentono di avere gratuitamente word sul pc, lo status di mantenuto che mi consente di scrivere. L'urgenza che ho di farlo. Non so se mi sta salendo la febbre o se esiste già dentro di me, deforme e tentacolare come una mano fluida e ansimante che mi afferra i condotti respiratori; ma me la sento in quel modo consueto, inebriante febbre mentale, e scrivo spasmodicamente queste cose, per un solo motivo, scrivo perché ho paura, ho paura, e scrivo perché ho paura che sia l'ultima volta che scrivo. Non perché morirò, ma perché dovrò sopravvivere. Non solo "non morendo", non solo obliandomi nel piacere dell'irrealtà. Ma sopravvivendo. Sentendo nel farlo il freddo che da mesi è la più grande angoscia, l'ossessione delle mie ultime pagine.


E se muoiono tutti? E se muoiono tutti tranne me? E se invece qualcuno muore e qualcuno no? E se tutto questo sparisce, tutto questo di cui ormai da troppo temo la sparizione? Ho sempre saputo dell'illusione. Che un giorno sarebbe giunta una cosa a chiedermi il riscatto, a rovinarmi, farmi il culo, una cosa dal respiro di latrato nel buio della via alle mie spalle e davanti a me, negli anfratti cavernosi del baratro che ho sempre visto davanti. Ma non così, non questa cosa. Prendi solo me, gli altri non c'entrano. Non è così che avrei voluto diventare un essere umano decente, e non un egoista concentrato sul sostentamento proprio e delle proprie fonti di sicurezza e pace -perfetta visione del mondo, oblio scelto consapevolmente, fantasticheria, intrattenimento, dolce illusione. Ma forse ho fatto bene a dirmi che anche se ero consapevole della precarietà, non potevo fare proprio niente? Perché adesso siamo a questo punto. Non “siamo” ancora da nessuna parte in verità, non c’è nessuna conferma e nemmeno nessuna gravità, ma io ho paura, e scrivo sul treno. Flettendomi come respinto magneticamente dai corpi degli altri che passano nel corridoio, vanno a igienizzarsi, e intanto quasi mi toccano con gli orli dei giacchetti. Ripenso a quando andandomene a metà lezione ho sanificato i posti dell’aula che avevo occupato col corpo e la roba, ho lanciato sguardi muti e allarmati per indurre le nuche altrui a non passarmi affianco. Non c’è certezza ma l’ho vista passare, ho sentito che significa, mi sono sentito precipitare. Nel baratro del futuro davanti a me prima che giungesse, retrocesso incontro ai miei passi in compensazione di un qualche mio peccato, abuso di equilibrio, di pace personale senza dare nulla in cambio… simili sensi di colpa ritornano più forti che mai, e i movimenti del mio allontanarmi, rannicchiarmi nelle spalle infreddolite quando passeggio nel viale alberato, rivelano il clamore dei nervi dentro.


Nella strada e dappertutto sono l'unico a rispettare il distanziamento. Mi irrito, penso per la prima volta da molto tempo, perché non lo fate? Perché non vi sforzate? Ma anche io come loro non ci pensavo minimamente appena un'ora prima. Respingo, immagino delle frecce irradiarsi da me, simboleggiano nella legenda di questo allarmismo il male incubato e la volontà di allontanare. Se borbotto dentro la mascherina, rivolto idealmente a ogni essere umano del visibile, di scansarsi, non è per la gratuita misantropia di tutti i giorni. Vorrei vi salvaste, e che qualcosa cancellasse le tracce del mio passaggio. Questo è rimasto invariato dai giorni d'oblio sull'orlo del baratro a ora. E dentro me continuo a sperare di calmarmi, di sbagliarmi.


Ma non pregherò al cielo affinché accada, affinché riceva immeritata grazia. Voglio solo autoconvincermi di qualcosa. Voglio toccare le fetide raggelanti budella di questa paura, afferrarle con una presa scorpionesca intanto che si contorcono, sibilano, è tutto ciò che ho l'istinto di fare.


Penso questo, penso che voglio prepararmi al peggio, ritualmente sperando che non esista, e in quel momento incontro sul bordo del marciapiede fradicio una robaccia nera informe. Le descrivo spesso, robacce del genere derelitte nei paesaggi: sono un fondamento dell'esistenza. Faccio un passo al di sopra di essa e ho un sussulto, un fiato reciso in meno di un istante: è uno storno morto. Parzialmente decomposto, squagliato dalla pioggia. Le ali piegate a svastica sono già ossa, il bianco appena rilucente sotto la mucillagine di piume nere spappolate. La cavità oculare un buco nero, contenente una spirale di polvere organica... l'avevo quasi schiacciato. La morte si confonde nel paesaggio, si rende invisibile. Mimetizzata alle foglie cadute e il loro sgradevole amplesso di pioggia. Al riflesso dei fanali in corsa. Mi chiedo se un simile presagio virulento si irradi anche da me, nel modo di quelle cose invisibili inquiete e mai sopite che trasmettono un'aura, mi chiedo se giunga tenebroso alle figure distanti che mi vedono camminare sconvolto. Inavvicinabili da sempre, e ora più che mai. Mi chiedo se il mio evitamento lo vedano e intuiscano, mi chiedo cosa vedono nel mio sguardo. Una spirale, come nel morto nero sull'asfalto. Un terrore ingiustificato, ma che al tempo stesso fa loro comprendere che in ogni caso è meglio tenermi lontano, ai bordi di una strada, all’ombra del marciapiede sull’infossamento dell’asfalto diretto alle fogne, come un vettore dal pelame unto.


Pensieri e desideri si avvicendano in un tramestio di passetti svelti, umidi, frenetici, dettati da un cuore piccolo in una cassa toracica di fragili ossicine. Vorrei che continuassero a sentirsi nel caos del mondo soltanto le voci delle persone alleate, che non dovevano essere coinvolte nello sfacelo del mio mondo, desidero che non soffrano minimamente per tutto questo, che dimentichino presto d’aver temuto qualcosa, di qualunque specie fossero i loro timori. Vorrei che la punizione non sia questa. Vorrei non dover rinunciare a tutto per sopravvivere, guadagnare soldi, far sopravvivere niente e nessuno, far sopravvivere i termosifoni. Avrò freddo questa notte, che non vorrei fosse l'ultima notte calda. E non vorrei fosse l'ultima pagina questa, l'ultimo foglio da aggiungere a Word. La scrivo, scappando verso casa, di corsa, sono un'ombra appiattita tra i cunicoli. La scrivo, pagina del diario di un ratto nero del 1348. Allontanatevi tutti, e questa volta non lo dico per me. Non è un dramma esagerato, ho solo paura. Questo c'è nella mia testa.


Torno al mio rifugio. Luci natalizie, calore, schermi, musiche, libri, visioni. Pareti, riparo. Cose immeritate il cui terrore che andassero perse ho esorcizzato ogni giorno. Si prospetta la caduta, le vedo precipitare nel vuoto, e il nuovo ratto nero, cambiata la pelle del precedente animale ctonio e velenifero, riversa il contenuto incontrollato della sua testa pestilente su una pagina urgente, assetata d'inchiostro nero d’ossessione. Inchiostro giunto da steppe mongoliche carico di infezioni. Diario di un ratto nero dei secoli bui. Crepino in un’ultima, definitiva pestilenza la paura e il dolore delle cose scomparse, crepi io soltanto con tutto il mio mondo, un giorno, senza trascinarmi nient'altro nel baratro.

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