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cronache dal Centro Ricerca Bipedi

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 25 apr 2023
  • Tempo di lettura: 28 min

Aggiornamento: 27 apr 2023

-ao…


-eh.


-sta passando.


-..chi? Lui?


-eh.


Il dio-primate (così si era chiamato da solo le poche volte che aveva parlato in quel suo modo barbarico) attraversò con disinvoltura il corridoio per dirigersi alla sala comune, dove giacevano giochi, cordame, altri oggetti da laboratorio progettati per l’osservazione. Per quanto dalla sua camminata i muscoli affiorassero quasi ostentatamente come scogli aguzzi, in un certo altro senso, come un sottotesto sinistro e velenoso, pareva fluttuasse con la loschezza di un’ombra in congiura oltre i margini del campo visivo degli altri demoni. I due rimasero seduti uno di fronte all’altro al tavolo che avevano occupato, dissimulando fin troppo la noncuranza di due vecchi giocatori di carte, gli occhi sgranati sul personale esercito tenuto in mano, o sull’impellente problema prossimo oggetto di conversazione. La presenza del dio-primate là dietro, gravida di aberranti pulci mutagene, faceva prurito agli esseri di poco pelo. Sta passando, chi?, lui?, eh. Eh.


-…


-…


-embè e che devo…?


-ssstt! Zitto e non ti girare!


-ma non ho fatto niente!


-no ti sei girato!


-e vabbè lo sai è il riflesso spontaneo.


-e cerca di trattenerti.


-e quanto sei permaloso…


-che c’entra permaloso?


-eh non lo so ho sbagliato parola.


Dissero concitatamente ben sapendo che non stavano più prestando attenzione a cosa dicessero, fintantoché riuscivano a mantenere la parvenza di star dicendo qualcosa. Era davvero un bel pomeriggio: avrebbero potuto parlare del tempo, di come il sole sintetizzasse fotone per fotone bellissimi schermi obliqui di luce irreale, tutti inclinati strato a strato dalla sua incommensurabile distanza nel cielo lassù fino alla loro vicina, maternamente surriscaldata parete di vetro, che occupava una prima metà della sala comune, frammentandosi nell’altra metà in finestre di più modeste dimensioni, inframmezzate da spicchi di parete cobalto decorata a motivi floreali come in un accogliente asilo.

Avrebbero potuto perdersi in un’ansiosa chiacchiera meteorologica, sul piacevole tepore, tanto a lungo da trasformarla pian piano in qualcosa di incantevole quasi quanto quel calore stesso, quasi una poesia che riproducesse, superando i limiti della goffaggine delle parole, quell’esatta beatitudine stagliata accanto a loro: una palla gialla calda là in alto, un mondo sottostante, di fotosintesi, declivi, e acque, quasi un parco perfettamente architettato dall’anima -un’unica anima, profonda e lontana e padrona di tutte- perché vi si collocassero dentro albe, tramonti, preziosi istanti intermedi come tante gemme di speranza incastonate nell’insensatezza dei giorni.

Avrebbero potuto, ma non lo fecero, bloccati: credevano che parlare del tempo sarebbe stato “davvero troppo”, ignorandone le conseguenze. Così non seppero mai, sintetizzando un assioma dal semplice confronto, che ciascun demone in cuor suo amava profondamente quella vista che era stata loro concessa, e quel vetro, così splendido per la sua perfezione geometrica e inscalfibilità che assicurava la distanza da quel mondo vivo e lucente e così spaventoso -quel vetro che assomigliava quasi, dentro il cuore di ognuno, a un lontano acquario per il quale ciascuno in una propria forma sentiva la nostalgia d’averlo toccato chissà quando, passando un palmo aperto sulla superficie trasparente e azzurra, per vedere dall’altra parte, come in risposta, un vorticare delle pinne fluenti, simili a nebulose viola, dei pesci combattenti, giunti in masse curiose perché attratti dai vermicelli dei polpastrelli disegnati sullo schermo di un mondo senza alcun legame, senza alcuna possibilità di contatto. Solo con le capoccette viscide potevano picchiettare il vetro, ripetutamente, sentendo il tocco di una cosa così grande che forse era dio.


Così i demoni nei loro giorni d’attesa di un compito cosmico, in veste di tirocinanti al laboratorio di ricerca sulle specie possibili, trascorrevano ore silenziose accanto a un bel pianeta, che in altrettanta mutezza ostinata li guardava di rimando, quasi un paradossale fantasma ingombrante e senza alcun peso sedutosi al più vicino sgabello come nulla fosse. Ma no, ancor più ingombrante del mondo, o dell’attesa di venir assegnati a questa o quella concretezza dall’altra parte del cosmo -questa o quella “realtà” in chissà quale dimensione-, erano disturbati dalla forma strana che era apparsa alla periferia dei loro campi percettivi, quel diverso quell’emarginato o chissà quel come altro potevano definirlo, adottando le tecniche classificatorie delle forme d’esistenza sociali. Oh, era disturbante, punto e basta. Questo dicevano a loro stessi per giustificare ogni sentimento, ogni atomo di repulsione che intasava, simile a un muco verde nelle vie respiratorie, le vie attraverso le quali spirava il loro ragionamento -veleno e zanne e mimesi e ruggito di qualsiasi demone avanzato.


-non battere troppo veloce il piede.-, disse il demone seduto dando le spalle al vetro, di cui vedeva solo i riflessi specchiati sulla parete opposta, tanti diamanti in una coda di pavone. Con l’occhio sinistro riusciva a perlustrare, cauto verso le azioni del dio-primate che si aggirava, ancora un po’ incerto eppure così spavaldo senza consapevolezza, tra gli attrezzi, le cose che avrebbe scelto per dare uno sfoggio della sua brutalità.


-se lo fai-, continuò, con aria da professore -potrebbe captare la tensione, potrebbe fare un ghigno orribile dei suoi nella faccia di gomma, potrebbe… in altre parole, potrebbe innervosirsi.


-ah, sì?-, rispose ringhiando l’altro, mentre s’indaffarava ad assumere l’aria di chi cercasse, nel cielo di fronte, sagome di uccelli neri per poterne riconoscere la specie dal tipo di volo al di sopra degli alberi -e dimmi, visto che lo vedi così bene e sai tutto quanto, cos’è che non lo innervosisce, eh?


-lo so. Lo so…-, disse l’altro con aria grave. -ma ci sono nuovi studi, sai, ci sono studi che dicono che non è tutto uguale in ogni sua parte, che ci sono zone che non comprend…


-ecco ecco ecco. Si è mosso. Cosa credi? Che non lo sento per niente da qua? Ah, si innervosisce, e cosa ti dice che non siano proprio le nostre chiacchiere a innervosirlo? Cosa ti convince del fatto che con quelle orecchiacce nude e verminose non riesce a origliare fin qua?


-di questo fidati. I dati che abbiamo raccolto…


-i dati, i dati, i dati.


-ti stai innervosendo, rosso-lunare.-, disse, cercando compostezza in sé, ancor più di quando, ignorando un tremore di fondo nel suo tono analitico, gli aveva detto di fidarsi. E di fidarsi dei dati.


-e tu sei nato nervoso, incolore-sublunare.-, sentenziò rosso-lunare, il demone che stava tamburellando sul tavolo con le dita, rinunciatario alla sua ricerca di uccelli. Storni, condor, bucorvi… c’erano tante specie dal piumaggio nero che avevano scelto le dimore lussureggianti del paesaggio, e che, non viste da nulla, s’alzavano in volo, scendevano, in un’alternanza che sembrava così insensata, così priva di criterio, da spingere esseri come loro a inginocchiarsi segretamente in una stanza interiore, sentendosi trafiggere le ginocchia dalla durezza del pavimento, per implorare a un infinito cielo o chi per lui: ti prego, dimmi, dammi un segnale che non è veramente tutto così insensato, che quell’alternanza, ora su ora giù tutto a casaccio, fa parte di un incredibile disegno così incredibile che semplicemente io non sono ancora arrivato a un sufficiente livello del mio sviluppo cancerogeno per comprenderlo nella sua interezza. Ti prego, dimmi che c’è qualcosa.


Non riuscendo più a esagerare volutamente il loro scambio di opinioni con la stessa energia di prima, rosso-lunare e incolore-sublunare stettero in silenzio, accogliendo tra un deglutizione di amara saliva e una grattata di nuca il rumoreggiare chiassoso di dio-primate che stava agitando nell’aria un pupazzo oblungo di gomma, con tutta l’aria di volerlo spezzare, e ridere ore e ore come uno scemo per la soddisfazione di aver compreso, “sono stati i miei muscoli, sono stati i serpenti di fibra e sangue che riposano nei miei avambracci a trasmettere una vibrazione che ha fatto questo! Sono io che ho fatto questa azione irreversibile! La distruzione è la mia firma!”…..


O almeno, così era che la maggioranza dei demoni immaginava fosse il monologo interiore -se di interiorità si può parlare- del più inquietante tra i nuovi arrivati, quel dio-primate di cui quasi ossessivamente ricordavano, in incubi a occhi aperti, quel giorno di follia, quel suo avventarsi sui vetri fino quasi a spaccarli. E le risate scimmiesche, veloci a salire alte verso il soffitto come un antico sbellicarsi vibrante dal profondo della giungla, le risate che denotavano come per lui fosse tutto un gioco, nel quale era vietato aver coscienza, rendersi conto delle propaggini d’orrore scaturite dalla propria forza senza controllo. E gli oggetti che aveva assoggettato per questo, e la gomma e le corde e i bastoni e le palle e i modellini dei macchinari e i solidi di legno, tutti a roteargli attorno come un sistema solare, tremando al suo berciare: “dio-scimmia!, dio-scimmia!, dio-scimmia io sono!, dio-primate io io io io io dio-primate sono!”, diceva, perché oltretutto era incoerente e indeciso confuso, oltretutto era ingenuo, oltretutto -sottolineava qualcuno tra i demoni che proprio non riusciva a tacere ciò che sentiva andasse detto schiettamente- mancava della stessa logicità per la quale erano stati precisamente creati.


Incolore-sublunare aveva abbassato lo sguardo dal suo interlocutore, e perdendosi nelle lenti dei suoi occhiali, s’era avvolto in un mondo di riflessione dall’estetica simile al colore del suo nome. In quella teca perfetta, musicata dall’assordante eppure quasi suadente ronzio attutito del decollo di aerei, aveva cercato di raccontarsi le cose in un modo che lo scuotessero meno, che gli dicessero in una fioca speranzosa scappatoia che non per forza le cose si sarebbero concluse come pensava, ovvero con il vetro rotto, l’ossigeno esterno risucchiato dentro a soffocarli, e quell’orribile scimmione incoerente, seminudo quasi ovunque eppure pelosissimo in altre parti, a berciare insoddisfatto e infuriato più di prima, peggio di un bambino dalla zucca vuotissima che non capisce d’esser stato proprio lui con i suoi imbecilli capricci a fare il peggior disastro della storia. Così duramente si esprimeva, incolore-sublunare, docile all’opinione comune, eppure, diverso in qualche sua parte, incoerente in qualche sua parte, stava davvero sforzandosi di trovare una via diversa, nel suo equoreo aeroporto interiore. Da qualche parte in quell’aeroporto una forma minuta e fragile di sé a picchiettare sul vetro, immaginandosi gli aerei come pesci combattenti, come forme di vita in un’acqua che invitava, invitata, anneghiamo tutti insieme, in un abbraccio in un sonno infinito…


-ohi.


-oh?-, sussultò incolore sublunare.


-sei sveglio?-, un’altra domanda senza senso, un'altra parola irrelata al contesto, come “permalosità”. Un’altra squama evidente di nervosismo.


-sì, sì.-, disse incolore-sublunare. E ritornò a sé.


Dunque. C’è un aeroporto. C’è la mia pace, qui. Bene. Tutto quello di cui ho bisogno. Ma di cosa ho bisogno? Cosa sono? Creati disegnati progettati per non avere bisogni, ci ritroviamo per molti dei nostri giorni d’esperimenti a dover far da balia per una specie che è solo un concentrato di bisogni, e sai che succede di conseguenza? Anche noi diventiamo dei concentrati di bisogni di conseguenza, tutti eco di un singolo bisogno centrale: quello di sbarazzarcene. E sogniamo il sangue come lui sogna il sangue, e bramiamo il crimine dell’atto e di nasconderlo e di dimenticarcene. Ma come fare? Gettarlo dal vetro, trovare una sua apertura dove farlo cadere e che non resti aperta abbastanza a lungo da condannarci all’intossicazione come stava per condannarci lui, prima che intervenissero le guardie a riparare tempestivamente le crepe? O attendere il tempo esauriente alla fine del quale gli verrà assegnata la sua sfortunata realtà? Non vorremmo certo essere laggiù, e non invidiamo gli esseri che gli staranno accanto, ma finché ce lo leviamo di torno… sì, vogliamo fargli del male.

Eppure siamo imperfetti: c’è un altro paradosso: è lui il migliore tra di noi. Lui meglio di noi può assolvere al compito che ci dà l’esistenza. Siamo cellule, noi siamo cellule a cui sono assegnati dei colori, dei temperamenti, degli animali guida, e così via, e il nostro compito, riproducendoci nelle realtà e sporcando i cosmi con le nostre schizzate dei liquami corporei in dotazione, è quello di creare un cancro tale da crescere a dismisura, più grosso e più pensante di tutti gli altri, fino a raggiungere le dimensioni del cosmo stesso, e riempirlo, e sostituirlo e ricominciarlo: poi, per quale motivo ciò debba avvenire, non ci è stato detto e non ci verrà mai detto, ma sappiamo (sappiamo? Ti prego, dimmi che c’è qualcosa) che un perché ci deve essere. Fine. Questo lo sanno tutti, da quando l’incubatrice ci sguscia tutti coperti di polpa, a quando crescendo in altezza risolviamo problemi e abachi sempre più complessi, pronti a prender dimora in queste stanze, ed eccellere nella sala comune. Perché un giorno noi possiamo, come si dice, “vivere”, fino a far morire, fino a cancellare con noi un intero organismo preesistente. E allora, non è forse lui il più cancro tra tutti quanti? Lo dicono anche alcuni degli altri, di quelli più propensi al gruppo e a organizzare metastasi di tipo tribale una volta ottenuta la loro realtà: quello là è proprio un cancro!, e allora, scusate tutti, questo non vorrebbe dire, che in tutta la sua repulsività, è proprio la forma ultima di ciò che noi tutti dovremmo essere? O peggio, che noi, perfezionandoci ed evolvendoci, e dunque facendo esattamente ciò che dobbiamo fare, e dunque crescendo come dobbiamo per poter ottenere uno scopo -insomma, evolvendoci diventeremo esattamente simili a lui?


Scimmie seminude. Braccia lunghe, vene affiorano come mandala serpenteschi. Appendici prensili in fondo, ostentatamente prensili: vogliono dire alla savana di averla conquistata, di averla agguantata, possesso: tutti scimmie seminude in un laboratorio. Di cui avranno rotto i vetri, inventando il soffocamento, la morte anche nel mondo sicuro, la morte nello sterile.


Incubi di primati. Evoluzione giunta al culmine.


-oh, sei sveglio? Cazzo… cazzo! Merda!-, ringhiò rosso-lunare.


Incolore-sublunare fantasticava di affidare quei suoi pensieri a delle pagine, un quaderno d’appunti mezzi strappati, lasciati da uno scienziato, carta salvata da fiamme e corrosive ustioni come unica superstite di un laboratorio andato distrutto in un incidente da tutti dimenticato. Le fantasticherie udirono vagamente la voce zannuta di un compagno, un collega, un cancro promettente ma troppo insicuro, che denunciava la propria insicurezza: sei sveglio?, cazzo cazzo, merda.


-oh, sei sveglio? Cazzo… cazzo! Merda! È la fine!-, disse rosso-lunare.


Incolore-sublunare sussultò, quasi terrorizzato.


-che c’è?-, chiese, si riebbe, singhiozzò lasciando a malincuore che l’aeroporto si dissolvesse in una nebbiolina neurale, l’ennesima vagonata di pensieri svanita nell’anonimità d’un mondo individuale che era profondo e vasto e così facile dimora di insolubili smarrimenti, come un grande oceano di brodaglia opaca.


-oh cristo dei demoni! Ma non mi ascolti? Guarda!-, cercò di gridare rimanendo sottovoce rosso-lunare, evidentemente terrorizzato.


-ci sta guardando!


Avvertendo un gelo da qualche parte vicino al suo nucleo, incolore-sublunare fece per girarsi molto lentamente, in cerca di una conferma a quelle terribili parole. Ed era là, schiena alla parete in fondo alla sala comune, che li guardava fissamente -no, guardava lui nello specifico, così sembrava- con quei suoi occhi enormi, quegli occhi che erano la forma bulbosa e flaccida della steppa di un’intelligenza malata dove un simile demone era stato concepito, steppa bianca con al centro un enorme lago nero, un cratere che puzzava di scimmia. Li guardava reggendo in una di quelle sue lunghe e pelose mani un malloppo di cordame, come in attesa di qualcosa. Di una reazione.


Tu, -pensò incolore-sublunare carico d’un odio che non voleva riconoscersi dentro-, tu sei un concentrato di reazioni. Ecco cosa sei. E le susciti negli altri, e le crei, e le sollevi come un’insopportabile caciara nella giungla e nella savana, e fai festa e fai ancora più casino e fai una guerra tanto per cambiare, e ti scompisci e rotoli pensando a quanto sono buffe queste tue reazioni del cazzo!, e scompisciandoti e rotolandoti fai un casino di tutto l’esistente, e lasci burroni di arido calcestruzzo dovunque sei passato, dovunque hai lanciato con palese gusto la merda che hai in testa, che nemmeno è tanto una metafora. Tu, tu, tu, sei un concentrato di reazioni, e vuoi ch’io reagisca, sei un concentrato di tutto quanto è peggio e meriteresti di essere per sempre eliminato.


-fa qualcosa! Fa qualcosa!-, singhiozzava quasi rosso-lunare, perdendo del tutto la ragione. Si aspettava che il suo compagno, che amava indossare un camice bianco, fosse il più affidabile, quello capace di mantenere una calma (e perché, poi? Come mi sono fatto questa fama?) anche nelle tensioni peggiori, le situazioni che, come avevano spiegato nel nido, all’inizio dell’apprendistato, erano “come trovarsi faccia a faccia con un animale selvaggio, di quelli che vivono là fuori”. Paradosso! Era rosso-lunare il più corpulento, il più veloce a sentir salire da sé stesso, come lava vulcanica, una netta risposta viscerale alle cose che accadevano. Ed eccolo là, di fronte alla vertigine dell’azione, senza sapere che fare delle sue zanne -in realtà antenne per captare il pericolo-, della sua pelle dura come corazza, del suo animo così turbolento, in fondo, da risultare un impedimento, sì, del tutto inutile. Aiuto, aiuto, gridava di continuo quel demone rosato, quasi rosso, com’era nel nome.


E incolore-sublunare cercò di immaginarsi il mondo di rosso-lunare, immergendocisi dentro, contando su pochi elementi e sulla sua capacità di riempire i vuoti con vitree, prismatiche e incantevoli immagini che inglobavano gli stessi riflessi incolori e azzurrognoli del suo bellissimo aeroporto interiore -perché da là partivano tutti gli aerei, perché dal gate della sua anima poteva imbarcarsi in infiniti viaggi dentro le anime di tutti gli altri. E vide il mondo di rosso-lunare, una realtà che sarebbe stata distantissima da quella nella quale avrebbero collocato lui, e nella sua realtà rosso-lunare sarebbe stato una specie di re di un deserto assai vasto e focoso, quasi luminoso sotto una notte perenne, similissimo alle illustrazioni che avevano visto dei paesaggi di quelle realtà in cui certi demoni collettivisti avevano perfezionato il viaggio interplanetario. Oh, forse rosso-lunare era uno di quelli, no anzi, era antenato di uno dei popoli aborigeni che in quei viaggi avrebbero fatto la parte dei conquistati e degli schiavi, ma oh, quanto orgogliosi, quanto lusinghiero il loro ricordo, fintantoché qualcosa di pensante rimaneva a ricordarlo, galleggiando insensatamente qua e là per il cosmo! Sì, rosso-lunare aveva un mondo dentro fatto di onori e codici, di corse sulla sabbia, impronte dalle unghie lunghe impresse sul deserto, a ricordare genealogie di antenati, e di giganteschi rettili del passato reso eterno. Rosso-lunare sollevava una lancia, una lancia rossa nel suo mondo alto tra le stelle, e la sua sagome per sempre si imprimeva come ombre tra i crateri visibili da altri pianeti e satelliti. Una lancia rossa non di sangue, una lancia di buon governo.

Eppure, rosso-lunare aveva tanta paura e non la nascondeva: rosso-lunare, fatto di rispetto e mancato rispetto e dell’immediatezza d’entrambi, versava tutta la sua parte di rispetto nel suo collega, incolore-sublunare. Forse solo perché era appunto il collega più vicino, forse perché quei suoi occhiali erano solo stupidi vetri che intagliavano uno stereotipo e lo collocavano sull’attaccatura del becco cosicché tutti potessero vederlo e farne zimbello o al contrario eroe improvvisato; o forse ancora, proprio perché anche lui, rosso-lunare, in tutta la sua schiettezza e fisicità in fondo innocua, riusciva ad accorgersi di quei voli che incolore-sublunare poteva fare partendo da se stesso. Forse avendo fiducia che potesse riuscire a parlare perfino con quell’affare. Che potessero stabilire un contatto. E che loro due, allontanandosi pian piano e in punta di piedi da quel contatto, riuscissero a fuggire dalla brutta situazione, dalla paura quasi pura e assoluta, come era nella sua forma chimica dentro le ghiandole che la producevano. Un lago d’elettricità al centro del quale s’ergeva una roba dotata di sguardo.


Aaah, ma cosa mi chiedi di fare…-, pensò incolore-sublunare. E inforcando con più forza gli occhiali, in modo che gli avrebbe lasciato marchi attorno ai dotti lacrimali, si preparò a tentare quella follia.


-tutto bene?-, provò a chiedere. Nessuna risposta.


Lo scimmione continuava a guardarli, le corde in mano, senza dar cenno di voler far capire in alcun modo cosa gli passasse dentro quella testa, di silenzi ed enigmi e improvvise eruzioni. Da un momento all’altro sarebbe potuto esplodere: era questo a mandare ai pazzi tutti quanti, è questo che ti rende odioso, meritevole di essere elim…


-ehm.. c’è… c’è qualcosa che vuoi fare?-, provò incolore-sublunare, con un’altra delle formule studiate con alcune delle specie prototipiche, nel periodo in cui anche loro si dovevano occupare dei nuovi prodotti delle incubatrici, in veste di infermieri o assistenti.

Di nuovo silenzio.


-cazzo, mi mette i brividi. Ma perché cazzo ci hanno lasciati soli qua dentro?! Lo sanno che è sempre meglio se… insomma, come si dice, più siamo e… oh merda, merda, merda!-, bisbigliava agitatissimo rosso-lunare, raccogliendosi la nuca tra le mani e abbassando la fronte al tavolo come conclusione del suo illuminante discorso. Intanto incolore-sublunare cercava di recuperare la concentrazione.


-c’è… qualcosa che vuoi?


-giocare!-, disse allora dio-primate, o meglio ruggì tra i denti, o meglio… in effetti nessuno aveva insegnato che tipo di vocalizzo potesse essere. Era molto aspro, era un suono che sembrava sfregarsi direttamente dai denti e al contempo ricevere amplificazione acustica dall’arioso diaframma, che nascosto là da qualche parte dietro quel ventre sporgente faceva pensare di essere eccessivamente ampio e opulento, una boccaccia famelica sempre aperta per mangiarsi il mondo.


-ah, capisco giocare..!-, piagnucolò incolore-sublunare, mentre gli arrivava l’eco di rosso-lunare in un orecchio, poverinoipoverinoipoverinoipoverinoi….


-hey.-, bisbigliò a rosso-lunare. -ora smettila di tremare. Io ho paura, tanta quanta ne hai tu. Ma ci voglio provare. Per la curiosità che è il nostro motore, per la conoscenza che ci farà crescere e riprodurci e morire infine come deve essere. Allora, ci stai?


Gli occhi tremanti, un po’ umidi e pruriginosi, rosso-lunare sollevò lentamente la testa dal rifugio temporaneo delle sue braccia, per guardare dritto in faccia senza compromessi il collega, con aria quasi incredula, e al contempo affranta, e al contempo piena di gratitudine.

-è facile per te!-, sbottò tra i singhiozzi. -tu sei bravo! A te piace indagare, io sono semplice! Io… io sono una cellula molto inferiore a te!


Sgomento, incolore-sublunare impallidì. E disse qualcosa che con tutto il cuore sperava fosse vera. Disse qualcosa che voleva sostituisse la verità così come loro sostituivano la vita, disse qualcosa che sperava non fosse solo il risultato di processi sociali appresi di malavoglia dagli istruttori durante le fasi d’orientamento, quando ancora dovevano capire che tipo di specie sarebbero stati. Disse qualcosa che non voleva fosse soltanto una falsa amicizia, inventata sul momento utilitaristicamente per poter fuggire dalla più spiacevole delle situazioni, foriera di brividi come il tocco di un vischioso e virulento tentacolo.


Disse qualcosa, facendosi forza per non ascoltare le sue stesse parole, per raccogliersi in preghiera. Su un vetro d’aeroporto, un bimbo picchiettava le dita, sognando di pesci variopinti in volo tra le nuvole, e storni in immersione tra gli abissi…


-ascolta. Non esistono cellule peggiori. Né cellule migliori. Noi siamo tutti uguali. Capisci? Punto e basta. Noi siamo la stessa cosa. Forse io avrò più cervello… e allora? È solo un cervello diverso. Credimi bene: nel tuo deserto rosso, un cervello come il mio congelerebbe all’istante, incapace di adattarsi, te lo assicuro!


Rosso-lunare spalancò la bocca, sentendosi leggere l’anima dall’amico (aaah, lo sapevo, è davvero bravo!), sentendosi compreso nei più segreti recessi, e terrorizzato, e grato al tempo stesso, e… sfiorato internamente da una cosa calda, simile a un appendice dotata di dita, che scendeva sempre più giù fino a sfiorargli i genitali, e non sapeva se la cosa fosse di suo gradimento oppure… ma l’importante era che in quel momento quel calore aveva spinto qualcosa in lui. Un tasto. Nervo, impulso, meccanismo: loro erano intelligenze logiche e funzionanti. Rosso-lunare era grato, più che altro.


-oh! Capisco. Sì, capisco.


Incolore-sublunare sorrise.


-certo che capisci. Ora andiamo. Con le nostre paure. Tenendole per mano.


Rosso-lunare annuì, tacendo. I due piano piano si alzarono. Dio-primate non aveva distolto lo sguardo un istante, pronto a lanciare di nuovo quel suo richiamo della foresta, echeggiante in ogni sua parte. Nella vicinanza, un odore penetrante di pelle viva e morta invase le narici dei due demoni colleghi. Era nauseabondo. Sembrava dovesse riscrivere da capo i vasi sanguigni che avevano dentro, sembrava incendiare campi percettivi al suo passaggio. I due si fecero forza e resistettero, senza oltrepassare una ragionevole distanza di sicurezza.


-allora, giochiamo, dunque, eh. Con che vuoi giocare?


-filo!-, esclamò dio-primate distendendo un braccio nella sua intera disgustosa lunghezza, a mostrare il cordame arrotolato e dar prova di inaspettate proprietà di linguaggio. Faceva rabbrividire precisamente per questo: come sentir parlare una roba inerme, una roba che non dovrebbe. Il linguaggio in mano a quel coso era l’evidente condanna nella disgraziata realtà in cui sarebbe piombato.


-aaah, sì… la corda!-, fece incolore-sublunare col tono sforzato di una porta che cigola. -e come vuoi giocare con la corda?


-il mondo! Il mondo cazzo!-, gridò dio-primate, e agitò il malloppo di corda, e con uno schianto si sedette a chiappe serrate sul pavimento, provocandosi probabilmente un forte dolore al coccige che lo fece godere e bestemmiare e che fu subito dimenticato, concentrato com’era sul suo nuovo passatempo di sgranare una per una le gibbosità della corda, come stesse contando qualcosa.


I due demoni erano sbiancati di colpo e si pentivano dell’interezza dei discorsetti motivanti ch’erano mai esistiti in tutta l’esistenza e la preesistenza, si pentivano d’ogni decisione presa da chiunque in qualsiasi angolo dell’esperibile, e prima tra tutte della decisione e la serie di malaugurate concause che li avevano portati a star là in quel momento. Ma si fecero forza, ma resistettero. Incolore-sublunare piegò le ginocchia e pian piano si chinò senza sedersi né restare in piedi, nello squat di una figura pseudo-genitoriale tra i suoi aquilotti adottivi.


-e allora, cosa vuoi fare con questa corda?


-il mondo! Il mondo! Il mondo cazzo!-, gridava, continuando a sgranare, ripetendosi sussurri impercettibili come stesse recitando dei mantra. Ci manca solo che oltre al linguaggio questo affare acquisisca concentrazione e spirito. Ma che interiorità può mai avere questo coso?


Pazientemente incolore-sublunare si avvicinava (entro la sicurezza, è ovvio) a quell’esemplare unico e terrificante, cercando di captare, frammisto a tutti i suoi fetori e le sue forme repellenti, un qualche significato nei suoi gesti. E cercò di guardar quella corda come s’aspettava che la guardassero quegli occhi di scimmia. Quegli occhi ch’erano un lago morto nella savana terribile dell’evoluzione. E assieme a quello che si aspettava sommò quello che mai si sarebbe aspettato, quelle inconsce percezioni che dalla presenza del dio-primate fluivano in lui come fiumi di pulviscolo luminoso, creandogli dentro lucciole in un sentiero.


Ogni strattone di corda era una forma. Un bozzo assomigliava a un pallone. Un altro a un ruminante. Un altro perfino a una montagna, alta alta con tanti alberi, le frane e le valanghe. Uno pareva la primavera e l’altro pareva l’inverno. Giocare, giocare!

Certo però che… certo però che a ogni strattone doveva per forza mettere in mostra quelle sue dita verminose e abili, quel maledetto coso… certo però che doveva per forza puzzare peggio di una carcassa…

E ogni strattone di corda era un passatempo nuovo: guarda, uno era una nuvola, che scorre cangiante nel cielo!, guarda, un bozzo era invece un chicco di sabbia che rotola dentro una clessidra. Un altro era persino una casa, che s’erge creando protezione e calore, che fa passare un anno dopo l’altro in un vicinato di cani che abbaiano e biciclette che cigolano e spruzzatori che salutano l’incipiente crepuscolo.

Certo, però, che non poteva proprio fare a meno di mostrare quelle sue vene, e di costringere il malcapitato che ci fa cadere l’occhio a pensare a una moltitudine di rivoli e affluenti, e una mappa intera del cosmo orribile disegnata da quei serpentacci verdognoli, quel mandala del sangue e del suo tubolare contenitore, quel flusso eterno di puzza e inodore.

E mentre la corda si esauriva, vedeva quello scimmione amare ogni tratto della corda, che doveva essere come i giochi che le specie simili alla sua avevano a disposizione nelle loro gabbie negli zoo. In una penombra polverosa, tra oranghi dagli sguardi svegli e spaventosi, a muoversi in eterno claudicanti, incerti se arrampicarsi tra le ombre nel sottotetto come pipistrelli scoppianti di virus, o se alzarsi in piedi, sbatacchiare le ghiandole al vento, per chi guarda dall’altra parte delle sbarre o del vetro.

Certo però che quei muscoli e ossa sporgenti erano un’eco sgradevole di quella camminata. In verità, anche se erano là vicini a lui, ad assecondargli il gioco, era rimasto là, in fondo alle loro coscienze, ad aggirarsi come uno spettro funesto. Camminava, il suo camminare s’infilava ovunque, in piedi, canzone ininterrotta della colonna vertebrale. Un mollusco osseo conficcato dritto in lui come una spina. E un serpente rosa di budella. Una bestiaccia così schifosamente ingorda da costruirsi solo dopo essersi infilata dentro una serie di altre creature, un furto ignobile delle forme, delle coscienze, delle cose che rappresentavano.


Nemmeno incolore-sublunare sapeva che pensare di una creatura così.


Ma dio-primate non stava né camminando né urlando, e il vetro delle finestre, che dava sul mondo e sulla fotosintesi e sul bel parco dove libero e temibile fluttuava l’ossigeno, era intatto, perfettamente intatto e ancora geometrico in modo che li proteggesse, premuroso, genitoriale. Le sue ali di madre s’estendevano su quel quadrato di mondo, mandando bei riflessi asettici sul tappeto, i giocattoli, gli oggetti progettati per l’osservazione. E le specie progettate per l’osservazione prima che nascessero per uccidere in continuazione. I due demoni colleghi non sapevano che fare di quella sensazione paralizzata, quell’incertezza tesa tra l’infrangimento delle aspettative, il timore del loro imminente avverarsi, la riscrittura dolorosa di tutti i loro pregiudizi e il loro ordine dell'universo.


La verità era che incolore-sublunare non sapeva che pensare perché nessuno avrebbe saputo cosa pensare. Nemmeno i suoi fottuti creatori laggiù, dovunque fossero, in qualunque palude di gas esilaranti si fossero trovati per arrivar mai a pensare una tale perversione dell’esistente. Quella situazione che -il buon e corporeo rosso-lunare aveva pensato bene- era davvero una situazione di merda, del cazzo, la peggiore che ci fosse.


Ma all’improvviso incolore-sublunare scorse qualcosa di ancor più strano. Guardò di scatto verso il collega, lì accanto, un po’ dietro di lui, timoroso. Non lo vide. Non vedeva ciò che guardava. Tornò scattando sullo scimmione: s’era fermato, su un punto della corda, e la stava guardando meravigliato, gli occhi sgranati, le labbra aperte in un tondino nero circondato di pelacci disarmoniosi.


E quelle pupille divennero enormi, terrificanti, gettando incolore-sublunare nel pallore più lampante e freddo, nel sudore immediatamente gelido, nella tachicardia.


Si ritrovò accanto, come lui davanti al vetro dell’aeroporto, uno scimmiotto che picchiettava, cercando di attrarre i pesciolini, e attratto dai pesciolini, e contento e in estasi. Indicava i banchi di pesci che volavano nell’acqua dell’acquario. E, terrorizzato, il bimbo di nome incolore-sublunare vide -come aveva fatto a non vedere mai tanto bene?!- i riflessi sul vetro, il riflesso suo che si mischiava a quello dello scimmiotto, diventando un’unica macchia sovrapposta ai pesci intangibili dall’altra parte.


Incolore-sublunare gridò. Rosso-lunare gridò ancora più forte. Entrambi stavano scappando, scalpitando lontano dalla sala comune. Velocissimi galoppavano per raggiungere i dormitori, superando quelli degli altri chiusi come palpebre dormienti. Controllori e istruttori e chiunque del personale fosse disponibile, compresa la situazione accorsero armati di siringhe, pronti a sedare dio-primate che per lo spavento era precipitato in un attacco di convulsioni.


Tonfavano i piedi veloci dei due demoni sulla moquette azzurrina che circolarmente rivestiva per intero l’interno dei corridoi cilindrici, pavimento soffitto e pareti senza confine. Come cavie scalpitavano nel tubo sentendo echeggiare i battiti dei loro cuori.


-che è successo, dio mio, che cazzo è successo??-, pianse rosso-lunare, benedicendo i corridoi, la vicinanza delle loro brandine, sì, le avrebbero raggiunte, avrebbero trovato una base.


-te lo dico io quel coso stava per fare una cosa fottuta nel cervello ah l’ho sentito l’ho sentito chiaramente l’ho percepito fidati cazzo fidati oh cristo oh merda!


-aaaah, oddio, mi fido, mi fido, mi fido! Perché, perché….-, piangeva ancora rosso-lunare.


Ma incolore-sublunare, nel fiatone, non era mica sicuro di quello che aveva detto. Gli occhiali gli stavano storti in faccia, come la parodia di una giornata di intensissima fatica intellettuale. Ogni suo organo reclamava refrigerio, conforto, pausa. Ma non poteva fermarsi. Poteva solo… ah, ecco, la stanza.


-senti, rosso…-, disse sfinito incolore-sublunare, non curandosi d’aver chiamato il collega in quel modo troppo colloquiale, non curandosi delle conseguenze affettive, potenzialmente fastidiose.


-dimmi!-, rispose subito l’altro, disponibile sulla soglia mentre in un istante la porta della capsula rotonda si spalancava, ritraendosi nei bordi.


-senti, io… voglio stare da solo. Ho bisogno di star solo. Capiscimi, è che… senti, tu non hai visto cosa stava per fare. Lo capiresti, se l’avessi visto. E so che sei stanco anche tu ma… ti dispiacerebbe, se solo per questa volta, chiedessi a qualcun altro di condividere il dormitorio?


Usò questa scusa. Oh, fece rosso-lunare, comprensivo e leggermente offeso e di nuovo comprensivo. Ma sì, fondamentalmente comprensivo. Chiederò a xyz, sì, un tipo apposto, sono certo che, ma sì ma sì, incolore-sublunare già non lo stava più ascoltando. Ci riprenderemo, da questo brutto spavento, ne sono sicuro. Allora ciao, buonanotte. Già, buonanotte. Avrebbe atteso la notte da solo, nella sua capsula.


Da solo come in uno spazio profondo. Uno spazioporto dove astronavi salpavano per raggiungere confini incommensurabilmente lontani del cielo, assai più lontani dei punti cardinali d’un qualsiasi cielo solcato da semplici aerei. Il cosmo e la notte erano vasti e lunghi e neri, e nuotavano laggiù pesci d’abisso dai volti mostruosi. Chissà che diavolo aveva quella fottuta scimmia. Un primate pervertito, sempre in cerca di allusioni, doveva aver visto qualcosa in quella corda a un certo punto, e chissà che diavolo gli aveva ricordato. Non ce la faccio…


Incolore-sublunare, stanco morto ma ancora in piedi, senza speranza per se stesso o per qualunque altra specie venisse sintetizzata là dentro, abbandonò una mano sul telaio del letto a castello, cercandovi nell’aspetto metallico qualcosa che assomigliasse a un riflesso, un vetro, una cosa che mancava nei dormitori privi di finestre. E si chiese, perché non posso avere qui una finestra? Comincerei a pensare che là fuori è tutto vuoto, o al contrario che è troppo pieno, da dare il mal di testa? Non vogliono che mi distragga dal mio compito? Ma è ridicolo: come posso distrarmi? Io sono un demone, una specie, un’intelligenza, insomma, che altro si aspettano io possa fare? Che altro……?


Ma incolore-sublunare smetteva di completare le frasi, e sempre più, là in piedi, il sonno calava su di lui. Cancellando vetri riflettenti e pesci e aerei e uccelli di piumaggio nero ed enigmi senza risposta e tutto il resto, oppure plasmandoli in un’unica cosa.


.

Intanto nella sala comune esecutori imbacuccati in tute sintetiche eseguivano, mossa per mossa, perfezione, operazione matematica. Il fluido denso color del fango scese con grasso risucchio nelle vene dello scimmione attraverso più punti praticati dai siringoni. Dio-primate tremava, il ventre palpitante e biancheggiante rivolto al soffitto, dove luci diafane erano state accese per accecarlo, contenere gli impulsi fisici incontrollabili della sua epilessia. Non più luce naturale, non più distinzione: tutto era cecità e, attraverso i visori, gli esecutori potevano osservare facilmente il mutamento che avveniva nelle sue pupille sempre più scolorite, il sedativo che faceva effetto, contagiando dapprima la pupilla, paralizzandone la capacità di ammassare un acquoso portale tra dentro e fuori. Potevano essere soddisfatti: era neutralizzato. Ma all’improvviso si udì un rumore inconfondibile: carta di forma cilindrica usciva, a causa dei tremori inconsulti, dallo sfintere di dio-primate.


-ecco dov’era! Ci credo che non lo trovavamo neanche dopo tutto quel cercare-, disse uno, tirando con due dita guantate il lembo spiegazzato e umido di un foglio di carta per finire di estrarre il quaderno dalla sua vischiosa prigionia -questo stronzo di uno scimmione si era infilato su per il culo gli appunti del professore! Quelli su di lui, guarda caso.


-schifoso porco narcisista.-, disse con disappunto uno, scuotendo la testa. Tutti risero. Pensavano, trovandolo ridicolo, al fatto che quell’affare, trovando un quaderno sfuggito agli incendi e gli scoppi e gli schizzi di vomito e tutto l’inferno di quel giorno, avesse pensato come primissima cosa di piegarlo per bene, facendone un cilindro, e ficcarselo nel culo. Risero ancora, chiacchierarono. Formando un gruppo compatto, sospirante per il lavoro ben svolto, cominciarono ad abbandonare la sala comune, lasciandolo là crocifisso sul tappeto, semincosciente. Chiusero la porta, normalmente sempre aperta nelle ore di luce, e con trapani lampeggianti vi praticarono due nastri luminosi, sui quali scorrevano i caratteri: “area che necessita disinfezione. Ingresso vietato.”


Un dio-primate sprofondava nel tappeto, cieco a una finestra, proprio là non distante dal suo orecchio destro, pochi metri dal suo dito indice che cominciava a rannicchiarsi là in fondo al suo braccio disteso a terra. Vedeva una luce bianca su di lui, un occhio circolare ed eterno, fisso, mentre perdeva coscienza, mentre si chiedeva se per caso non avesse già visto qualcosa del genere. Incosciente, fece scorrere due lacrime lungo le guance, due gocce di chimica emozionale -o forse solo reazione fisiologica all’iniezione, chissà, chissenefrega- che rotolarono tutte appiccicose fino a ticchettare giù, come le preghiere di un disperato che davanti a quello stesso lampadario chieda gridando la stessa cosa che chiede agli uccelli, “ma insomma, c’è qualcosa?!?”, e si sente rispondere, proprio da quel fibrillante ronzio elettrico, “no, e adesso sta buono, per piacere.”


Dossier redatto a partire da ciò che rimane degli appunti del Prof. XXXXXXX, dal giorno xx/xx/xxxxxxx fino a quello dell’incidente in cui ha “perso la vita”.


xx/xx/xxxxxxx


Torno su questa nuova intelligenza. Ridono quando dico che è senza precedenti. Quello che ho sempre detto ogni volta, dicono. Ma so che c’è qualcosa di strano, stavolta. Non appena avrà conquistato la sua realtà, vedranno che………… (illeggibile.)


xx/xx/xxxxxxx


La nuova intelligenza mi ha chiamato per nome. Giuro. Mi ha guardato, con quei suoi occhi profondi, acquosi, quegli occhi che mi mettono incredibile agitazione. Come se uno specchio in cui sto guardando venisse improvvisamente forato da due laghi, due crateri di morte. Morte e acqua, però: tanta acqua nera, carica di vita, forse troppo carica. Quello sguardo così terribile e così gentile… oh, perché sto parlando così? Noi siamo la scienza, noi dovremmo solo sintetizzare le nuove intelligenze, da mandar per il cosmo a far le nostre scorribande, ciò che il nostro fisico fragile di studiosi non può. Non dovrei parlare in questo modo così sentimentale, così… genitoriale. Già, ci penseranno i vetri, gli schermi della percezione, a far da madri per tutti loro, com’è sempre stato. Però, certo, è inevitabile avere preferenze. Ce ne sono tante: di quelle che assomigliano più a noi, di quelle che proprio per niente, di quelle che stupiscono. Ci sono quelli che assomigliano a me, hanno una propensione, per così dire, per il microscopio e il telescopio: quel promettente cucciolo incolore, per esempio (per inciso, credo che fosse in origine un cucciolo blu. Ma ho osservato, vedendolo interagire con un cucciolo rosso di corporatura tozza e robusta, che reagisce nervosamente agli estremi e le cose troppo nette, intravedendovi quasi un’aggressività, la possibilità del pericolo. Per questo, inconsapevolmente, si è pian piano fatto simile a un’acqua o un vetro, di cui non si distingua il bluastro dall’incolore. Per questo probabilmente sarà un ottimo genitore. Ma torniamo a ciò che più ci interessa). Questa nuova specie è interessante, ancora una volta, è geniale. Dicono mi stia ossessionando. Che se ne vadano al diavolo! Dicono che, se veramente uscirà una cosa eccezionale, sarà solo perché io avrò voluto vederci questo, contaminando la scena di ricerca con il mio sguardo. Che vogliono capire questi qua?? Hanno mai questi scienziati, in vita loro, AMATO qualcosa?? E allora che vogliono capire?


Sta di fatto che mi ha guardato e chiamato per nome. Continuando a usare su di me quello sguardo.


xx/xx/xxxxxxx


Hanno preso a prendermi in giro chiamandomi “Dr.Scimmia”. Non so se per il mio odore o cosa. Ah ma l’ho capito invece cosa vogliono dire. E comincio a esibire una forma di “orgoglio”. Sai che ti dico, vecchio mio?, cioè me stesso? Sto diventando simile a lui, e mi sta bene. Credo sia un’altra delle sue straordinarie capacità. Indagare a riguardo.


(molte pagine risultano illeggibili, bruciate, ridotte a schiuma. Si suggerisce prudenza a chi dovesse reperire il manoscritto originale: meglio non toccare, potrebbero esserci residui di principi attivi e tracce di ossigeno.)


xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxx


Oggi, quando sono andato là in infermeria per estrarlo dal macchinario per la risonanza, si è messo a fissarmi. Mi sono sentito agghiacciare dentro. Seduto là sul bordo bianco e asettico, le ginocchia ossute al cielo, al suo mento che calava ancor più ossuto, e quegli occhi. Sembrava potermi osservare per ore. Sembrava volermi fare qualcosa con le mani. Estrarmi gli intestini forse, e giochicchiarci perfino. Ah, non so cosa dico, forse davvero sto impazzendo. Sono tornato nel mio dormitorio e ho bevuto senza pensarci un bel bicchiere freddo. Sono ancora a letto, paralizzato dalla congestione.


xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxx


Risultato dei test di oggi: ha dimostrato straordinario affinità per una serie di elementi che, è presumibile proprio a partire da tale entusiasmo, costituiranno degli universali del piacere nella specie che si svilupperà a partire dalla sua nascita, una volta invasa una realtà idonea a ospitarlo. I suddetti elementi comprendono, tra gli altri: il gioco del calcio in particolare nella sua forma dei tornei della coppa del mondo; il synth pop; il turpiloquio; gli stereotipi sulle forme tribali ideologicamente stanziate in geografie più o meno estendibili a seconda dei capricci note come “nazioni”; agretti conditi con olio e sale; intrattenimenti narrativi in cui un operatore sintattico noto come “cattivo” cambia di segno e diventa “buono”, e il processo evolutivo che caratterizza tale mutamento; masturbazione in diverse sue specie, sessuata mentale o asessuata, con supporto audiovisivo o senza; tramonti e albe; una forma di estasiata e positiva depressione che si innesca quando, guardando le aurore boreali, si è visitati dall’idea di un collegamento astrale tra tutti gli esseri senzienti, canzoni di antenati, ineluttabilità della morte e sua somiglianza tematica-fisica con la nascita, dalla vulva alla fossa; i frattali che vorticano dietro le orbite oculari; l’odore dell’erba; le luci e le strade di campagna di notte viste dai finestrini di un oggetto in movimento a gran velocità; il movimento lento ed elegante delle pinne dei pesci nell’acqua. etc., etc., etc.


(“”)


xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxx


Potrei giurare che oggi non solo mi ha chiamato per nome, ma standosene sul suo trespolo, dal suo angoletto, mi ha anche mandato a fare in culo. Un giorno o l’altro mi accoltellerà, ne sono certo. Figlio mio bello! Sono proprio diventato tuo genitore. Una lacrimuccia mi scende.


xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx


(“”)


xx/xx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx (il giorno dell’incidente.)


Non riesco… vorrei. Tendo la mano e…. (illeggibile) non sembra rispondere.

(illeggibile.)

Mi chiederanno cosa l’ha fatto arrabbiare. Ah! Imbecilli. Ma non hanno capito che (illeggibile.)……………………….??!?!? Rimarrà un segreto tra noi due, suppongo.


L’ossigeno è come semi di mondi nuovi che s’impiantano nella mia gola, mondi neri, che mi stanno facendo vedere isole nere, nuove isole, inaspettate…. Che c’è, non parlo da scienziato? Ho perso completamente il cervello? Senza romanticismo, voi altri. Mi ha cambiato, dio-primate mi ha cambiato. E lo sta facendo ancora, calpestandomi mentre mi contorco a terra e consumo le ultime forze per scrivere questi miei appunti che non saranno utili a nessuno. Gli unguenti vaporizzati per sterilizzare le pareti, reagendo subito all’ingresso dell’atmosfera esterna hanno dato alte fiammate, fiammate bellissime che hanno raggiunto il soffitto, proprio quando l’ossigeno è penetrato attraverso le fessure praticate dai suoi pugni e calci, la sua meravigliosa furia. Vedeste come mi sta prendendo a calci ancora adesso! Io gli ero accanto in ogni momento: la sua esplosione, la sua calma subito dopo perché non gliene frega niente dell’ordine, e il divertimento che ha adesso, come un bimbo, vedendo che mi scompongo, che si spacca il mio cranio! Quella roba che cola credo sia il mio cervello. Pazienza. Tanto una cosa ho capito, standogli accanto: l’ho sempre usato male quell’organo. Esiste per essere usato male: lui ne è l’esempio: sarà il cancro perfetto, il migliore tra tutte le intelligenze che abbiamo mai prodotto!


(illeggibile.)

Schiumano i condotti d’aerazione. Quell’acido mi ha raggiunto la parte inferiore del corpo, rendendola insensibile, e arranco, ai suoi piedi, sotto lo sguardo del suo disinteresse. Sto soffocando. La morte entra qua dentro, in questo mondo. E mi entra nei polmoni, in isole nere. Mentre la mia mano continua a scrivere, incontenibile.

All’improvviso mi ruota. Mi mette a pancia all’insù. Perché l’ha fatto? Giurerei che si preoccupava per me. Ma ecco che la tremenda luce bianca del lampadario si accende! Sono venuti a neutralizzarlo, bastardi, e bastardo lui che lo sapeva. Voleva spararmi in faccia quella luce. Lo sapeva, giuro che lo sapeva. Certe volte sembra che sa tutto. Usando male quel dannato cervello. Voleva aiutarmi e torturarmi insieme. È mai possibile? Proprio un pervertito. Guardone di ciò che mi succede alla sua mercè.

Spero che non lo trattino male. Non male quanto li tratterebbe lui a parti invertite. Gli assomiglio. Volevo solo giocare.

Giocare: ha messo dei vermi accartocciati nella sua testa che pensano in alveare appiccicaticcio, perché è progettato per essere un ladro scaltro e concavo che ruba da tutte le forme per completarsi. E come in uno specchio, o un'immagine riflessa nello stagno dove si abbevera, sono diventato come lui -no, ho capito di esser sempre stato come lui, e nessuno fa eccezione in questo posto, che sarà la tomba mia e dei suoi stessi presunti alti propositi. Sì, larve nella testa, esistono per il gioco: ingurgitano segnali sensoriali ed espellono modelli. Mi perdonerete se dico così. Mi perdonerete il modo in cui il mio linguaggio e la mia considerazione della conoscenza scadono nella corporalità più abietta -altro frutto della sua influenza, e unico motivo per il quale sto ancor riuscendo, tra spasmi di dolore e schiacciato a terra, a scrivere tanto a lungo: il suo esserci, fisico e puzzolente, mi ha insegnato qualcosa che assomiglia alla testardaggine, alla vendetta, a (illeggibile)...... Ma le care larve conficcate in noi non vogliono altro che (illeggibile), e comprensibilmente, e vorrei sapeste quanto annaspano là al buio nell'anaerobicità del cranio, bramando, assetatissime, modelli, sistemi, "le idee"; ogni nostro respiro ci definisce, spaventati, vogliamo ritornare, chi all'incubatrice chi al grembo con le loro perfette simmetrie, regole di un gioco: riprendiamo una partita finita troppo presto.

Spero venga trattato bene. Basta non prendersi sul serio per riuscirci. Basta cioè odiare se stessi e il mondo, ed è la cosa più facile.

Non abbiamo fatto che giocare con queste intelligenze. Passo e chiudo. Ah, ma un’ultima cosa voglio proprio dirla, prima di schiattare, prima che questo inferno di incendi e acidi e gas irrespirabili mi ghermisca e trascini dove noi tutti meritiamo:

(illeggibile.)


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