chordata
- Milky
- 10 dic 2021
- Tempo di lettura: 12 min
Con velocità incerta mi ero avviato parallelamente al bordo del cottage, diretto alla riva. Sentivo la voce di una di loro, dai box doccia in legno all’aperto. Odoravano di nuovo, di legno immutabile. Lei si era già fatta il bagno e gridando mi rassicurava, dicendo che l’acqua era ottima. O qualcosa così. Allora io, uscendo dalla casa dove avevo riposato ed ero rimasto un po’ a leggere, avevo intrapreso quella corsetta, subito repressa per non manifestare troppo entusiasmo. Era appena il primo giorno di vacanza dopo l’arrivo. Ero pieno di un misto di terrore e infantile eccitazione, si spargeva sottoforma d’un brivido freddo e umido infilato fin sotto le unghie, accresciuto nelle dita e in altre parti del corpo. Lì si era incubato, aveva germinato nel pulsare del sangue. Somigliava a un raffreddore che comincia a manifestarsi facendo indugiare la sensazione di repentini tocchi ghiacciati da un bagno di rugiada di bosco. Credevo di esser uscito da un intrico dei bassi rami d’aghifoglie che in quei giorni s’erano inzuppati delle fredde piogge della regione.
Presto mi arrestai: la creatura, il mammifero, era già disceso dalla collinetta che conduceva al più raggiungibile ingresso della foresta. Guardai verso il lago: la superficie tremolava placidamente tra contrasti di luce e ombra; brillava una fascia centrale d’acqua bianca laddove s’erano come impressi alle acque gli effetti della lunga esposizione al sole, l’occhio del cielo galleggiante al di sopra dell’occhio della terra (da millenni passavano giornate così senza distogliere lo sguardo). Le onde cullavano i primi bagliori del tramonto. Un molo abbassava il muso lungo dal colore fangoso nelle prime acque oltre la riva, una barchetta era sballottata. Guardandola s’aveva la sensazione del freddo strisciante lungo le sue giunture legnose, lo spiffero traversante aria e acqua che ne sospingeva prua e poppa. Non potevo vedere nessuno. Un rumore di doccia, qualcuno nascosto dalle cabine. Voci lontane e schizzi, a nuoto in una zona nascosta da altre cose -cespugli, recinzione, macchine parcheggiate, confini delle cavità oculari. E nessuno poteva vedermi. Salii verso la collinetta, dando le spalle al cottage. Il mammifero mi chiamava. Non lo distinguevo bene dalla distanza. Rifulgere di pelame rossiccio, fatto di molti fittissimi steli. Un volto rasoterra, con occhi vivi guizzanti di tinte diversamente graduate del nero. Indistinguibili per occhi abituati al giorno, ignoranti della varietà di colori d’abisso. Ma all’improvviso li vidi, li seppi riconoscere. Cominciai ad appartenere al suo mondo, forse. Dal momento in cui avevo deciso di seguirlo e lasciare la vacanza a trascorrere per un po’ senza di me. Certo, è chiaro che, nel silenzio e nell’invisibilità reciproca tra me e i compagni di viaggio, prima di fare qualsiasi altra cosa me ne stetti fermo sul posto a osservarlo per una certa quantità di minuti.
Così reagisco alla comparsa di un animale selvatico, sempre. Sono quei momenti in cui si equivalgono la realtà della carne e l’aspettativa, l’unica unione tra le due di cui si possa godere. Solitamente non vanno d’accordo. Era un esito tipico, come lo era stato anche in quel caso, dalla partenza a tutta la durata del viaggio: in macchina, guardando dai finestrini i boschi che trascorrevano manifestando l’illusione d’un verde immutato e ancestrale, e tutti i passeggeri delle varie macchinate scesi a una radura con gli zaini in spalla e i trolley dietro, ruote fracassone su ghiaia e irregolarità del terreno… in questi casi riempivo i vuoti, degli squarci che automaticamente s’aprono nella mia testa nell’udire conversazioni o nel percepire con forza di cosa reale e contundente l’inganno del trascorrere dei secondi. Li riempio sempre con l’aspettativa, il disegno mentale d’un animale che compare negli scenari visibili o invisibili, qualcosa che possa dare un senso e un’esistenza percepibile ai luoghi attraversati. Mentre intorno a me accadevano cose, si inviavano messaggi, corpi fisici toccavano la terra e si toccavano tra loro, io interagivo con la predizione d’una bestia ventura. Di solito risponde, mosse di fauci o becchi, comunicazione non verbale o di parole enigmatiche e allegoriche, come se venissero da un’idea resa corporea, che io incontro in un’area ombrosa di cui sono il solo a conoscere il portale d’accesso. Per questo, quando infine questa bestia appare, mi immobilizzo, la contemplo, comincio a vivere. Respiro, sono presente, quando finalmente s’equivale la fauna interiore con quella esteriore. Vivendo, il tempo smette di esistere e di esser contato: è un’ansia che trascorre inesorabile solo per quei momenti in cui è inquieto il proprio stare nel mondo. L’animale, composto di favola tanto quanto è indubbiamente composto anche di vita, lo cancella per me. Insomma, lì sospeso sul ciglio del pendio rialzato all’ingresso della foresta, vagamente raggiunto da un lontano scroscio d’acque, voci, starnazzi d’anatre selvatiche, gorgoglii della barca sballottata, in quella nebbia attutita d’impulsi multiformi stetti forse poco, forse tanto, non lo so.
Mi rispose solo uno scintillio di vibrisse, come squarciate da una punta acuminata di penna nell’aria. Il muso che rotea e si protrude, si ritrae, capta -questi elementi componevano il volto. L’animale alzò la testa: mi stava chiamando, per poi voltarsi. Divenne una palla, il posteriore rotondo a montagnola che si faceva largo tra l’erba sempre più alta, e infine s’ammantava del buio della prima ombra, un globo scuro che fendeva il fitto e mi invitava a seguirlo. Una sottile coda a ciuffo cadeva come morta al suolo, priva di comportamenti o comunicazioni intrise nella forma assunta. Un lembo inerte che tracciava una linea, un dito invitante o solo un facile appiglio per lo sguardo, per poter ritrovare, nella foresta, la strada di casa.
Entrai. Sapevo che lo avrei fatto, dal momento in cui mi avevano detto che c’era una foresta tutt’intorno alla casa dove avremmo trascorso la vacanza. Ma c’era chiaramente qualcosa di diverso. Avevo ceduto all’impulso di abbandonare il posto della nostra base, del nostro abitare, prima del previsto. Non stavo però allontanandomi per sempre da quella piccola comunità temporanea. Non provavo nessun disprezzo nei confronti di alcuno. Nemmeno grande affetto, però… perché avevo accettato? Era per dare, darmi una possibilità, oppure era più perché volevo vedere quella casa davanti al lago, circondata da foreste? Non avevo esitato a correre dietro all’unico richiamo proveniente dal mondo che potesse stimolare il mio interesse. Abbassando la testa, mi inoltravo sotto le ragnatele sospese, sotto i rovi, tra i rami sottili che per primi crollavano spezzettandosi verso il suolo, intessendo nell’aria crepitanti venature intrecciate. Dove il tappeto erboso, privo di foglie morte in quella fresca dimora di conifere, s’abbassava su due lati opposti come a creare un solco tra folti capelli, era il segno del passaggio di una guida. Una traccia lasciata, e seguendola, scura anche nell’oscurità incipiente, si vedeva avvantaggiata di molti passi la sagoma rotonda e insieme agile del mammifero arancione. La palla si tuffava alternativamente nei vuoti lasciati tra i tronchi e gli inestricabili tunnel formati naturalmente dalle cose che crescevano impassibili nella quiete d’ogni giorno, sotto le piogge, nel buio perenne temprato dalle alte chiome. Cose innumerevoli, come molte molli appendici avrebbero continuato a spuntare e crescere dal suolo vivo e vigile, pieno d’occhietti notturni e luminescenze di funghi e insetti. Intollerabilmente fertili di vita e germinazione, avrebbero sparso nell’atmosfera immersa nella notte l’impercettibile afrore e rumore sgusciante di quella crescita nascosta, per le miglia della foresta, mentre oltre il confine, in una casa di legno, delle voci e risate si sarebbero levate in un’aria tiepida schermita da pareti ove non penetrava alcun esemplare di quella sconfinata fauna di suoni esterni. Solo un sobbalzo acquoso di barca, un tonfo di pesci o altri tuffi nel lago riuscivano a portare il proprio eco nel cottage, dove sotto luci gialle scattavano mani brandenti carte da gioco, tintinnavano vetri, si mescolavano aliti.
Bagliori fungini, vaga bioluminescenza nel sentiero buio. Dovevo ammettere che era un sollievo essersi persi il gioco di gruppo. La mia camicia si riempiva di macerie vegetali, provenienti da chissà dove. Non c’erano foglie, come ho già detto. Forse residui fatti così, dalla consistenza di carta fragile, si generano automaticamente in un simile ambiente a prescindere dalla vegetazione che vi dimora? In qualsiasi allontanamento da una baita o un rifugio? Le cose lasciate là, oltre il confine, nella scena prossima alla riva: sarebbero scomparse tutte, dalle docce alle increspature lacustri a ciò che stavano facendo dopo cena, una volta finita quella progressione, una volta giunto in chissà quale radura… lì ancora sarei stato coperto di briciole di roba verde e bruna, portata dal vento e impigliata nelle ragnatele, che si attacca su chi le attraversa…
Certo che ero spaventato di instaurare una conoscenza più approfondita con quelle persone. Certo che ero spaventato dai legami, dai ricordi che un giorno avrei portato, tutti ricolmi d’amareggiata delusione, di rimpianti, di un’inestinguibile senso di impossibilità della comprensione. O dell’armonia. Sapevo al tempo stesso che i miei tentativi di trovare un rifugio silenzioso in cui nulla potesse minacciare la personale pace e sicurezza non si erano rivelati realizzabili. Insomma, ero colto in un limbo dove non avevo direzione in cui dirigermi. Lo sono tuttora, ma sebbene allora fossi certo che avrei continuato per sempre in quel modo, non riuscivo nemmeno a rassegnarmi, o a cercare la serenità in questa convinzione. Spasmodiche incertezze e tachicardie paranoidi erano prodotte costantemente, non conoscevo la pace. Ma in quella vacanza avrei avuto modo, credevo, di sperimentare un compromesso, di quelli tali da far trascorrere indisturbati i giorni. In un piacevole oblio simile a un sogno. Perché avremmo potuto tutti partecipare a nostro piacimento alle varie attività, i bagni nel lago, i giochi all’esterno e quelli all’interno, quelli del giorno e quelli della notte. Occupazioni che permettevano di non entrare troppo in contatto. Partecipare ridenti, senza rivelare altro. E magari qualcuno, scorgendo per istinto in me un’aura di predisposizione all’ascolto, mi avrebbe, in un momento privato scandito dal canto dei grilli nel buio, confidato certe cose, e io con voce paziente avrei fatto i miei commenti, con esempi della mia esperienza sempre tesi tra l’essere troppo enigmatici e il rivelare troppo in certi rari dettagli. Dopodiché sarei scomparso, tranquillamente, senza ripercussioni. Nella mia camera, nella mia vita. Lontano da quella degli altri. Sono contento se oggi, avendo evitato ciò che il mio istinto mi diceva di evitare, senza farmi fregare dai consigli altrui, quelle persone continuano a non essere niente per me e io niente per loro. Giorni piacevoli, trascorsi. Ci si sveglia dai sogni e gli oblii. Si va avanti per la propria strada. Si seguono sulla propria strada i passi, le impronte di un piccolo mammifero apparso dalla foresta per chiamare chi in silenzio lo attendeva. Chi non aveva mai smesso di tendere le orecchie ai passetti e i fruscii, alle presenze insolite del mondo selvatico.
La notte calava prima nella foresta. Non sarei stato in grado di ritrovare la strada, nel caso in cui non ci fosse stato quell’animale a guidarmi anche al ritorno. Pensavo che forse ne sarebbe apparso un altro per quel ruolo. Uno più grande, quattro alte ed esili zampe, un pelo color della luna. Conoscevo leggende di accompagnatori ululanti dei sentieri di montagna. Conoscevo tutto un mondo di oblii immersi nella notte, pullulanti d’un bestiario d’immagine. Conoscevo tutto un mondo di leggende perché era questo che mi piaceva leggere, a questo volevo credere. La creatura che seguivo era indefinita e ibrida. La foresta aveva lo stesso odore dei pini fitti di una spiaggia passata, una macchia più vicina alla mia casa lontana. Le conifere solenni dei laghi nordici s’imparentavano ad altre conifere già note e più prosaiche, registrate dentro i vasi sanguigni nel naso. Più diventavo cieco, e più sembrava intensificarmisi la vista, resa lampante e globulare come sguardi ferini dopo il crepuscolo a ogni boccata di quella fragranza rorida di frescura notturna. Coglievo sporadicamente una scia luminosa volante agli angoli del campo visivo a forma di tubo, di caverna, di processione lineare attraverso un mondo chiuso. Ancora ragnatele, o sentori di lucciole antiche mai dimenticate dalla memoria collettiva della foresta, ritornano sbiadite come spettri; spiriti del micelio, respiri del suolo. Volano nel tunnel che è fatto di alberi, li senti respirare intorno a te nell’immergerti. Si diventa il transito della linfa, della sintesi del respiro attraverso i polmoni di là dalla corteccia.
C’era una radura lontana, molto addentro la foresta: l’animale mi aspettava. Nella radura non c’era un’abitazione. Non dimorava nel fitto una strega speculare alla vita fuori dai confini della foresta. L’animale non appartiene a nessuno: è lui la guida, è lui che possiede l’arte magica in grado di mostrarmi ciò che mi deve essere mostrato. Forse voleva solo condurmi in un luogo adeguato.
Lo vedevo tinto del nero del tutto, ormai. Un blu profondo si era sostituito al colore arancione, alle parti biancastre sul volto, il ventre e le zampe. Lo osservavo e tentavo di ricordarmelo per come l’avevo scorto alla luce. Sceso per me dal pendio, apparso a un lato della mia corsetta. Incontrato. Era un misto di possibili incontri, forse. Non grande, come un coniglio. Fattezze vagamente da tasso, qualcosa di un riccio. Furberia rossastra ed esteticamente attraente, senza dubbio splendida negli scatti fulminei attraverso i percorsi conosciuti solo dal popolo selvatico. Creatura trasformista, custode di desideri altrui. Leggimente.
Mi chinai. Così abbassato ero vicino al muso, ne sentivo il fiato. Odore di vermi, di fiori, di decomposizione, di aromi alpestri, tutti fermentanti in humus. Odore tutt’intorno di terreno vivo e bagnato, di spore, di presenze da folklore e di ombre. Vedevo una goccia puntiforme di luce nelle pupille, sfere fluttuanti in quel vuoto. Ci guardavamo, ravvicinati, non potendo vedere altro che queste sfere molli e acquose, la poca luminosità intinta. Altri bagliori che sembravano nei paraggi rispondere al canto dei grilli: vedevo il cielo stellato aprirsi tra le chiome. Una nebbiolina fredda saliva dalle punte dell’erba al mio torace, vicino, come pronto ad accasciarsi. Pareva potersi stregare dal contatto con la sostanza fiatata dalla foresta stessa, umidità pungente sulla pelle, polmonite da druidi. La creatura posò una zampa nel mio palmo, teso come per volontà autonoma. Provai un brivido al contatto delle unghiette metalliche piene di briciole terrose, di infiniti passi calcati nel suolo nemorale. Come se avessi scoperto un covo d’ossa bianche e marroni, spolpate o esposte per naturale erosione della carne nel trasformarsi inesorabile delle cose, deposte al suolo insieme ai rami e i resti vegetali. Anche quell’odore, per una frazione di secondo, mi raggiunse. E aveva qualcosa di familiare. Odore di un covo dove animali gettano, anzi conservano, resti di pasti e furti.
Come parlasse in una lingua a me comprensibile, dal contatto con la creatura ebbi esperienza di immagini in successione. Ne ebbi esperienza come in una visione di colori e sagome, e insieme di tatto e udito, simile al tepore accompagnato da scrosci subito sopiti in un fuoco vicino al corpo che ne vuole assorbire parte dell’essenza. Un tipo d’essenza inventata: il fuoco distrugge, non accarezza. Ma quella carezza è assuefazione, è un affetto senza catastrofiche conseguenze introvabile altrove… l’animale sapeva questo. Sa cosa fantastichiamo, in quanto mammiferi, cordati, animali.
(Perché dovrebbe uscire dalla foresta? Solo perché è una proiezione d’un proprio spettro, e viene ad accogliere il responsabile della sua esistenza? No, l’animale strano ha conoscenza di ciò che alberga nelle cavità del corpo, sedimenti di pulsioni atte a cercare la sopravvivenza. Una sopravvivenza piacevole. E come ogni animale che possiede una conoscenza, vive per rivelarla, mostrarla. Gli esseri dotati di autocoscienza ne provano vergogna, e bandiscono questi animali fuori dai pollai, ai lati delle strade asfaltate.)
La volontà dell’animale furbo ma forse anche benevolo, conscio del mio animo, mi illustrava tutto ciò che avevo cercato e ripudiato. Ripudiato ragionando su me stesso e i miei limiti di essere senziente, irrimediabilmente stregato dall’impulso di appagarsi, reiterare. Oppure cose ripudiate evitandole attivamente, per sedare ansie e delusioni. Ma tutto ciò che vedevo erano lampi, come istantanee, scene e oggetti, posti. Ciascun lampo evocava una certa cosa, comprensibile a me soltanto. Sapeva che io sapevo leggerli. Venivano uno dopo l’altro, seguendo un unico intrico, come quello che corre nel sottosuolo della foresta rendendola un unico organismo. La sequenza pulsava, viveva.
Un aeroporto, le luci dell’alba dal tragitto in macchina, immerse nel buio della campagna, aroma di cornetti e cappuccini nella luce imbiancata popolata da quiete e pochi passeggeri in attesa, negozi sonnolenti quasi vuoti. Pensavo al Natale. Luci piccole intermittenti nel buio delle case e delle finestre tutt’intorno, le vite altrui, mentre si affondano le mani nelle tasche per procacciarsi anche il più piccolo sollievo al gelo tagliente della strada. Sollievo di un libro sfogliato con la schiena su un termosifone, giallore frusciante di pagine, portale per mondo incorporeo di forme ancestrali, pensieri miei alleati. È sempre Natale e un fuoco è acceso. Avvampa nutrendosi di cocce di noce, serbando in stomaci di fiamma coriandoli di buccia d’agrume troppo umidi per trasformarsi. Combustibile raccolto da una tovaglia da gioco. Gioia dello schermo di una console, dove vive un mondo perfetto, vissuto mentre nella stanza adiacente si gioca un altro incomprensibile gioco, altro gioco di carte rifuggito. Ritrovarsi con quegli altri giocatori, nonostante questa insanabile differenza, in un altro momento. Mangiavamo un dolce associato al periodo, mi chiedevo come facessero a distinguere nella memoria un dolce da innumerevoli altri, e come facessi io a distinguere i momenti di inverni diversi, a provare affetto per questi. Piacere crogiolato di simili riflessioni, fatte fissando un arazzo raffigurante una scena di caccia, cani marroni su fondo nero. Stesso odore inebriante di polvere di una cesta piena di peluche, collezionati come i nomi degli animali rappresentati, che si sogna apparire sulla propria strada. Stesso di un letto fitto di coperte, giorni trascorsi rintanandocisi. Torpore di mente attraversata da pensieri e fantasie della stessa consistenza soffice e avvoltolata su strati, appallottolata. Fluttuano agili come il mammifero nel buio. Mattina calda del risveglio, casa vuota, illuminata dal sereno che entra. Stessa luce nella fantasticheria di una vacanza in una casa lacustre, circondata da foreste. Un oblio passeggero e piacevole come un sogno. Grilli infinti di notti infinite, gracidii di musica celestiale. Dischi dentro cuffie dentro berretti dentro aloni di calore attorno alla testa, forieri di mal di testa, di insostituibile stordimento. E in tutto questo esistono inverni privi di morte e disintegrazione, passati inverni perfetti.
Il mammifero mi disse: hai conosciuto solo questo. Nulla di tutto questo esiste. Oppure, il fatto che non esista, e che prima o poi cessi di fingere di esistere, è ciò che temi. Perché non vai a vedere se esiste o meno, o se puoi tu esistere senza ciò che hai sempre conosciuto? Saprai, come noi del bosco, adattarti, sopravvivere??
…
Sparì all’improvviso. Non c’era nessun mammifero nella notte, nessun solco tracciato nel terreno della foresta dalla sua corsa rotolante. Era un peccato che non ci fosse, per uno come me che ama incontrare gli animali selvatici. Avevo il torace vicino al respiro freddo dell’erba. Pieno, come all’inizio, di terrore e infantile eccitazione. Perché non cambiavo e non mi adattavo. Dovevo ritornare attraverso la foresta, dove non sapevo neanch’io. Nel movimento frettoloso e frenetico che caratterizzava i miei giorni, finivo per non ascoltare più nemmeno i grilli, uno degli oblii più amati. Con vergogna ammettevo di sentire più urgenza nella necessità di trovare una casa, un riparo. Riscaldato e con una luce immersa in un buio.
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