collezionista
- Milky
- 25 giu 2023
- Tempo di lettura: 21 min
Aggiornamento: 26 giu 2023
La figura intagliata nel nucleo del mio incubo mostra un accenno di lingua e labbra all’interno del suo innominabile ammasso poligonale. In quell’istante mi sembra compiere il gesto microscopico e inosservato di una zanzara che pregusti la puntura. In trepidante attesa della mia risposta. Procacciatore di interazioni.
-lei si lamenta molto, non è vero?
Alla fine è lui a cedere, chiedendo per primo, facendomi pentire perfino della mia preziosa titubanza e delle sue conseguenze. Esito sfavorevole sia che taccia sia che parli -sanno su quali tasti premere. Del resto è dalle mie meningi che venite. O forse è questo che mi piacerebbe credere. Mi piace consolarmi con l’irrealtà delle realtà che in incubo mi propinate.
-non mi sono lamentato.-, rispondo, futile, io, dalla sedia che come unica consolazione sa cigolare, gironzolare, in un pattern periodico e sempre uguale che temporaneamente soddisfa la mia mania di intagliare geometrie e piccoli mandala nell’esistente, con gli occhi o con le dita, e in questo caso con le ruote della sedia girevole; cerco di sprofondarci, a una profondità abbastanza significativa da sentire attutita qualunque cosa venga detta da me o da altri in superficie.
-non si è lamentato? Eppure sta qua davanti a me.
-..questo… non ha molto senso…
-mh. Nemmeno lei crede in quello che ha detto.
C’è da dire che sono piuttosto stufo degli interrogatori di qualsiasi tipo, e lui deve saperlo, forse con una consapevolezza più nitida, più selvaggia della mia. Ma ho delle risorse, sì, ho delle fughe, per cavarmela. Giro la mia sagoma -non dico “corpo”, dico “avatar”, in questo mio abisso in hd- e lo sguardo attorno a questo ufficio. Quasi a dileggiarmi, stanno appesi alle pareti adiacenti ai pannelli separatori tra le postazioni di lavoro numerosi poster delle cose che ho assimilato in questi giorni, letture, ascolti, pubblicità subite, ronzii del mondo giunti alle mie orecchie malgrado gli sforzi di otturazione. Sono infastidito: tanto per cominciare, perché dovrebbero avere dei poster?, e perché in un luogo del genere dovrebbero esserci dei poster diversi da qualcosa che non sia una frase motivazionale ridicola o un odore posticcio intrappolato in carta prodotta direttamente nelle fornaci più inabissate di Hollywood? I miei pregiudizi si fanno artigli dentro i miei occhi squamati, mentre continuo a seguire i movimenti dei paraggi. Piccole fibrillazioni nelle luci tubolari tormentanti, spostamenti di segmenti nelle tabelle di excel che si scontornano dal bianco abbacinante e sintetico di ciascuno schermo, e soprattutto, tra quei pannelli di compensato e cartapesta, i passi di quelle creature appartenenti alla stessa specie dell’addetto alle risorse umane che mi sta interrogando: vedo i loro poligoni bluneri viaggiare senza mai allontanarsi troppo dall’orbita di quello che dev’essere il loro “sé”, una specie di rettangolo verticale centrale; perché possano compiere delle azioni, incorporee parti anatomiche si srotolano di tanto in tanto dalla massa di geometrie del loro essere, che è lo scorcio estrapolato da un centro città senz’alberi e senza un filo d’erba, fitto di bastioni che grattano il cielo e nella notte fanno scendere dalle altitudini una pioggerellina di lumi fiochi, tutti allineati come tanti occhietti quasi a far credere che perfino nell’intransigenza degli austeri palazzoni neo-razionalisti esistano delle gocce di vita nascosta. E che quella vita si manifesti in cellule e flora batterica di microscopici e insignificanti omini, tutti indaffarati nei corridoi e in competizione e intenti a figliare e comprare dimore e mezzi e abbonamenti mensili al solo inconsapevole scopo di sorreggere la titanica struttura esterna, l’esoscheletro di cemento, i grattacieli di uffici che penetrano la notte priva di stelle come una poltiglia inerme.
Quel centro urbano antropomorfo mi siede davanti e manda un sospiro che vuole apparire pieno di esperienza e acquisita saggezza, vuole convincermi d’ogni mio errore inducendomi ad accettare la mia irrimediabile risibilità, “stacce”. Da una sua mano di spigoli roteanti sgusciano poi delle dita per impartire un comando alla stampante, bella, color crema, efficiente produttrice e consumatrice -con un rantolo elettrico pregno d’orgasmo fa ronzare nell’aria profumata di deodoranti e arbre magique il piacere che trae dal risucchiare l’elettricità dell’impianto, equivalente per il suo organismo a uno spaparanzo netflixiano tardoserale dopo un notevole sforzo. Ma tutto ha un prezzo: tra i gemiti deve partorire un foglio stampato, il dossier che l’addetto vuole mostrarmi -vuole sempre mostrarmi o dimostrarmi qualcosa. Sono elencati in eleganti colonne, e all’interno di categorie che scimmiottano un curriculum apposta per darmi i nervi, tutti gli elementi che permettono a “loro”, pur nel mio silenzio, di individuare innumerevoli esempi di lamentela nel mio comportamento.
-vede, ciò che lei non capisce e non accetta della nostra way of life- mi dice mentre leggo cercando di concentrarmi sul mio imperituro disinteresse -è che noi non siamo estranei alle sottigliezze. Alle sfumature. Ci ritrae, nei suoi sogni masturbatori, come insensibili masse di marchingegno, incapaci di individuare le cose che non si vedono con l’occhio, come direbbe un tipo come lei.
Leggo sul foglio che a loro modo di vedere le mie ripetute indecisioni nel corso della vita, la mia passata ritrosia nei confronti di una scelta alla quale mi sto riavvicinando adesso in mancanza di alternative, le mie ridicole velleità artistiche concluse in sequele di ininfluenti tonfi in acque limacciose le cui increspature si sono da tempo esaurite -tutto questo e molto altro è considerato di per sé indice del fatto che il soggetto (non sto adesso a ripetere chi) sia da considerarsi un inconcludente e, in quanto tale, un lamentoso: perché quello è il mondo diviso in chi conclude e in chi si lamenta. Non piacciono le vie di mezzo, ogni ragionamento contestuale è artificioso sofismo; in basso a destra la ditta produttrice della stampante fa campeggiare il suo logo come un orgoglioso stendardo genealogico, “noisiamogentechedicelecosecomestannopuntoebastaSpa”. Magnifico grifone bicefalo su fondo dorato.
-cosa ci vede di male, lei, per esempio, in una bella casa, in corridoi esteticamente migliorati da tappeto, soprammobili, arti figurative, roba tutta pagata col suo lavoro? Glielo spiego io: niente. Nemmeno lei ci vede niente di male. Lei pone una differenza di quantità, non di qualità, lei è insomma un’ipocrita. Disprezza l’esagerato edonista con il suo garage pieno di giocattoloni inquinanti e la piscina del suo giardino ricavata da un innocente stagno delle rane, ma… è diverso, lei?
Ma porca puttana sì che lo sono, dovrei urlare così a questo punto, dovrei esprimere tutto lo sdegno mio e di tutte le vittime di questa solita retorica manipolatrice, logica per finta, ossessionata di apparire ovunque come una strega influencer non invitata alla festa. Dovrei vomitare il liquame nero dell’ira, deteriorata nella clausura di viscere in cui l’ho costretta. Ma rimango in ascolto, sapendo già tutto ciò che dirà. Ah, già, del resto siamo io e il mio inconscio a scrivergli a quattro mani le battute.
-lei non è diverso, perché non è disposto a rinunciare a qualcosa che ha la stessa essenza, in minore quantità. Lei è uno di noi dal momento in cui acquista, in cui cioè reitera la sua sopravvivenza e quel qualcosa di superfluo in più: non importa quanto minimalista si mantenga, lei è dentro, lei ci è dentro ormaaaaiiiiii spuuutaaaa seeeempreee nel piaattoooo in cui maaaangiaaaaa.-, dice squagliandosi, eiaculandosi addosso per la sua stessa arguzia, e non sto qui a descrivere la consistenza delle polluzioni di una creatura del genere, non sto a descrivere il fluido che germina della più intensa gioia primordiale che una metropoli, macrorganismo di depravazione e cablaggio, è capace di provare.
Tira fuori da sotto la scrivania una fulgida e liscissima action figure, già spolverata e cosparsa di prodotto lucidante: hanno captato da una qualche mia conversazione che è “l’unica che desidererei per me qualora riuscissi in futuro ad avere un lavoro”, l’unico frammento di colorata estetica dispensatrice di dopamina da collocare su uno dei miei spazi quotidiani, in nome dello sforzo di trascinare l’immaginario nelle brutte e logoranti carni del mondo reale. Aaaah, mio caro fratello, penso tra me e me: tu sottovaluti l’entità del mio superpotere di dimenticare gradualmente le cose che ho attorno, e di odiare, in certi giorni di sublime disperazione, il loro essere oggetti, e di odiare tutti gli oggetti, di odiare tutto quanto mi attornia e galleggia in quella gelatina di paradosso dell’immutabilità-e-continuo-cambiamento che in egual misura mi torturano; ignori questa disposizione per te inconcepibile, tale da far sì che i feticci abbiano scarsa presa su di me. Se riesco a mantenere la concentrazione. Impresa generazionale. Ma ci proverò.
Non ha ancora finito. Evidentemente.
-e inoltre lei ignora che c’è bellezza e astrazione e filosofia anche nel denaro, nella ricchezza che è un calcolo numerico, che è di per sé un ragionamento astratto che secondo i suoi parametri potrebbe perfino essere definito “spirituale”, ma che lei rifiuta di riconoscere come tale perché ha deciso che noi siamo privi di…..
Mentre prosegue nel suo copione che a questo punto posso anche ignorare, osservo le sue mani poligonali farsi sempre più brulicanti di dita e striature del palmo mentre tira fuori una a una da sotto la scrivania le cose che, nella sua visione olistica e semplificante del valore del singolo, ritiene essere i migliori supporti all’ipnosi -le cose insomma alle quali potrei piegarmi, stessa categoria e marchio stampato nella plastica dell’action figure. Quindi tira fuori un succo di frutta bio in cartone riciclabile e un tofu profumato alle erbe. Punto per me, penso vittorioso: posso stare giorni senza bere e mangiare proteine e nutrienti in eccesso. Mentre lo penso agguanto il cartone e comincio a suggere dalla cannuccia. Poi estrae un abbonamento a un’associazione ecologista virtuale che pianta alberi, di cui un giorno ho annotato il nome negli appunti del telefono con la stessa idea di “un giorno, qualora avessi un lavoro” -un fatto, questo, prontamente registrato dai ricettori deputati. Il logo dell’associazione è verde, tondeggiante design frutto di grande intelligenza e studio, è un altro stendardo, un’araldica di grifoni trasformati in pini silvestri che induce l’osservatore a volerne accarezzare i pixel, a voler vedere le forme scomporsi in mille bolle rimbalzanti con suoni che danno soddisfazione, pop pop pop. Poi estrae un librone, una fantastica e splendente copia del Libro Rosso di Jung: i serpenti del mito ancestrale sono stampati a colori vividi sulla carta, la materia del sogno è cristallizzata nel colore intracorporeo della rilegatura, lo spirito è cristallizzato in sostanza tangibile: lo spirito adesso ha un prezzo, una casa editrice, una serie di altri titoli curati dalla stessa ed elencati in una delle ultime pagine. Infine, estrae una fotografia: è un collage che progettai di realizzare. Mai realizzato.
Mi vede sussultare e tremula godereccio nei blocchi che lo compongono. E io mi ricompongo prontamente. Ignoro la mia reazione sperando che specularmente quello faccia lo stesso. Ma ho perso contro di lui. Si ritiene in grado di leggere le sottigliezze e sono sottigliezze diverse da quelle che colgo io: non posso essere certo di quale, tra le mie reazioni, abbia trasmesso ai suoi occhi la mia sconfitta.
Parliamo lingue diverse. Vuole che parliamo la stessa lingua, che ci riconosciamo parte di una stessa famiglia; ma non lo fa affatto in nome di ideali egalitari; io non voglio che parliamo la stessa lingua; ma se non lo voglio, è in nome di ideali egalitari. Il paradosso crea vertigine in quell’ufficio dove, lo sento sempre più, l’aria condizionata genera turbini che stanno infilzandomi la pelle: dai condotti si dipanano liane di rampicanti gassosi irrorati di innaturale refrigerio, s'infiltrano nelle vene. Il paradosso a cui invece mi sono subito abituato è quello di vedere agglomerati di uffici, senzienti e mobili, che lavorano in un grosso ufficio. Che sta forse dentro un ufficio ancora più grande. Giro indifferente lo sguardo e cerco l’indifferenza di Mersault in uno dei poster delle cose introiettate, perché ho letto Lo Straniero e fatto il tifo per la sua invidiabile imperturbabilità. Continuo allora a girare con la sedia. Torno sulle cose che mi sono state propinate. Accartoccio il succo di frutta con gesto compulsivo: in un attimo sto impugnando immondizia dalla quale non è più possibile estrarre una sola goccia di principi nutritivi.
Nella fotografia c’è un’illustrazione per un racconto che non ho mai scritto. C’è la parete di un rudere precolombiano in cui divinità teriomorfe spiccano da riquadri a bassorilievo. E io, nel mio collage ipotetico, ho sovrapposto a ciascuna icona divina la fotografia, i tratti essenziali o i volti confusi di persone casualmente comparse nella mia vita, più o meno vicine o distanti. In quel mio tempio dedicato ai loro spiriti animali, le loro theme song, i loro colori fondamentali, i loro elementi e principi vitali -in questa mia inesprimibile devozione privata avrei voluto far fluire il senso di assurdità che mi travolge quando penso che così tanti spettri hanno attraversato la mia percezione continuata nel tempo, impigliandosi nei miei ricordi, e sparendo, o sparendo io dalle loro vite, e in alcune ci sono ancora, pericolante sull’instabile filamento che separa il presente dal momento del mio errore, della ferita inferta o subita, della fuga e ritirata, oppure dell’indolore retrocessione nell’ “è andata così”, mentre la collezione di spettri si amplia, e si ampliano tutte le altre mie collezioni trascinate mentre arranco nei bivi dell’esistenza schivando gli scontri con cose animate e inanimate e il ProduciConsumaCrepa.
Libri e fumetti. Canzoni. Animali. Informazioni. Presenze. Assenze.
-lei è uno dei nostri! Lei è un collezionista.
Sgomento, letto nel pensiero, punto nel nervo fobico, mi alzo in piedi, mantenendo un piede su uno dei piedi a raggiera della sedia, per continuare a farlo girare, roteando la sua rotella. Mi dà inconscia soddisfazione sensoria, ha in questo momento il ruolo di quella parte del corpo mai ferma in ogni momento della vita anche mentre tutto il resto è in quiete e in immobilità.
-e soprattutto- s’alza in piedi anche lui e sorride beffardo, notando il mio movimento -lei è nervoso, lei è diagnosticabile, lei e le sue manie di trovare forme e pattern in giro, e di stuzzicarsi i capelli o le dita o quant’altro, cosa crede, che ci sfuggano queste cose? Noi siamo in grado di regalarle dei pop-up altamente specializzati, sintetizzati a partire dalle miniere di informazioni contenute in ciascuna di queste cose. Lo sa che abbiamo eccellenti analisti in azienda? A dire il vero tutti gli analisti appartengono alla nostra azienda…
Ci stringiamo la mano, lui professionalmente e in suggello del nostro prossimo colloquio, io educatamente, credo, per non inimicarmelo ulteriormente, sebbene in fondo non mi addolorerebbe averlo nemico, giacché non mi è simpatico; ma non devo inimicarmelo, a prescindere da tutto: imperativo istintuale. Chissà poi perché. Per me può pure andare a morire ammazz…
-allora, che ne dice? Una bella diagnosi per lei. Le piacciono gli spettri, no? E allora che ne dice di diventare parte di uno “spettro” che contiene questi fantastici disturbi del comportamento o dello sviluppo cognitivo, in omaggio per lei? Ne trarrà molti vantaggi. Non ha idea di quanto preziosa sia, di questi tempi, un’appartenenza categoriale…
Dopo aver gustato il suo gioco di parole, giovialmente mi accompagna all’uscita e intanto mi mostra un catalogo di termini medici che scorrono in multicolore fosforescenza sullo schermo sgargiante di un tablet, ipnotizzandomi con i loro loghi stupendi. Uno di questi mostra dei pinguini tratteggiati a china che nuotano e scivolano tra le lettere teutoniche disposte a comporre il nome di una diagnosi. Sanno come accattivare. Basta un’istante di attenzione rapita. Quegli istanti si dilatano, per colpa mia o per loro opera perché sono capaci di dilatare tutto. Ma non ha importanza.
Germania e pinguini, eh. Saltarocce e Humboldt nidificanti sulle coste sassose del Neddersassen, le schiene di piume che guizzano nel mare grigio, argentante e burrascoso d’inconscio, di angst e dasein -terra di pensiero e penombra e tenebra intrapsichica, adatta a uccelli che vivono e muoiono nelle onde. Sto sprofondando nell’immagine. Vedo appena in tempo riflesso sullo schermo il mio volto da falena che si protende quasi a toccare. Ma sì. Forse non sarebbe così male, in fondo, accettare le sue gentili offerte, e sfiorare questo schermo dove…..
Mi fermo in tempo: leggero allarme di nausea: vedo gli edifici del suo volto sorridere. Quando lo fa, balena nei paraggi un’illuminazione petrolchimica che rigurgita un aberrante tentativo di atmosfera soffusa tra i riquadri cementiferi della piazza di un quartiere finanziario. Vedo che tutto il personale dell’ufficio, fluttuante tra i pannelli con scartoffie e cartelline strette al petto, si è voltato sfoderando la stessa smorfia verso di me, fermo sull’uscio. La mia testa era nel mare del nord. Ma l’avatar del mio corpo (sì, avatara, scoperto dai sanscritisti germanofoni) era ancora in quell’ufficio, circondato da uffici, circondato da scorci di metropoli, che mi guardavano tutti, chi seduto chi in piedi chi a fotocopiare la prossima pagina nel grande-libro-del-funzionamento-generale, e rivolgevano a me, visitatore temporaneo gradito e sgradito in egual percentuale, un’espressione del “volto”, una “comunicazione”. Parola che amano. Amano incriminarne la mancanza a chi non collabora.
(Immergersi nel mare; pesca subacquea, polmoni aviani negli abissi; fondale sassoso chiamato seele. Palazzoni; finestre illuminate come ferite nel cemento; aria soffocante; soffocamento che dà assuefazione, ti ci abitui a forza di passeggiarci dentro, a forza di immersione. Mi stanno ancora guardando. Pezzi di metropoli.)
Arrivederci, arrivederci, arrivederci, al nostro prossimo colloquio.
Dal polpastrello che ha sfiorato il touch screen del tablet si propaga attraverso le membra del mio avatar un’emicrania avvampante, concentrata in ogni singola cellula, ogni singola unità minima che in me conduce un’esistenza ignara dell'abituale percezione unitaria e solipsistica di me stesso. Quando la vampa mi raggiunge il petto, vedo la mia cassa toracica trasformarsi in un poligono, emettendo un gutturale sussulto come un groppo nella gola di Bugs Bunny, trickster del ventesimo secolo. Ma ho un brivido e subito scompare, ritorna lo stesso avatar di torace di sempre.
La radiazione lacerante dell’impianto elettrico estrae forzosamente la mia ombra da sotto e dietro me, un alone che appare randagio nell’ambiente rischiarato in modo lancinante, biancogiallo di pura fede nel vuoto, nell’efficienza priva di germi. L’ombra che proietto mi si riempie di formicolii. Comincia a risalirmi le caviglie, strisciando. Comincia a formare un esoscheletro nuovo in uno strato superiore al muro che pongo tra me e il mondo, comincia a risalire poco a poco, facendomi temere che quando tornerò a casa, in una dimora o un rifugio o chissà dove, sarò ricoperto da testa a piedi di quest’ombra parassitaria, che sostituirà il mio sguardo, il mio udito, il mio respiro.
Ripenso alla fotografia che mi ha mostrato e a quello che ha detto.
Il mio uomo mi batte sulla spalla una mano simile al parcheggio sotterraneo di un quartiere residenziale.
-amico mio, lei è un collezionista, lei è nervoso, lei è diagnosticabile. Ma più d’ogni altra cosa, lei è solo. Perché non smette di essere solo?
Prima di congedarmi, mi porge con una mano ora quasi perfettamente umana -o più umana dell’umano, un surplus disegnato da una IA- una specie di biglietto da visita, con il nome dell’azienda madre, comprensiva di tutte le altre aziende, zaibatsu del meccanismo generale collaudato: noiabbiamoimparatoacomunicareefficacementeconilprossimoeariconoscerecheildesiderioel’egosonocosefondamentalichechiunquedovrebbeostentareefardanzarecomefuocosottoiriflettoridellametropoliSpa&associati.
Ovviamente ho un gran mal di testa.
…
Il tram attraversa Roma, strade che non ricorderò, perché mi attraversano passando per una scorciatoia dentro me, un corridoio totalmente vuoto che serpeggia attorno ad alcuni miei organi e altri contenuti. Sono stanco e pieno di parole udite -o che forse ho immaginato di udire, torturandomi da solo senza ragionevole motivo-, e ogni particella del mio comportamento sembra in questo momento qualcosa che potrebbe assennatamente venirmi incriminata: non ricordi le strade e le vie e i punti di riferimento nell’ambiente perché non hai allenato la volontà, perché i tuoi neuroni li immergi in un magma di pigrizia che l’intellettualismo camuffa da acume, perché non sei capace di amare, e soprattutto perché…………….………………………………………………..
Bagliori serotini impigliati tra i rami sporgenti dei pini, sentinelle dei marciapiedi. Tra edifici, panni stesi. Musi di condizionatori. Alternati da fogliame e semafori. Elettricità che crepita in scosse bluastre tra i ragneschi intrichi dei fili tranviari. Un concitato schiamazzare corale giunge attutito da finestrini e angoli, fioco con la stessa crescente placidità della sera, lenendo perfino la cacofonia urbana. E mentre ripenso a ciò che ho sentito (sono un collezionista, e sono solo di una solitudine scelta), i sedili attorno a me si riempiono di scolari elementari giapponesi, che sotto i loro cappelli chiacchierano animatamente di kabutomushi e altri affascinanti coleotteri raccolti in una gita nelle campagne degli acquedotti antichi che precedono l’arrivo del treno da sud a Termini. Lascio che questo momento mi attraversi, come uno spettro, e venga collezionato. Poi spengo ogni ricezione.
Si fa il buio in uno spazio tra me e le cose.
Passato un tempo indefinibile, apro uno schermo. Così una luce finta illumina appena quel buio. Rivedo riflessi gli stessi occhi da falena che ho avuto prima. Elenco all’interno dello schermo i volti, i nomi, alcuni dei fantasmi che ho incontrato, trasformati in rubrica. Costretti a subire il mio sguardo. A propagarsi nell’elettricità che ingravida il mio telefono, scorrendo assieme a In My Life e Karma Police, a ricevere i miei tocchi che selezionano le chat. Tessere della mia solitudine scelta. A ciascuna delle loro icone e zoomorfie scrivo un immaginario messaggio che non esisterà mai. Anch’io procacciatore di interazioni. Fittizie e perfette. Immagino contatti che nella realtà non prendono forma. Avatara di contatti.
Sugli screenshot immaginari che vado così creando passo i polpastrelli in cerca di mandala impressi sulla pellicola protettiva, le sue bolle d'aria imprigionate. Incontri tra varie solitudini parlano in automatico, i dialoghi si scrivono da soli nelle orecchie e prendono vita fittizia.
Conversazioni immaginate che hanno preso forma spontaneamente, con questo o quello spettro. Sono in ascolto.
・
Chiedo a lui, che chiameremo (/), dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che questa è solo una chiacchierata da seduti su un muricciolo, l’ora degli appartamenti sonnecchianti, e un singolo insetto estivo sopravvive e trilla nelle erbacce annaspanti tra le tegole, dico che non deve preoccuparsi perché la chiacchierata passerà indolore come un alone di pioggia scura che intride l’asfalto disegnando effimere forme di continenti per poi sparire per sempre, assorbita, dimenticata.
Lo vedo, com’era anni fa, con la proboscide a spostare tronchi, a modificare l’ambiente. Savana e palude confinanti della periferia. Nel giardino di casa sua mi viene incontro e colloca massi e tronchi davanti alla veranda, si siede. Viaggia tra noi il momento dell’ascolto e vedo fluttuare la sua immagine residua, la descrivo: barrisce in una vallata, è una montagna vivente. Lui dice: fico.
Lo vedo, com’è adesso, la sua proboscide stipendiata serpeggia tra gli scaffali, collocando, prelevando, compartimentalizzando. Ascolto, riferisce di frustate e giochi di prestigio che patisce in quel circo, riferisce di cani da guardia che gli latrano caos nelle grandi orecchie, stordendolo. Gli ripeto ciò che dicevo tra me e me, tornando dal cimitero nella nostra città: all that you suffer is all that you are. Si ode l’eco di un sitar.
Annuisce. E il suo sguardo, e la pelle grigia e bruna che è argilla compattata nel suolo arroventato dal giorno, diventano rivoli. Ondine nelle vesti di un buddha ellenistico strisciano verso il fondo del mandala che ci incastona. Liane strisciano ovunque, congiungendo i raggi del cielo e le dita della terra, e impigliati cerchiamo di districarci, in cerca di bulbi di luce che potrebbero essere caduti nella stessa rete della nostra soccombenza.
Rassegnazione e mansuetudine nei globi neri degli occhi, uova da cui sgusceranno avori sacri. Questo il suo volto che cerca, senza riuscirci, di cancellare ciò che ha saputo.
・
Chiedo a lei, che chiameremo (<.>), dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che questa è solo un fugace baluginio di ammirazione nei miei occhi, per lei imbarazzante, mentre seduti al tavolo di un bar ascolto i suoi trascorsi con il sacrificio e l’aggressione e le tribolazioni della creazione artistica e le tribolazioni della sopravvivenza e dell’appartamento e delle piante da curare perché quando sei assente non c’è nessuno che lo sa fare come lo sai fare tu quando sei solo nel mondo densamente popolato, come tutti, come gli esseri senzienti che, frangendosi in ombre del traffico e della fiumana che attraversa la grande strada in centro, popolano gli angoli abitati del cosmo.
-allora, quand’è che mi vieni a trovare?-, chiedono i suoi occhi arancioni sbirciando dalla sua silhouette che scivola inudibile sulle gelide correnti ascensionali, infine posandosi sul terreno della tundra. Allude al suo nido nordico, ai miei passati soggiorni, i bastioni della città che mi rimpicciolivano guardandomi dall’alta foschia del cielo di smog, i musei che abbiamo visto, avanguardie novecentesche infilzate nel mio cervello assieme ai pensieri fissi, innaffiandomi una saporita inquietudine. Do una risposta vaga e piombo nel silenzio.
Emergo momentaneamente dalla chat fittizia: muri bruni e verdi e gialli, alla stazione c’è un bel sole come in altri posti, vedo scorrere davanti a me ancora una volta i muriccioli e le cortecce romane che solo in questo momento della giornata non mi aggrediscono, scaglie del mosaico del tramonto, e nelle loro zone più remote disperatamente cerco tessere di un futuro prossimo o distante che il mio terzo occhio e la mia lingua biforcuta non riescono più a visualizzare da tempo immemore.
・
Chiedo a lei, che chiameremo .§., dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che stiamo semplicemente perdendo tempo da Tiger e rendendoci ridicoli in prodezze con i fidget spinner sugli scaffali, tutti immersi in una forma di concentrazione assolutamente inutile, che ci rende simili. Le ex direbbero commosse: non era poi così male.
Seduti a una panchina, cerco di intuire nei riflessi catturati dalla sua lana se per caso ricorda quelle cose imbarazzanti che ho fatto quando c’erano le ex. Poco dopo mi fa una domanda simile -vergogna nelle azioni e in ogni cosa- e dico che non deve sentirsi in imbarazzo con me. Ah, ok, diciamo entrambi, conoscendo la generica ininfluenza che le parole hanno all’interno dei nostri crani, attraversati come una stazione in un nonluogo tra i tanti della tratta regionale. Mi chiede come vanno le cose nella città in cui probabilmente e auspicabilmente non tornerà più. Scrollo le spalle. Senza dire altro guardiamo il giardino e la fontana. Protende il collo lungo e morbido per avvistare le minacce che possono sopraggiungere dall’orizzonte della pampa. Mi rannicchio nelle spire affinché il numero di minacce possibili, il numero delle cose visibili, si riduca a una sola: la mia pelle che fa barriera davanti a me. Intanto lei mi siede ancora accanto, tentando di riposare, lasciando che i secondi rotolino nella quiete, nell’odore di pioggia imminente.
・
Chiedo a lei, che chiameremo ‘’’, dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che questa è solo una debolezza che mi è sfuggita da sotto il guscio mentre eravamo in fila alle macchinette che mostrano l’oroscopo sul display, tranne quello del segno che condividiamo, difetto di fabbrica del distributore e delle stelle che ci hanno assegnato un pragmatismo che non ci appartiene.
Un suo sorriso di comprensione trapassa la chat e lo riconosco nella sua appartenenza agli altri recapitati in altri luoghi, in una piazza di sole annebbiante, tra foreste di sedie in un corridoio di facoltà, sempre vuole volare leggero senza causare commozioni, senza ribaltare tronchi o jeep da safari parcheggiate con urti di corni o zampe di pietra capaci di livellare il paesaggio in un unico cantiere di terra sviscerata: le sue ali sono di un elemento opposto a quella terra. E lo riconosco in questa sua appartenenza. E riconosco, ad annidarsi nelle microscopiche pieghe attorno agli occhi viste prima che fossi io a distogliere lo sguardo, un’immensa e seminascosta capacità di dispiacersi; la riconosco che s’annida poi sotto ciascuno dei denti che gli eoni dell’evoluzione hanno tentato di cancellare, riducendoli a un’unicità di becco.
I see something of myself in everyone, just at this moment of the world.
Mentre attendo i suoi pensieri e che proceda, un po’ goffo ma partecipe, il nostro tipico scambio, cancello con la mente il suo avatar: da nebbie di pixel emerge il suo implicito profilo incastonato in un tondo: vedo le sue ali che si spalancano ampie dal terreno, formando un ventaglio di piume in codice binario tra i giunchi, vedo la sua maestosa apertura alare quasi accasciata alla palude, e poi su una radura di montagna, le sue zampe che finalmente sono scese a riposarsi su una terraferma di cervi e immortali taoisti.
・
Chiedo a lui, che chiameremo [#^], dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che sono veramente desolato, ma è l’unica persona con una competenza in materia alla quale possa chiedere.
Dalle baite e i comignoli che dal versante opposto della montagna mandano fumi in lenta risalita verso le aurore boreali provengono ululati e sentori speziati. Qualcuno laggiù prepara una zuppa calda. Profumo imprigionato in una luce riverberante di legno e plaid e sussurri. Lui muove a intermittenza le orecchie a forma d’abete, cunei che rilevano le armonie negli infra e ultrasuoni, nella sera polare.
Nothing melts in this cold.
Mi dice che il motivo per cui sceglie di fare quello che fa è proprio quello che mi aspetto. Annuisco, tremo, non abituato a questo clima. Disegno con gli occhi nel suolo accanto a una specie di igloo le striature lasciate da una slitta, e le impronte lasciate dalle zampe di lui, quattro polpastrelli. Allora faccio la domanda che la nostra interazione periodica e scandita vede sempre emergere da questa coltre di neve: come si sta trovando con gli studi, qual è la sua resistenza fisica, se là sotto le remote luci prospicienti l’artico riesce davvero a dimenticare lo scioglimento delle coste del suo rifugio accademico. A quel punto il fischio tremendo della bora che sferza i cristalli matematicamente perfetti del ghiaccio in quell’indistinto confine tra il giorno e la notte copre la sua risposta, la rende brusio funesto nelle mie orecchie sorde a tutto ciò che non sia ipnosi e meditazione in un sonno dentro una cesta calda.
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Chiedo a lui, che chiameremo [%''], dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che per sua sfortuna è uno di quelli che sa troppe cose e per questo ci scambiamo le carte collezionabili della nostra fragilità reciprocamente nota, la vediamo attraversare il collegamento wireless del ds ed evolversi dopo aver raggiunto l’altrui doppioschermo.
Il fruscio delle sue piume imprigiona l’afrore di polvere e ossa dell’altipiano arido, la fragranza dei ramoscelli spinosi che annaspano tra le sue rocce bollenti, uova da proteggere. Davanti allo schermo del parabrezza vediamo precipitare nel tunnel di tempo e pini marittimi allineati la Pontina che, gettata dal raccordo, conduce alla fine del pomeriggio, per rinfrescarci, darci un balsamo, una tregua dell’acqua in riva a uno stagno in un Libro della Giungla e di Tutto Quanto. In My Life è nelle mie cuffie e nel cavo aux della sua macchina, ripercorriamo tutti i boschi di cactus che abbiamo attraversato, tutte le ferite in comune. People and things that went before.
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Chiedo a lei, che chiameremo ,’, dico che è il momento di una scelta, che ancora una volta non so cosa fare e non riesco a far niente, giustifico che sospetto di tutto e tutti, come lei sa.
Il mare e la spiaggia si materializzano intorno a noi, i nostri passi nudi, il mio ventre strisciante, le sue zampe, vengono ferite lievemente da frammenti di conchiglie, frammenti di sezioni auree calcificate, matematiche incomprensibili ai nostri cervelli, noi siamo gli ammassi di cellule e dna reciprocamente più simili in questa dimensione. La risacca porta a riva palette e secchielli, squame di mattine placide e mattine di mare mosso, pomeriggi dai mille occhi accecanti disposti sulle onde della distesa grigioazzurra. Riconosciamo tutti questi relitti, uno a uno, entrambi portando nella fronte diverse ma ugualmente prodigiose forme di memoria. La sua pelliccia fradicia e oleosa e mutaforma gronda goccia a goccia un bagno durato quasi trent’anni, e mi racconta nel dettaglio cosa indossavamo in un giorno d’estate di cui si è persa la data, e negli infiniti altri giorni che come un domino si sfaldano a partire da questo, i frame del nostro film animato, la nostra Disney Home Video senza castelli di principesse, senza altri animali parlanti che noi stessi e tutti gli altri -rispondo io con la memoria del mio bestiario enciclopedico, compilato in continuazione. Lei ricorda i vestiari e gli inventari degli istanti, dei fantasmi che immagino come tali e dei fantasmi che lo sono per davvero, scomparsi dalle nostre e da tutte le altre vite, non si possono cercare nemmeno in una chat immaginaria. Vediamo in lontananza uno sfiatatoio che si leva tra i banchi di schiuma, e prontamente si riimmerge, tra abissi irraggiungibili. O forse è stata solo l’impressione di un guizzo che non c’è stato, una fantasticheria dentro la fantasticheria, che saluta con la coda spiovente e alata, imperlata di gocce.
What the water wants is hurricanes, and sailboats to ride on its back.
Il fragore delle onde diventa white noise e immerge la costa tirrenica dove ci siamo incontrati. Inforchiamo le ciabatte e ritorniamo sulle mattonelle bollenti che conducono al parcheggio dove la sabbia straborda dalla spiaggia, invadendo asfalto e canneti, mischiandosi a coppette gelato nei cui fondi galleggiano atolli di zucchero sciolto, sorpresine abbandonate, incartamenti, vetro, schegge di legno, orme di infradito, macerie.
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Ogni impressione e aura captata in questi dialoghi. Sento che mormorano ancora nella via del ritorno. Schiuma di rumore quasi inudibile, nello sferragliare, nel sotto, nelle cose tutte, pervase da un fruscio.
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