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bobcat range, FR

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 giu 2022
  • Tempo di lettura: 23 min

-ricordo quando c’erano quelle lunghe pause. Guardavo, sembrava. Sembrava, attentamente il tappeto. Ma non saprei descrivere nemmeno uno dei suoi dettagli, dei suoi disegni. Pur avendoceli qua….. qua dentro…..


-non ricordi altro?


-mah…….no.


-….


-…….


-scommetto che dipende, vero?


-eh…. come?


-si comporti come si deve.


-……..?


-dicevo, io e il mio collega, qui, scommettiamo che dirà che “dipende”. Sarebbe proprio da lei.


-…….?..sì, certo che dipende. Se mi si chiede in un altro momento, chissà, forse….


--

Questo è il modo in cui non ci si dovrebbe rivolgere a me, pensa. Il modo in cui vogliono loro. Chiedono per ottenere cose, spiegazioni. Non chiedono per chiedere. Ma che spiegazioni possono volere da uno che se ne andava nel deserto o quello che è? Scarpe logore, con labbra di cuoio sintetico fermentante dal contatto con l’aria ardente che cadono tra i sassi rotondi, bianchi, grigi, infiniti. Deserti di rocce, sono prolungamenti di strade.


Prolungamenti orizzontali: fossati di ghiaia ai lati, s’espandono a ricoprire il mondo, più dei mari e gli oceani che forse in passato avvolgevano la terraferma. Prolungamenti verso i confini del mondo: non occorre nemmeno specificare che trattandosi di strade che uno prende a piedi, svegliandosi un giorno con quell’intenzione e senza dichiarar nulla nemmeno agli uccelli che si mettono ad accompagnar l’ombra sulla via, insomma è superfluo accentuare che la lunghezza incommensurabile di simili percorsi, simili deserti, ha qualcosa di quasi eterno, qualcosa che fa pensare alla piccolezza e alla grandezza e ad altre vertigini di fronte ai limitati mezzi di misura che il regno animale possiede, in cui annaspa. Forse per questo si tratta di deserti: lui, il disperso e temporaneamente in custodia, ci si era avventurato senza continuità con i suoi pensieri, aspirazioni, palpiti, bruciori di stomaco del giorno prima. E si poteva sospettare che in quella piatta distesa fosse stato condotto dallo “spirito”, qualcosa che vive lì, standosene invisibile e in piedi come un totem, nel giorno rovente e nella notte gelida, con le stelle in alto che luccicano, aprono occhietti, cominciano ad assomigliare ai sassi in basso, per creare uno specchio accecato nel buio. Deserti strade. Non si estinguono, non cominciano: si fanno solo strada, e non c’è strada che sia più strada di quella.


Cosa questo significhi, non lo sanno né il tizio che cammina né i poliziotti in pattuglia che l’hanno fermato, interrogato superficialmente, portato con loro, condotto in una stanza buia, interrogato meno superficialmente. Le cose finivano cinte da pareti, cancellato lo spazio vasto per come era, e lui ha visto l’ombra sparire da sotto i piedi, rimanendoci un po’ male. Tre individui in una stanza in penombra artificiale, ottenuta da una volontà. Si scambiano modi diversi di esaurire la pazienza altrui. Mancando i saluti, è così che si incontrano gli esseri umani rimasti.


Rimasti?


Beh, anche loro -i poliziotti, cui piace chiamarsi “ranger”- pattugliando sempre gli stessi posti per giorni e per l’eternità, forse hanno perso un po’quella che chiamavano cognizione della vastità del mondo e delle cose che continuano ad abitarlo. Di qualcosa che è diverso dai sassi sparsi ovunque su una presumibile pianura, e la calura, e i passi… non che conoscano i passi veri e propri, possedendo un veicolo personalizzato, ma dal finestrino li possono immaginare. Non c’è molto altro da fare.


C’è da girare e pattugliare, perché c’è poco altro da fare, e si esaurisce presto la fantasia dell’inventare nuove scartoffie da raschiare con la penna. Qualcosa, prima o poi, deve accadere in quel deserto, chiamato così da quando la densità demografica del paese, o cittadina o frazione di qualcosa, aveva cominciato a sgretolarsi con fracasso di macerie terremotate, seguendo una tendenza tanto rapida da avere qualcosa di inquietante, quasi fosse in atto una forza oscura. Così oscura che una volta i due, consapevoli solo di ruoli e lavori e questioni urgenti, erano arrivati una volta a dirsi delle cose, farsi delle domande (credevano forse così facendo di usare domande insolite per riempirci gli spazi lasciati vuoti dai pezzi di muro mangiato, dalla sensazione bucata di aiuole secche adiacenti alle case quasi scomparse nell’estinzione dei colori vegetali). S’erano chiesti l’un l’altro, quasi in imbarazzo entrambi e per la prima volta in tanti anni di questioni importanti, di un po’ ma tu hai una casa, una famiglia fuori da qui?-, insomma erano domande così. Sì? No? Se sì, si poteva tacere e potevano tornare a lavorare. Tutto in regola, ci sono almeno due case e due famiglie che da qualche parte, in una via e un numero civico, credono nel fatto che qualcuno stia facendo un lavoro non solo di burocrazia ma anche di ricognizione presso i confini, dove c’è il deserto. Se no, si taceva comunque, pur lasciando annuvolare il cuore da un certo dubbio: iniziava con “perché”. Un grande rischio per qualcuno che, per costituzione e allenamento e abitudine, i perché preferisce farli subire agli altri. Rischiavano di compromettere il loro professionismo, rischiavano di sprofondare nello stesso sprofondo che appariva, inafferrabile come un fantasma e al tempo stesso innegabile, nell’aspetto dell’ex nucleo abitato. Ma per quanto sarebbe andata avanti questa rovina? Sarebbe giunta fino ai posti con le case in attesa, le case distanziate e piene di famiglie e di gente che crede? Domande rischiose, i due erano in una situazione rischiosissima.


Finché non compare un tipo che ha qualcosa di sospetto, dicono tacitamente, qualcosa di sospetto nel modo, come dire, nel modo in cui non è per niente regolare, ecco. Così hanno forse scritto anche sul verbale. Forse sgrammaticatamente. I saluti e la grammatica sono i primi a morire, nella lunga traversata. Stramazzano, sono teschi di bisonte lucidati dal sole e dai sali che si arrampicano impercettibilmente dai granelli di microscopica sabbia sotto le superfici dei minerali, delle cose abbandonate al suolo. L’interazione tra gli interroganti e l’interrogato è complicata da questa e altre situazioni, intrinseche al loro incontro. Il deserto è complicato dal fatto che i sassi ricoprono tutta quanta la superficie della sabbia o quasi.


Intrinseche: ricordano questa parola. Immaginano ci sia una segretaria, in una stanza contigua, magari ad annotare questa parola e tutti gli altri messaggi verbali e nonverbali, precisamente quelli che i due suoi superiori autoproclamati desiderano che annoti, con efficienza ed equanimità, tralasciando il superfluo e manomettendo se necessario. Con un macchinario apposito, appendice meccanica di segretaria. Lei ascolta, esegue, il suo compito è questo, non parla -bene che il suo silenzio si confaccia alla sua nonesistenza, così da rendere più facile la sua creazione immaginaria. Non parla ma oh, quanto si sbalordisce il suo viso dietro gli spessi occhiali, con le cose che capitano in una stanza dove s’interroga la gente! Ai due piace pensare che la vita di lei sia piena di soddisfazioni date da questo lavoro. Perché è nella sua “natura intrinseca” -qualunque essa sia- la disposizione ad apprezzare quelle cose in bilico sul confine tra il mondano e lo scabroso. Sa conservarle e riporle con attenzione minuziosa, in borsette rimpicciolite per entrare in un palmo e altri contenitori che intimamente si stringono attorno ai contenuti preziosi, e sa estrarle con estrema cura cerimoniale in appropriatissimi contesti. Questo, va ribadito costantemente quando si caratterizza un personaggio immaginario, perché gli oggetti e il loro amore le sono conferiti dalla natura.


Ricordano la parola “intrinseca”: ovvero, si cerca di andare nel fondo del fondo di quello che significa il loro incontro con questo tizio comparso dal nulla, anzi a spasso nel nulla. Che facevi, che non facevi, e perché hai smesso di farlo o di non farlo. Perché uno che se ne va su una strada del genere, da solo, senza spiegazioni e senza un indumento che lo qualifichi in un certo modo che può dare ragionevoli spiegazioni circa il suo dirigersi come ipnotizzato verso il sole o qualunque cosa ci sia laggiù -un tecnico del sole che lo apre con una chiave inglese e ci guarda dentro dopo averlo scoperchiato, per esempio-, un tipo così non può certo continuare a fare o non fare. Può solo… mah, che cos’è quella cosa che fai? Queste alcune delle domande prive di interpunzione, prive di respiro, lanciate contro la faccia dell’interrogato, malridotta e con un principio di indecifrabilità, qualcosa di cangiante pur nella sua apparente inespressività e si fa presto volendo a sentenziarla “infida”. I due, stanchi, soddisfatti, disperati di fronte alla soddisfazione al punto da non capir più se è vera o falsa o se è giusto il modo in cui la fanno entrare nei loro corpi sudati come un’iniezione irradiata, si arrendono al desiderio di rivolgersi all’individuo condotto nella stanza, di aver trovato un modo per pensarlo tale da generare un senso d’avvicinarsi speranzosamente alla conclusione nel loro lavoro giornaliero: costui ha tra le sue caratteristiche quella d’essere infido: sì, è perfetto, proprio perfetto per il primo essere umano o presunto tale che uno vede passeggiare, strascicandosi dietro un’ombra altrettanto sospetta, sulla più desolata delle strade del desolato neobattezzato deserto della periferia, là dove una volta c’era una frazione della frazione della cittadina natale. Concentrandosi su questo -nei limiti delle meningi autolesioniste inebriate d’aria di condotti claustrofobici da inalarsi a manciate per colmare una sete nervosa-, le domande le gridano, le mormorano, le sputano. Modulano per generare effetti. Domandano, questa è un’interrogazione.


Si testa la capacità dell’altro d’ascoltare e comprendere. Lo si osserva: uno di quelli con la fisicità naturalmente tendente al rannicchiato, agli scavi lunari sul volto. Tutto ciò gli aggrotta la fronte sporgente rispetto alle cavità oculari, e le rughe sotto le occhiaie, in maniera da fargli affiorare incessantemente in faccia la verità dei suoi pensieri e sentimenti e propositi cupi. E bruciori di stomaco che lo incattiviscono. “Risponde al ritratto del possibile sovversivo” -annota la segretaria. Invisibilmente, inesistentemente, eppure se si tende l’orecchio si riesce lo stesso a sentire il ritmico e veloce (ma per niente esagerato) rintocco, piacevole come scrocchiar d’ossa, delle sue dita collaudate e macchinali sui tasti della macchina scrivente.


Il tipo non risponde, il tipo è un duro. Il tipo non ha nemmeno paura, il tipo sembra che non ha niente.


I “ranger”, anche loro, non è che siano particolarmente “qualcosa”, quando se ne vanno in giro per l’area periferica di loro competenza, o anche in quel momento. Per esempio, non è che siano felici, ma qualunque cosa siano o abbiano in faccia, gli appartiene, appartiene alla loro cosiddetta stramaledetta faccia. Pertanto non è concesso agli interrogati d’assorbire e riflettere la loro stessa noia, stanchezza, sensazione di sudore accaldato e fatto misteriosamente indemoniare dall’azione dell’aria condizionata -non per questo rinunciabile. Non è concesso rispecchiare i musi ingrigiti e irruviditi dalla noia, stanchezza, e, non sanno nemmeno come chiamarla. Nel deserto, che sta là fuori o che sta dentro ai tre che da giorni ormai incalcolabili conoscono poco altro, cominciano a vacillare pezzi di lessico, tra le ossa imbiancate dei posti in cui era caduta qua e là la grammatica, in punti dove si spera possano almeno rinascere dei cactus. Un singolo venticello penetra nella stanza e non porta particelle di sabbia, né semi di piante tenaci, né segnali di spiriti desertici. Un impianto d’aerazione sbuffa rivoli di fiato consunto, che fa spesso venire il sospetto, sempre errato, che sia stato impostato per sbaglio sull’erogazione di calore. Mah, bah, aaaah, sembra che facciano tutti e tre, sgonfiandosi a intermittenza. Anche lui, anche quel tipo assurdo che sembra non faccia niente ma sotto sotto… provoca, sfida. E pezzi di camicia simili a cartoncini si sollevano rispetto alle pelli sottostanti, sbatacchiano al vento viziato e sporco della stanza ottenebrata. Uno svolazzare di tessuto da braccia conserte, prodigiosamente sudate, o da braccia che indaffarate scrivono su taccuini. Dall’altro lato del tavolo, invece, braccia nude, sgusciano da maniche corte, braccia disidratate di rosa pallido e ruvido puntellato d’imperfezioni. Chissà se li sente, gli spifferi, questa pelle insensibile. E capelli criminali -non è ufficiale, ma i due colleghi dicono d’aver affinato ormai un infallibile intuito professionale-, capelli d’autentico criminale che, lunghi sfibrati e neri e somiglianti a un cappellaccio di piume di corvo impagliato, per i soffi ininterrotti vibrano attorno al volto che, in sostanza, ai due ranger non piace proprio.


Ma non è questo che importa, importa che non si possono fare le stesse cose che fanno loro. È una questione di ruoli. Certo, se anche chi interroga è sfinito e consapevole che nel susseguirsi dei giorni continuerà a inseguire quella stessa sfinitezza, può capire (e vagamente loro riescono a capirlo) che si tratta di ruoli profondamente insensati, stufi persino di pensarsi. Ciononostante…


Insomma non è questo che importa, importa che costui, mancanza di rispetto deambulante su due gambe scheletriche e lunghissime, si crede un cicognino fico solitario del deserto. Questo tizio non muta espressione, non si capisce nemmeno se sia la stessa cosa che provano loro, che forse sta imitando o assorbendo senza averne il permesso. O addirittura potrebbe esserglisi sviluppata dentro la stessa forma di malessere, proprio quella stessa forma che diventa intrattabilità (non ne avrebbe comunque il permesso, ci sono chiari ruoli…). Potrebbe, visto che frequentano gli stessi posti. Per motivi diversi. Stesse vie senza nome che pur dovranno esistere, almeno geograficamente, in quella specie di deserto lunghissimo che pare correre come un gran bastardo d’un fuggiasco dagli ultimi lembi disabitati di periferia. Quasi disabitati. Perlustrati, percorsi dai tre dentro la stanza degli interrogatori, dentro i loro mondi privati chiusi nella stessa stanza. Percorsi per motivi diversi, in cui forse non ci si riesce nemmeno a incrociare sulla strada.

Motivi… ma allora, che ci faceva là?


Ed eccolo, si ricorda soltanto che una mattina ha preso una borsa, è andato, e poi ha soltanto continuato ad andare. Come se all’improvviso ci fosse stata una singola cosa naturale in tutto il mondo, ha detto, o un’insensatezza del genere.

Tu non hai una borsa, fanno notare giustamente coloro che hanno la vista attenta, o piuttosto prepotente. Ma che vogliono, a uno non può forse cadere la sacca dalla spalla quando se ne va nel deserto? Era bucata, era in verità già bucata prima di prenderla, le cose messe dentro più per simbolo che per utilità è normale che comincino a cadere tra un sobbalzo e l’altro provocato dal suolo accidentato, e allora una sacca così svuotata è anche più facile che precipiti al suolo. Non fa rumore né sui sassi né sulla sabbia, soltanto solleva nuvolette di polvere su quei passi che non si voltano, i passi che rimangono dietro. E fanno una linea.


E si ricorda soltanto di certe cose, certe immagini frammentarie.


Segretaria, se ci sei là nella tua stanza contigua, con le pareti rosa e la scrivania presidiata da ninnoli non-asettici, messi asetticamente in file che ti guardano e allietano… se ci sei, scrivi! Costui è un frammentario! Possiamo incriminarlo per questa ragione.


Si ricorda, dice, chissà perché, queste pause, tra le conversazioni. A un certo punto ha detto -l’ha proprio detto!- : c’erano dei momenti, quando non vivevo nel deserto e vivevo con quelli che non sono del deserto, in cui mi sembrava d’aver capito tutto. L’aria, che già stagnava, s’arrestava del tutto, l’aria tutt’attorno, cioè. Quella che avviluppava i corpi in conversazione, le sedie, le poltrone, o dovunque si fosse. Questo non lo ricordo bene, cioè, il “dove”... e io nelle pause, quando finalmente qualcuno -io o gli altri, non importa- taceva, ecco che vedevo emergere una cosa.


Emergere? Ma che vuoi vedere emergere? Siamo al mare forse? No, qua è tutta terra, sporca secca terra, te ne sarai accorto e se ne saranno accorti i tuoi piedi. Lo sgridano in questo modo, verbale nonverbale.


Emerge una cosa. Cosa? Boh, un sole.


Un sole???


Sì. Una palla di fuoco ignobile. Ha detto proprio così.


Che uccide tutto con la sua energia. Uccide in maniera brutale. E allora, dicevo, sai che c’è, vaffanculo a quella palla di fuoco ignobile! Il problema, però, è che più che altro pensavo di dirlo. Non ci riuscivo, però. Pensavo ma non dicevo. Non riuscivo a far niente, e tutto quello che vedevo era un pavimento, un tappeto, e nemmeno quelli vedevo. Non potevo far altro che rimanere con lo sguardo verso il basso, nemmeno là sotto ci fosse qualcosa. Qualcosa che vive sempre sotto. Nei sotto di ogni cosa.


(le parti del discorso che i poliziotti ritengono, non senza una certa alterigia, più ragionevoli e aventi parvenza coerente, hanno dovute ricostruirle: i discorsi del frammentario sono frammentari, e sembra perfino sforzarsi con un impegno quasi lodevole nel raccogliere la saliva dentro le pareti degli zigomi e lanciare uno sguardo che sembra pensoso al vuoto, quando sembra replicare le stesse lunghe pause di cui parla, e non parla effettivamente d’altro. Invece tutte le cose più strane, tipo il suo diavolo del sotto o quello che cazzo è, le ha proprio dette esplicitamente, nei suoi limiti. Mugugnandole e rantolandole, in una specie di indecifrabile lingua pellerossa. Notare comunque che è pallido. Scrivere che è un uomo bianco, non pellerossa, ma proprio un cittadino bianco, che comportandosi così non fa che accrescere sospetti, per tutta una serie di ragioni molto importanti che i poliziotti-ranger-interroganti tengono vergate all’interno di spessi faldoni allineati negli scaffali di una specie di libreria di ferro bucherellato. Sta da qualche parte, nello stesso edificio. Basta sapere che c’è. Ci si concentra su quanto accade nelle quattro pareti del mondo degli interrogatori.)


-e allora?


-e allora ho detto ma sì andiamoci incontro, a questo sole orribile.


-ebbene, è questo che fai??


-no.


-no?!


-ma no……...- e fa un’altra pausa, terribile, e si sente il rumore delle sue secche ossa intrappolate nella corporatura scheletrica, e contorce le spalle in un letargico rimescolio muscolare come se ciascuna parte del corpo all’unisono sbadigliasse maleducatamente. -…….se trovo il sole, e lo vedo, va bene, e va bene pure se non lo vedo. Anzi meglio. Ma se lo vedo magari continuo a vivere, lo stesso. Anche se c’è un sole che fa schifo.


-che significa?


.

Il tizio guarda. Per terra, fuori, se ci fosse una finestra. È stata murata, anzi la parete è tutta una sola uniforme chiusura: si ritiene che questo abbia un effetto produttivo sull’esito delle interrogazioni. Su certi esiti che si intende ottenere. Ah, doveva saperlo, il cicognino frammentario: se si viene fermati a quel modo in cui era stato fermato lui, mentre si va tranquillamente nel deserto, non è certo per instaurare un contatto, parlare, o stare anche in silenzio insieme. Ci sono delle frasi che bisogna dire, calibrare…


Comunicazione procede a inciampi. Lui si rivolge altrove, ad altrovi sempre crescenti, pare saperli creare dall’aria pura con solo gli sguardi lanciati nel vuoto. Cupi e incerti. Come attendesse gli alieni che scendono nel deserto e lo vengono a prendere. Per condurlo in una stanza in cui non si fanno interrogazioni -razza di incivili!-, e salvarlo da chissà che, poveretto lui. Ecco, sarà un poveretto, uno che si è trovato in una specie di, come lo chiamano, “Problema”. Ma che Problema possa esserci in un deserto di sassi e strade e interminabili ore che funziona tanto bene, gli interroganti proprio non riescono a capirlo. Ci sarà pure il Problema della città che sgretola i suoi confini con la non-città, ma se tutti reagissero come lui, chi rimarrebbe?

In effetti non sono rimasti in molti. Ma questa è una logica intrappolante che non importa. Ci si concentra sull’interrogazione.


Cerca altrovi. Pavimenti e finestre. Ma era solo una lunga pausa. Il deserto gli ha insegnato come fare gli stessi lunghi sbadigli che lui, avviluppato alla terra sua madre in una simbiosi edipica, produce nel corso di millenni, in cui dune e mucchi di sassi si ridisegnano. In cui cactus crescono e s’evolvono e sopravvivono e soccombono abbarbicando le striminzite radici là dove erano un tempo scomparse le vestigia del linguaggio. Vestigia animali, ossa e corna di bisonti. Le piante mute riprendono la terra. Le piante muoiono. Qualcosa rimane: il nulla che è alla base, un nulla di sassi che nemmeno saranno concreti, saranno solo simboli che devono starci per fare il deserto, perché per qualche motivo va fatto. È questa la visione e riflessione che il frammentario vede e cogita nella sua lunga pausa. Ispirata dallo spirito totem in piedi nella notte desertica. La vede. Prima di dire.


Nemmeno si ricordavano. C’era stata una domanda, parte della loro interrogazione. Proceduta nella lunga ora, improduttiva in una di quelle lunghe finte che le interrogazioni sanno fare. Parte della prassi. Ma s’erano dimenticati. Stare con quel tipo comportava la crescente probabilità di un esito terrificante: “finire come lui”, cioè a fare una vita simile. O forse era già accaduto: tutti e tre, pur sembrando fermi, dove avevano vagato? Tra pensieri deserti, in linea retta. Sentono persino male ai piedi sotto il tavolo di metallo non illuminato. Tutti e tre dentro una stanza a camminare in un deserto.


Il bianco irragionevole e frammentario si scosta una ciocca di lunghi capelli neri quasi incanutiti qua e là, un gesto di nervosismo, di riacquisita mobilità. Dice.


-….che significa? Significa che il sole stava oltre l’orizzonte.


-e quindi?


-e quindi anche se lo vedo in tutto il suo schifo continuo comunque a camminare.


-e perché continui? Vuoi pure la luna dopo aver avuto il sole?


-ma perché non voglio proprio niente, è ovvio.


Ovvio?!?! (segretaria cara, annota questa parola usata impropriamente da qualcuno che non ne ha la qualificazione. E ricorda di ringraziare chi di dovere per il fatto che almeno un certo tipo di lessico non lo perderemo mai)


Ovvio… sì., sembra confermare tra mugugni della sua lingua amerindia.

Se avesse voluto qualcosa, non ci sarebbe riuscito. Non sarebbe riuscito a far niente. E mai sarebbe riuscito a percorrere il deserto.

Questo né i poliziotti né la segretaria immaginaria possono ricostruirlo dalle sue parole, ovvero, non potrebbero mai capirlo.


Sono confusi, sono persi. È il loro lavoro che scivola via dalle dita. Qualcosa, una sostanza fluida estranea rispetto a tutto ciò che è noto, scivola vischiosamente fin nel loro mondo di imperante secchezza, corrompendolo. I due, quello più alto e quello più basso, quello in piedi con carta e penna e quello seduto con sudore più copioso e sguardi più eloquenti, si guardano, cercano nei volti l’un dell’altro conferma di una medesima sensazione, perché se hanno perso il lavoro almeno non avranno perso il modo di percezione di disillusione bicefala in perenne sincronia che in tanto tempo li ha abituati… e l’interrogato, per brevi istanti, può assistere a un fenomeno curioso. Dall’altra parte del tavolo osserva i due allarmarsi, li osserva bene, per la prima volta. Li osserva nel momento in cui i volti si cercano, e cercano di vedere se nell’acqua torbida delle pupille si riflette a fatica la stessa scena: d’una sostanza vischiosa, simbolo alieno, che comincia a intrufolarsi tra porta chiusa e pavimento, e pian piano riesce ad allagare oleosamente la stanza. L’interrogato osserva, si meraviglia quasi. Ma i due perdono per sempre gli istanti in cui avrebbero potuto registrare una reazione quasi esplicita dell’uomo che proprio per il suo illeggibile svuotarsi d’attributi hanno reputato infido, sospetto, frammentario, criminale… bugiardo e scaltro. Si girano, si ricordano di lui: devono chiedergli ancora che cosa sta cercando di dire, a cosa sta alludendo, e come mai non si decide a parlare come si deve a un uomo o qualcosa del genere, ma l’animazione fulminea della faccia si è già dissolta come una nuvola trickster, tuffatasi maliziosamente tra segreti ghigni dentro i muscoli delle guance.


Si rende disponibile all’ascolto. A sua insaputa ha perso l’espressione quasi vispa che, sempre a sua insaputa, gli aveva invaso la faccia, salendogli dal collo simile a una febbre fluida. Però ha continuato a guardarli. Li vede bene: alto medio vagamente muscoloso, tratti spigolosi e mosca sublabiale, la cravatta nera gettata all’indietro indifferentemente regala una virgola al foglio stropicciato della camicia, e cinge un po’ a sciarpa il collo; l’altro, seduto su larghe rocciose chiappe, svariati centimetri in basso, alto mediobasso vagamente lipidico, tratti malleabili, canale diretto e spontaneo e superficiale e fragile tra psiche e plasticità carnosa preposta alle sue manifestazioni fisiche, comunicativa, mimica, a un tipo del genere una cravatta non serve né che pende né che scandisce il discorso. Uno alla sinistra, l’altro alla destra. Uno discosto, l’altro dritto davanti. E lui, poi.


E io, dice una voce. E gli dice, questa voce che gli sembra somigliare a quella che potrebbe avere uno spirito notturno in piedi su sassi e sabbia nascosta se mai decidesse di parlare, gli dice che stanno per fare altre domande e darsi altre risposte. Vede che quello più alto, quello in piedi, già è pronto a far finta d’annotare qualcosa.


La comunicazione procede accidentata per i tre che camminano nello stesso deserto. Ma se è lo stesso, perché non riescono a……….? ..qua le domande le faccio io, ringhia una voce bicefala.


Quando non si rivolgono a lui, tentando di farlo parlare in certi modi specifici come cercassero pezzi di puzzle dal pavimento, si consultano. Operare in questo modo, far operare meglio la segretaria, che deve operare. Segretaria. C’è una segretaria, allora. Oh, sì che c’è, quella che sta annotando per bene il personaggio. Sovversivo frammentario, infido cicognino, sta descrivendo per bene.


L’infido ha un’idea. Ricorda discorsi, questioni che lo animavano. Sembrano fiamme. Diventano presto nel suo ricordo soltanto un calore incorporeo, ovvero la cosa più simile a quelle fiamme, avute dentro in un passato distante, che il mondo unificato nella sola immagine del deserto ha saputo dargli. Emozioni di rabbia e passione idealistica, che casualmente l’avrebbero reso veramente sovversivo. Fiammelle, canicola traballante, e infine parole di sarcasmo, uscite, eruttate, vive.


-incarna forse le vostre fantasie sul mondo femminile?


La domanda produce per logoranti secondi un silenzio ancora inedito da quelle parti. Il ronzio dell’impianto si fa cavernoso, un fondo oceanico d’aria pesante. Ed eccoli che si riguardano, nemmeno avessero facce dai poteri speciali.


-cos’era questo? Hai forse detto qualcosa, signor furbo? Allora ce l’hai la bocca del cazzo, non solo per i rantoli!-, e ringhia l’espressivo dei due, e finge d’annotare la controparte, uno punto e l’altro virgola. Ringhiano in coro in modi diversi infusi dello stesso efficace immenso disprezzo per una domanda pronunciata, inavvertitamente, con una specie di tono da accademico. E lo stronzo d’interrogato nemmeno pare rendersene conto, di quanto la sua faccia rimasta ebete per giorni nel deserto sia invece capacissima di rapportarsi con gli altri due soli occupanti della stanza e dell’universo conosciuto, e non è un rapportarsi, come dire, regolare. Un rapporto scandito da insolenza. Un atteggiamento di sfida, ecco, ma lo saprà questo stronzo quante tonnellate di sfida serba dentro quel volto inespressivo che non è tuttavia riuscito a cancellare per sempre? Volto e loquacità ritrovata, a quanto pare. Segnano, sottolineano i due. Fanno annotare alla segretaria, loro personale fantasia sul mondo femminile: non dimenticare, piccola pupa bellezza tesoro, di sottolineare questa cosa della loquacità ritrovata, facciamogliela pesare come se avesse vomitato tutti insieme tutti i cazzo di epigrammi di questo mondo, che se un duro dice anche solo “ah” gliela facciamo diventare una frase infinita. E la segretaria esegue, perché sa lavorare. Perché anche se è solo una fantasia, quel suo pensiero “fantastico”, del tipo che ti fa prender la strada per gettarti per sempre nell’infinità del deserto fino a trovare il sole o altre palle di fuoco, almeno lo applica in qualcosa di buono, in scartoffie buone che profumano come i condotti d’aerazione -si rendono conto, non è che non lo facciano, di quanto il termine di paragone sia svilente, ma è nell’immediato e nei loro limiti immaginifici la cosa più vicina a un tipo d’aria capace di muoversi e non stagnare, e non avrebbero certo potuto dire “profumano come le sigarette che fumiamo in macchina”. Questa sarà anche una sciocchezza per un presuntuoso di quel tipo, guardalo come giudica dalla sua sedia!


(beh, non è che sia la mia sedia, direbbe se potesse, essendo stato messo lì a sedere da…)


-senti questa bocca del cazzo quanto piscio fa uscire! Dico, ce l’hai, allora, e la fai lavorare!


-beh, se non avessi la bocca del cazzo, non potrei bere, per esempio.


-e che lingua oltre alla bocca! Che lingua il nostro stronzetto, ed è una lingua dissetata, a sentir lui. E che avresti bevuto nel deserto per settimane, in quella strada di niente in cui non c’è nemmeno un chicco di sabbia e nemmeno una cacata di lucertola?


-niente.


-niente?! O forse “non ricordi”?


-…non.. ok. Non ricordo. Va bene.


-ah! “Va bene”, dice lui, facendoci una cortesia…


Il collega, in piedi con le maniche tirate su, finisce di fingere di scrivere. Fa un commento, un raro prezioso commento, voce a forma di spada. Dice che non sta migliorando la sua posizione, o qualcosa del genere. Il tempo è strano. Non si capisce se passa, se sta ristagnando. Proprietà delle sostanze oleose, così aliene rispetto al mondo secco. Labbra secche si sputano parole da ore, cercando di lubrificarsi a vicenda. Non una sola bottiglietta d’acqua sul tavolo di similalluminio, non una sola cosa con cui dissetarsi in tutto il deserto.


Si guarda intorno, confuso, smarrito. Non è l’insolente che loro dicono! Che vogliono ritrarre. Un ticchettio s’ode da una stanza vicina. Allora esiste un edificio. E loro ci sono dentro, ne sono parte. E hanno reso parte anche me, pensa, sono loro collega, collega dello stesso gioco, e sono lento a capire, a reagire, a rendermi conto perché là fuori avevo perso tutto, e tutto quello che avevo era disgusto per il sole. Ma ecco che ritornano ragionamenti, mia capacità di giudicare, di capire quando qualcuno attua un sopruso, e altre strane orgogliose e inutili sensazioni che avevo dimenticato, sperimentate in un tempo tanto lontano, così lontano che il sole di fuoco ignobile nemmeno faceva così schifo. Chissà dov’è quel mondo. Non certo da qualche parte dentro le loro facce, queste due facce che si sporgono a riempirmi la visuale…


All’improvviso gli viene in mente che anche facce del genere, proprio delle facce così concrete, da un momento all’altro si sarebbero potute disfare, deformare, sciogliere. E non aveva più interesse a sapere se era lui a immaginarsi la cosa, o se era l’ispirazione datagli dallo spirito notturno suo preferito, o se questo era mai esistito. O chi, in tutti i casi summenzionati, fosse tacciabile di atti osceni in luogo desertico.


Nemmeno alla segretaria interessa più: non proviene nemmeno il più impercettibile ticchettio da dito di roditore su tasto rimpicciolito dalla stanza contigua. Stanza lasciata vuota, la segretaria è uscita ed è tornata a casa, è uscita nel mondo là fuori, ha preso un autobus magari, ha visto ricomparire gli edifici sempre più simili a grattacieli ai lati dei vetri, sempre più scomparso il nulla polveroso e asfissiante dei margini. Tornata a una vita che le appartiene distaccata da quel microcosmo, brava segretaria, ti sei emancipata dalle fantasie dispotiche che ti hanno dato lavoro e forma. Torna a casa, togliti le scarpe coi tacchi che stringono e ti martellano le caviglie, lanciale contro una parete come a scriverci sopra che non c’è nessuna legge o logica nell’indossare calzature tanto opprimenti. Vivi così, e sarai l’unica a essere uscita viva da un certo posto. E hai lasciato la stanza vuota nella caserma o quello che è, la stanza che ha un colore di certo diversissimo dall’incolore tutto particolare più noto ai tre uomini impegnati nella loro strana conversazione.


Stanza vuota, stanza che è impossibile immaginare, stanza che rifulge come un empireo rosa profumato floreale per i tre uomini della caverna oscura degli interrogatori. Che proseguono. Domande senza interpunzione, strategie ripetute. Cicliche.


L’interrogato vede che c’è un calendario. Senza continuità con nulla, c’è un calendario. E questi, poliziotti frammentari, accusandolo d’esser frammentario, sono andati avanti a far domande che nemmeno per loro hanno senso! Per nessuna legge che dovrebbero rappresentare. Ecco che si presenta il colmo della frammentarietà, proprio nell’apparente assenza del tempo: su una delle pareti di metallo scuro, liscia e flebilmente riflettente come l’interno di una scatola sterilizzata, c’è un calendario di fogli di carta plastificata. C’era anche prima? Calendario della città. Quello dovrebbe essere il centro, vede dalla distanza. Ricorda che un tempo portava gli occhiali. Si sforza ancora. Sforza la memoria e le facoltà di associare le architetture, i colori caldi delle pareti esterne, il cielo attorno. Una chiesa color sabbia, una domenica. E attorno, a cornice di tutti i numeri rappresentanti i giorni del mese, che inizia per j o per z, ci sono decorazioni, piccoli simboli ritratti a china d’altri monumenti. Monumenti del paesaggio: conformazioni di fichi d’india, ultimi che si vedono sporgere tra le reti squarciate lungo i perimetri delle ultime case in abbandono; pollai scassati; roccia in varie forme; lunghi torrenti di sassi, sassi a cui qualcosa di sinistro e inequivocabilmente presente nell’aria ha rubato l’anima, sassi che nonostante questo riescono però per compensazione quantitativa a diventare maestosi, incarnare un sublime naturale. Questo è il posto in cui viviamo?, si chiede. Gli altri danno le spalle al calendario, appeso lì. Un occhio improvvisamente aperto nella parete.


Lui è stanco: ha detto la verità: non ricorda molto. C’era una storia, ce n’erano tante. Di una città, di lui, di certi altri piccoli esseri che stavano dentro la storia grande e complicata… secoli fa questo era un avamposto. Per scavare qualcosa, presidiare qualcosa. Case, abitato, nuvoloni di polvere, strada, attività numerose in crescita, sviluppo economico, decadenza, curva. Allargamento a sottrazione dei suoli della natura selvaggia, e altre cose descritte in questa maniera. Gli era perfino capitato, chissà quando nella sua lunga camminata, di sentire vaghi mormorii. Mescolati allo scirocco leggero e polveroso. Sibili carichi di tante polveri e anche del peso, reso impercettibile, di queste cose pesanti e lontane. Sentito forte, sentito graffiare occhi e interno narici, quando era fermo. Ai margini di una statale, tra piazzole di sosta e percorsi abituali del vento, ex campi coltivati. Il vento si ingrossava solo allora, trovandolo immobile. Gli faceva fremere rumorosamente le orecchie, ali d’insetto intrappolate in un cassetto. Il vento delle piazzole di sosta poteva parlare di ogni cosa riguardante il caldo e la geografia e la storia, e graffiare gli occhi con una polvere che non si può vedere. E i miraggi, nati spontaneamente, potevano disegnare nelle vicinanze o all’orizzonte, in perenne traballare, isole di Autogrill, simili a carcasse di megafauna che un tempo marciava sulla terra, e l’appiattiva, le dava la forma odierna.


E lui, interrogato, respira questo pensiero, e lo prosciuga. Si tocca l’addome, i reni. Ecco che lo notano, si sporgono, subito annotano, con occhi e con doveri tempestivi del tutto immaginari. Si deludono immediatamente: il dolore di stomaco e reni, segnale di sete e di umana debolezza, si ridimensiona quando affiora un’espressione ancora più svuotata di prima. Cercano qualcosa nella limpida acqua delle sue pupille, un segnale che possa risollevarli dal segnale trovato dentro le loro, di pupille. Non vogliono che la stanza degli interrogatori s’allaghi d’amenità. Devono chiudere il lavoro, dichiararlo criminale e concludere, riportare ordine. Ma sono limpide pupille in cui qualcosa viene risucchiato in un buco di scarico.


Ricorda un’altra cosa ma non la dice, è muto. C’è lui che sta in una piazza, vicino a una piazza del centro, vicino a un centro domenicale. Campane e frammenti vari. Stanze, il cielo che penetra in un ognuna di queste, perché in queste stanze d’un mondo lontano e inimmaginabile esistono delle cose chiamate finestre. E tappeti, e pause tra le conversazioni. Era fatto così. E un giorno, vicino alla piazza, non sente le voci di quelli come lui, nati nella città avamposto. Non sente più niente, vede e capisce solo una cosa. Ha già deciso, a un’età in cui non esistono decisioni, ma lui ha deciso: ha visto, forse da un finestrino forse da un’ispirazione strana, la periferia, le case che spariscono progressivamente, e un futuro adulto in cui scompaiono ancor di più, e ha deciso già, piccolo e indeciso ma per la prima volta sicuro, che lui camminerà laggiù, che ci andrà a piedi a vedere quei posti. E che la capirà una volta per tutte, questa storia della strada che si perde, che sparisce all’orizzonte. Che ci sarà qualcosa dall’altra parte. Che non è possibile vivere sotto un sole che distrugge ciò che investe, come quel confine tra la città e il deserto di sassi in cui le cose diventano tutte torride e senza vita. C’era più vita in quel territorio prima che ci facessero le case? È solo un processo di logoramento progressivo innescato dalle costruzioni? Basta uno che ci cammini dentro per cambiare il modo in cui sono fatte le cose, cambiare colore al sole?


Domande frammentarie. Le sente scivolargli dentro, da un buco in cui passano i fluidi residui, un buco nel fondo puntiforme della pupilla. Ma scivolandogli in gola, per dissetarlo prima che muoia disidratato, non gli rimangono dentro, gli scivolano vischiosamente in un altro buco che ha dentro, questo collegato a un vuoto complicato e difficile da spiegare. E nel processo il silenzio lo inghiotte, e lui ci sprofonda, e reciprocamente si riattorcigliano l’un l’altro in un abbraccio che risorge dopo una temporanea separazione, e diventa infinito.


.

Sprofonda nel silenzio, nelle pause concesse dal grande respiro, il quale è un concetto importante che informa il linguaggio e la cultura di una tribù amerindia pallida cui rimane un singolo sopravvissuto. Cuore Di Cicognino.


Qualcuno lo guarda incredulo dall’altra parte di un tavolo. Sul similalluminio incolore e buio i volti si riflettono, deformandosi, diventando mostri. Sotto lo sguardo di chi è all’altro lato del tavolo, e avrà pure lui un volto riflesso che là, su quella superficie neutra sotto il mento seccato dal sole, gli diventa così. Tre volti d’uomini mostruosi su un tavolo. Rimangono così per un’ora interminabile, così dentro la stanza delle interrogazioni.

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