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D. Johnston College

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 2 dic 2021
  • Tempo di lettura: 15 min

-la vuoi sentire una storia di fantasmi?


-oh cazzo, certo!


Ovviamente non si aspettava quel genere di risposta fin troppo entusiastica, a maggior ragione se paragonata al mio solito contegno e ai monosillabi che tendevo a sbiascicare imbarazzato alle molte e varie cose che mi diceva quando capitavano accenni di chiacchiera tra una lezione e l’altra. D’altra parte era forse strana anche la sua domanda, per esser posta in una conversazione casuale durante una passeggiata per i corridoi, con la gente in fila alle macchinette. Oppure non era strana affatto, e si trattava d’un tipo di leggenda, di narrativa popolare, che prima o poi salta fuori in tutto l’ambiente universitario. Cosa che io non potevo sapere, soltanto osservandolo dalla distanza o evitando anche di guardarlo -insomma mi limitavo a frequentare le lezioni ed era un periodo piuttosto tranquillo. Era pomeriggio tardo e ormai già cominciava a vedersi l’imbrunire simile a vapore dai contorni lontani dei palazzi urbani, mentre gli ultimi raggi rossi del tramonto picchiettavano come esili dita sulle finestre sottostanti il soffitto, mescolandosi al verde degli alberi del viale che riempiva le vetrate. Mi sembrava che finché avessi trovato quei rami proprio lì, incorniciati come in un quadro, con i pettirossi del vicino inverno a giochicchiare con i frutti scorzosi e sferici, allora tutto sarebbe rimasto pacifico. Spesso pensavo di non aver motivo di trovarmi lì, e che presto qualcosa sarebbe giunta a reclamare che pagassi un prezzo o un sacrificio, simile a una mano gigante cresciuta dal suolo, o incombente dietro me quando gli schermi delle macchinette mi guardavano la schiena e ronzavano sinistramente nella quiete delle lezioni in corso. Altrettanto spesso però passavo anche del tempo semplicemente lì, appoggiato a una porta o un termosifone del corridoio, dove già qualcuno si era appoggiato a sorseggiare un tè caldo, troppo zuccherato. E in quei momenti non facevo altro che guardare i rami. Sotto la suola trovavo briciole di schiacciatine e si allineavano manifesti di dibattiti politici su una bacheca di sughero, appena sotto i davanzali irraggiungibili. Come in un’università del mio paese d’origine.


Eravamo appena passati davanti a un’aula studio curiosamente collegata alla biblioteca da una specie di galleria interna. Chiaramente, questo non voleva dire che l’ingresso non fosse controllato. Doveva esserci una transenna o qualcosa del genere, dove era necessario passare un tesserino o altrimenti questo era da mostrare a un addetto. Comunque fosse, eravamo passati davanti a quell’aula percependo quello che mi piacerebbe chiamare un tipico odore di biblioteca (anche se di per sé è abbastanza inodore). Almeno io, non so il mio collega, che gentilmente mi stava accompagnando all’aula dove avrei dovuto aspettare la lezione successiva. L’idea di essere in debito mi metteva a disagio ancor più della sua espressione, sbirciata di sbieco, quando mancavo di dargli risposte. Speravo che almeno l’avermi suscitato interesse menzionando una storia di fantasmi potesse soddisfarlo, se avesse avuto l’apertura mentale necessaria a ignorare la forma strampalata con cui mi ero espresso, bollandola come dettata dalla goffaggine e nient’altro.


Insomma, era stata quell’aula semivuota, dall’aspetto tiepido per via dei faretti attorno alla lavagna rimasti accesi, che rendevano i banchi arancioni, ad avergli ricordato quella storia. Come, non la sai? Espressioni del genere potevano confermare come si trattasse d’un qualcosa che doveva essere noto a chiunque si sedesse su quelle sedie, passasse per i corridoi. Mi chiesi se il fantasma non fosse proprio uno di noi, o qualche anima sofferente del passato, che si poteva udir frusciare alle svolte degli angoli durante l’orario di chiusura, quando tutti gli edifici erano ormai quasi vuoti. Ovviamente non dissi di quell’impressione misteriosa che avevo avuto diverse volte. Mi aveva concesso di sentire una storia che alludesse agli spiriti e sarebbe stata pura esagerazione sollecitarli ulteriormente, esponendo le mie visioni non richieste, esponendomi. In fondo non conoscevo così bene l’ateneo, e sarebbe stato disdicevole commettere un errore sulle presenze che lo popolavano senza aver studiato a sufficienza. Disdicevole per me e per gli spettri d’una razza non identificata.


Spiegò che quando mi aveva chiesto se volevo sentire una storia di fantasmi era più per alludere a quel fatto, dunque in una sorta di complicità non detta tra i membri della facoltà, e non si aspettava che non lo conoscessi davvero. Tanto che si era parlato a lungo dello studente coinvolto: dicevano che fosse ancora pazzo.


-in che senso, ancora pazzo?


-che ha cominciato a delirare dopo la fine di questa storia e ancora oggi non si è ripreso.


-dunque si tratta di un accaduto recente.


-beh, non saprei esattamente. Potrebbe trattarsi anche di uno o due anni fa.


Mi colpì la nonchalance con la quale dubitava di poter definire recente una storia di spettri accaduta praticamente appena ieri, e ancor più secondo il tempo degli spettri, e secondo il tempo che ci mettono le loro storie a infestare gli edifici e le menti più di loro stessi. C’è bisogno di tempo, alle locali mitologie, per insediarsi serpeggiando come ondate attraverso i timori collettivi, forti della loro sottigliezza e agilità che le fa fluire inosservate fin nei meandri dei cervelli più razionali, risvegliando per via i traumi degli scettici…


Si capisce come mi eccitasse l’idea di trovarmi in presenza d’un simile sommerso superstizioso, sebbene l’idea che non fosse una roba tanto antica m’avesse inizialmente smorzato l’entusiasmo. Ma a pensarci, non era forse interessante? Va bene, non si sarebbe trattato d’uno spettro epocale, che si mettesse in collegamento con noi giungendo gigantesco attraverso la cassa di risonanza che è il passato -si tratta di casi in cui ci si sente immersi, anche solo per pochi istanti colmi di trasporto per chi li prova trasognato, in un’aura tempestata di residui pagani del mondo campagnolo sepolto sotto inferiori strati archeologici e le tante successive trasformazioni, esempio di shapeshifting di cui molte creature ingannatrici di sensi e delle suggestioni umane sono veri maestri. Ma anche se non si fosse trattato di questo, poteva forse essere possibile rilevare una differente aura in qualche modo degna di interesse: quella di una storia dell’assurdo, uno dei tanti poco espliciti drammi della quotidianità di quei luoghi pieni di lucette e schermi e superfici lisce, che trovano sfogo esternandosi per vie dette “inspiegabili”. Spesso hanno un sapore di schizofrenia incontrollata -è una parola molto diffusa in molte lezioni che si sentono, e forse ancora mi porto da allora il vizio di rievocarla, quasi con nostalgia. Voglio dire che i drammi di quel tipo finiscono per confondersi con l’infinità degli stimoli costantemente attizzati tutt’intorno, ma rimane, forse a causa d’un intrinseco istinto umano che nemmeno il sovraccarico di tutte le cose riesce a sopire, la sensazione che non si tratti d’una cosa proprio normale.


Ebbi modo di trovare una corrispondenza abbastanza notevole con quest’idea. In pratica il ragazzo in questione, finito il ripasso sugli appunti conservati nel suo Mac, a tarda sera, aveva deciso di passare dall’aula studio al tunnel che l’avrebbe condotto in biblioteca: lì il Mac avrebbe captato indecifrabili vibrazioni, concedenti via libera per connettersi alle banche dati che si sparpagliavano nell’etere bibliotecario, originandosi da un cervello lì da qualche parte incastonato e altrimenti inaccessibile. Non gli importava quanto ci avrebbe messo: voleva dedicarsi seriamente alla sua ricerca, e già aveva previsto di rimanere tutta la notte lì dentro. Sentiva nitidamente le cose, tutto il peso dei luoghi e le esperienze in cui si trovava, qualità queste che era convinto lo aiutassero nella ricerca; e allora rafforzava la propria capacità d’analisi, e quella con cui doveva alternarla, di più tedioso scorrimento di dati, grazie alla presenza percepita così a fondo di quel cervello lì da qualche parte. Se lo figurava come una specie di gemma carnosa, color fegato scuro. Circondata idealmente da complesse tubature vive e carnose, immersa in un fluido quasi gassoso, nella notte della biblioteca, sotto gli scaffali pieni di libri, ma anche sopra, affianco, tutt’intorno. Generato dal cumulare nel vuoto di attività instancabile di sinapsi. Qualcuno disse, al seguito dei primi resoconti estratti a forza da un ipnotista (ipnotista??), che già questa sua idea avrebbe dovuto far capire che il personale addetto avesse sbagliato nel permettere che entrasse in un luogo tanto suggestivo come la biblioteca di notte, poiché si trattava d’un soggetto sensibile alle apparizioni e guizzi di suggestione incontrollata. A me francamente non parve affatto strano il modo in cui il giovane aveva descritto quel senso di vicinanza che sentiva con quel fantomatico cervello. C’erano una riflessione costante, un cigolare binario e invisibile nell’aria, sedimenti di riflessioni condotte da molti nonché d’archivi ricolmi di informazioni in forme numeriche, traducibili in molti linguaggi, obbedienti a comandi di chi voleva accedere alla conoscenza. Tutto ciò aleggiava in unico insieme composito come un tempo la polvere andava a depositarsi sugli scaffali. Non era forse implicito che qualcuno potesse figurarsi la cosa come un cervello galleggiante da qualche parte, in un qualche sotterraneo segreto -che certo doveva esserci- fungente da cranio, ed esercitante influenza su tutto l’organismo? Io non ero certo di essere d’accordo con quell’immagine in particolare, e non essendo né un abitante del posto né uno studente tra i più veterani, mi astenevo dal dare una forma così dettagliata a ciò che i miei istinti, passeggeri in quell’atmosfera di studi stranieri, avevano soltanto tratteggiato e ancora attendevano una riflessione più concentrata.


Comunque, lo studente all’inizio non aveva l’aria di essere sull’orlo di una specie di crisi, e non c’era stato nessuno nei giorni precedenti l’accaduto che avesse notato in lui atteggiamenti insoliti. Nei dormitori si osservavano molti studenti dalle abitudini regolari, o semplicemente immutabili per pigrizia -ne sapeva qualcosa il nostro strascicarsi laconico a scarponi slacciati, che presto avrebbe affiancato banchi magrolini di neve. Anche questo studente si adagiava al trascorrere delle giornate, Portando le stesse cuffie logore al collo entrava in questo o quell’edificio, strusciando le scarpe da tennis con lo stesso marchio bianconero. E anche quel giorno in tutte le aule si era tenuto il berretto invernale in testa. Ce l’aveva nell’aula studio, e lo portava senza avvedersene anche in biblioteca: leggermente calato all’indietro nella punta, faceva sembrare la testa più lunga, dandole una forma capellona. Il maglione color senape sbiadita aveva un taschino, e lì stavano in file incostantemente sballottate le sigarette che non poteva accendere. Così quando non batteva le dita sulla tastiera le picchiettava ritmicamente sul bordo del tavolo, oppure se le portava alla bocca, bisognosa d’appigli, dipendente. Nelle labbra entrava il caffè americano, colmo fino al bordo del contenitore extra large. Sarebbe stata una notte lunga, si era detto queste parole, e le aveva rimarcate ascoltando il meccanico fracasso interno delle interiora della macchina che produceva e generosamente donava la bevanda così calda. Era solo, l’unico occupante della biblioteca a quell’ora. Certo, doveva pur esserci un qualche sorvegliante, o qualche studente in tirocinio, del personale insomma necessario a garantire che fosse aperta ventiquattro ore. Lui però non aveva modo di constatarlo. Rimaneva al piano terra, centralmente posizionato su un lato del tavolo vuoto, davanti a sé sedie vuote, spazi vuoti. Più avanti un banco d’accettazione, di fianco una colonna con un kakejiku, un mappamondo dietro il banco, uno schermo spento lì sopra, qualche statua. Un ticchettio, forse un orologio, o solo il suo sangue scricchiolante da qualche parte dentro di lui. Ma non aveva importanza: era uno studioso.


Le due, le tre, le quattro. Le ore si sfogliavano come su un calendario, dilatate come i giorni, incomplete come i secondi. La ricerca era spasmodica e non macinava le parole corrette. Sul file di word non si componevano le formule che lo studente si aspettava. Merda! Si diceva, mettendosi le mani tra i capelli sotto il berretto. Poi mordeva il bordo di carta del suo bibitone eccitante. Si alzava, andava a riempirlo di nuovo alla macchinetta. Nel buio totale (aveva spento le luci) lo schermo rimaneva acceso spargendo un lampo accecante, esteso a comprendere tutto il tavolo. Le occhiaie gli rifulgevano come splendide code di pesce.


Prese due tomi cartacei. Giacevano aperti lì affianco alla custodia, al caricabatterie sfoderato e sempre pronto a esser attaccato il più velocemente possibile per le emergenze. Raramente, cadendogli lo sguardo su questa o quella parola, lo studente si ricordava del giorno. Già, il giorno! E che ora era? Lui era proprio uno studente universitario, così tanto che stava concludendo la sua ricerca in piena notte. Nella biblioteca buia e vuota e silente. Possedeva l’università più di quanto gli appartenesse nelle consuete ore che ogni giorno si aspettava di vivere, più di quando la vedeva pullulare di gente e rituali, movimenti. Erano bellissimi i corridoi, pensava in quelle saltuarie distrazioni. Era bellissima la luce prismatica e moderna che restava perennemente accesa e accogliente in quelle aule limitrofe, in quei tunnel interni all’edificio, che non facevano sì che il buio della biblioteca, dai molti accessi e con le scalinate conducenti a un ripiano sopraelevato, non fosse poi del tutto buio. Anche se fosse morto il Mac, quelle luci sarebbero scivolate come caramello sopra le soglie di confine. Si sarebbero ancora visti, forse bluastri ma non certo invisibili nella tenebra più totale, gli scaffali stipati di volumi.


Era proprio uno studente universitario, ed erano bellissimi i corridoi, le luci che si spargevano anche sulle piante da vaso che cominciavano a esser portate anche all’interno, dagli addetti alle questioni estetiche dell’ateneo. Erano bellissimi gli alberi fuori: una parete vetrata della biblioteca dava sullo spiazzo semicolonnato, ritrovo di pause fumo e pranzi frugali. Lì il gelo dei lunghi inverni di quella zona lacustre e ventosa tingeva di rosso le guance degli studenti, incastonate tra sciarpe e berretti, e insieme riscaldava le bevande, le rendeva più piacevoli. Soffiavano tutti via il fiato che piroettava rapido dalle labbra a ogni sillaba, e allo stesso modo soffiavano il pennacchio dalla superficie nera del caffè. Erano quegli aghi di larice a imperlare, lacrimando rugiada, le lane multicolori che passavano sotto il portale d’ingresso. Ma per un momento parve allo studente che si contorcessero deformemente verso il cielo, trasformati in deliranti abomini dal buio della notte là fuori. Un buio gelido, diversissimo da quello delle aule dormienti. Soltanto un vetro che pareva sottilissimo lo separava da un totale senso di abbandono: era solo, circondato dal sapere di mondi e situazioni altrui, in un’aula riscaldata, oppure era solo, nella regione nordica sferzata solo dal freddo. Lo studente ebbe un brivido.


Continuò a quel modo per un po’. Studiava, qualcosa gli ricordava la sua situazione, come se la guardasse da fuori. Nelle cuffie, per tenersi lucido, "Little Fury Things", "Vigilant Always", "Going Blank Again", "Zurich Is Stained", altri classici tardoautunnali che non occorre menzionare; ma a volte fermava la musica per rileggere paragrafi degni di massima concentrazione, no anzi, per poter meglio ascoltare la percussione dei polpastrelli sui tasti. Finché, a una certa ora, forse l’ultima di buio precedente le prime luci, non avvertì nettamente, per la prima volta, che in quella grossa aula non c’era proprio nessuno.

Nessun bibliotecario, nessun tirocinante, nemmeno una guardia con una torcia protesa davanti ai passi. Sin dall’inizio non c’era stato nessuno a controllare che rispettasse la biblioteca, che non rubasse un libro o chissà che altro. Ormai lo studente udiva rumori impercettibili: una goccia densa e calda, appiccicosa e costante, dal beccuccio del distributore di bevande; una tubatura nascostissima da qualche parte nell’organismo accademico che così bene celava la propria struttura, mostrando invece l’ordine liscio e smussato di banchi e faretti, lavagne e corrimano; gocce di pioggia fuori: cominciavano a picchiettare contro il vetro. Pensò per qualche ragione che sarebbe diventata di certo una grandinata (fu proprio così, cosa che accrebbe la potenza della storia per chi la raccontò). Ma prima di allora era riuscito nello sforzo di dimenticare i fenomeni atmosferici. Cominciò a sentir crescere un’ansia inspiegabile. E la ricerca? Non avrebbe mica potuto lasciarla a metà. Ma il giorno già tornava, e lui in una notte non era riuscito a concludere. Che la luce dei raggi solari fosse in grado di disperdere i suoi sforzi, cancellati come i mostri e spauracchi del sonno, dissipati come le ombre? E se si fosse accorto solo dopo di aver commesso innumerevoli errori? D’altro canto, con quel tempo, non poteva mica tornarsene al dormitorio. Capiva che era in biblioteca che doveva restare. Ma cosa avrebbe fatto, come avrebbe sentito il suo stare là senza poter procedere adeguatamente, sapendo che avrebbe dovuto interrompere non appena fosse suonata la simbolica campanella della prima lezione del mattino? Tormentandosi in questo modo si mordeva le unghie, e tornava a masticare il bicchierone lasciato vuoto.


A un certo punto gli apparve la scena di un assassinio, ed era in questo e nient’altro che consisteva la storia di fantasmi. Tutto qua. La vide fluttuare proiettata in un punto imprecisato del vuoto davanti a lui, di là dal tavolo, in un momento in cui se ne stava in piedi a fare avanti e indietro con aria inquieta. Vide un duca, o un personaggio del genere, venir trafitto nel petto da un’azione con un preciso scopo politico. L’azione veniva ancor prima dell’individuo che la compiva, il quale era contento d’essere soltanto un mezzo senza nome per la causa. E questo mezzo senza nome riusciva a balzare come un gatto selvatico, indifferente all’esser parte di una giungla più complessa, così agile da affondare senza imprecisioni la lama nel panciotto nobiliare, per poi estrarla con un balzo ugualmente leggiadro. Facendo ruotare l’orlo di una veste in stile orientale, forse uno yukata, si dileguava, un’ombra giovane con dei baffetti sporgenti, maestra d’arma bianca. Il duca rimaneva pietrificato là nell’aria con un’espressione sbalordita, la bocca aperta a forma di monocolo. Quel foro muto si riempì del grido dello studente, il quale lo percepì spostarsi dalla propria gola a quella dello spettro quasi con la sensazione fisica di sentirla afferrare da una mano glaciale, che metteva le sue corde vocali in contatto con quelle incorporee dell’altro. Si attorcigliavano in una doppia spirale.


Quando lo ritrovarono sdraiato in terra, a fissare il soffitto, era in una specie di dormiveglia. Intorno delle sedie rovesciate facevano presumere che si fosse contorno un po’ prima che il sonno alla fine prendesse anche un gufo come lui, sebbene in una forma più adatta al suo stato di follia e visionarietà, che non si poteva proprio chiamare sonno. Dissero che il cuore gli palpitava così forte da poterlo sentire senza accostare l’orecchio. Al tempo stesso, risvegliandosi, aveva un’espressione quasi tranquilla, o perplessa. Come non capisse cosa diavolo potevano mai aspettarsi da uno che ha passato la notte a fare ricerche di storia, se non di trovarlo rovinato a terra, con il maglione piegato che rivelava la t-shirt infilata nei jeans, che su fondo bianco innocentemente chiedeva, “hi, how are you?”, e portava una macchia marroncina affianco a un occhio della creatura che c’era disegnata. Qualcuno, forse ironicamente, scrisse su un giornalino universitario che la storia, piena di intrighi e atti efferati, non era una materia per il cervello di “uno che ha un sonno della ragione che genera mostri”. Erano giorni in cui citare il nome di un’opera pittorica o letteraria generava compiacimento tanto in chi lo ascoltava quanto in chi lo aveva citato.


Eravamo ormai arrivati all’aula e il collega si stava trattenendo giusto per finire di raccontarmi i particolari. Chiesi come mai tutti quanti avessero creduto a quella storia, sapendo che erano in molti gli studenti convintamente materialisti e in cuor mio disprezzandoli. Mi aspettavo la giudicassero la traveggola di uno stressato, o che adducessero le solite spiegazioni volte a sminuire e incasellare la psiche del malcapitato. Ma l’apparizione era stata accettata da tutti perché gli spettri erano apparsi sulla videocamera: se lo diceva uno come la guardia giurata, che bastava guardare in faccia per coglierne la ribollente marea di disprezzo ogni giorno affiorante nell’origliare discorsi su Kant e samādhi, allora si poteva starne certi. Certo, non è che si fosse vista proprio la scena che aveva descritto. Ma esaminando il video, con attenta osservazione tra il mappamondo e la statua del David, un’ombra vaga, dai bordi bluastri e i contorni sfumati, come una sporcizia su pellicola, sembrava traballare in strane forme. Proprio con una bocca rotonda a monocolo, e un’altra con dei baffetti, nella mano felina una lama scintillante annerita da un fluido scuro…


-sono in pochi comunque, anche tra quelli fissati con seance e cose del genere, a pensare che quella scena rappresentasse qualcosa di accaduto in biblioteca. Quasi tutti sono portati a credere che non abbia minimamente senso, nessun legame con la storia dell’università. Ci sono toccati questi fantasmi, fatti così, e basta...


Di nuovo avvertii quel misto di delusione e accettazione. Non trovavo concepibile che trascurassero la ricerca di simbolismi definendola terribilmente “overthinking” e mi ripromisi di capirci qualcosa. Cosa che non feci per il sopraggiungere di certi stati d’animo che non voglio riferire.


Sentivo però una grande affinità, per motivi personali, con la scena vista dallo studente. Ma non fu per questo che rabbrividii alla fine del racconto. Non credetti di poter vedere la scena che io mi aspettavo di vedere al suo posto, non sarebbe stato così facile. E non era facile completare una ricerca, come lui aveva tentato di fare in una sola note, non era facile essere studenti propriamente detti. Sarei mai riuscito a cominciare a studiare invece di far passare i giorni e basta, o piuttosto, sarei riuscito a dar forma agli spiriti che abitavano il mio mondo? Dovevo comunque passare una notte intrisa di fantastico e mistero in biblioteca, pur sapendo che sarebbe stata diversa dalle aspettative? Certamente sarei rimasto deluso e frustrato dall’assenza di scopo dei pur rilassati giorni di lezione, incerto e dolorante nel petto come lo ero sempre quando non ricordavo l’esistenza del viale esterno con gli alberi, le loro chiome per me molto più assuefacenti del caffè. Non lo so, so solo che, prima di entrare a seguire la mia lezione, gettando un ultimo sguardo alle porte bianche di quell’aula a cinquanta metri nel corridoio, rabbrividii pensando a tutte le volte in cui quello studente anonimo e mai visto, delirante in qualche stanzetta dell’ospedale universitario, aveva cessato di ricordare i dati da rielaborare per ricordare invece che era proprio uno studente, con un certo berretto e un certo ruolo, in quella facoltà dove beveva il caffè, passava sotto il portale, aveva una tessera da mostrare qualora ci fosse stato un controllore.


Così per sicurezza avevo passato i giorni seguenti senza uscire dalla mia camera del dormitorio. Una volta ricevetti un messaggio da quello stesso collega che mi aveva raccontato la storia, mi invitava con altri colleghi a un pub della zona. Non ci pensai due volte a dire che mi ero beccato l’influenza, ma in seguito sentii d’esser stato cattivo con lui che tutto sommato cercava di essere paziente perfino con me, più interessato alla storia raccontata che a lui. Commentò per poco circa l’influenza che girava, non ricordo se risposi, è probabile che avessi rimuginato a lungo su cosa rispondere fino a esaurire nello sforzo tutta l’energia di farlo veramente, lasciandomi però in testa la sensazione di averlo fatto e che tutto fosse sistemato. Da una finestra potevo vedere alcuni alberi che si avviavano in fila congiungendosi al viale, e nella distanza il primo edificio riposante come un esoscheletro vuoto sotto le nuvole bianche di inizio inverno. Forse avrebbe grandinato, grossi chicchi percussivi sulla scorza esterna della struttura. Sorseggiando una camomilla pensavo che lì dentro vorticava una quantità insopportabile di idee, da alternare per forza a giorni rintanati in cui vedere solo poche cose e sempre le stesse, giorni di graditissima malattia.

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