autopsia
- Milky
- 8 set 2023
- Tempo di lettura: 15 min
AUTOPSIA: BIBLIOTECA:
È esasperazione il continuo camminare, l’inizio d’ogni nuova pagina con un passo. Ma è così che mi ritrovo. Muovo un passo nella sabbia, altra ossessione che mi sembra appartenere a ogni anima, la faccio familiarizzare con la mia stirpe: scimmie d’una savana ch’è diventata deserto. Ed è muovendo un altro passo nella sabbia che incontro la biblioteca. S’erge ed è un animale, bello, ossa chiare che quasi formano lance, la luce che viene respinta dalla superficie, e la modella come aura attorno a sé, e ne fa armi, fortificazioni -qualcosa che impedisce l’ingresso. E dietro l’atteggiamento acuminato, che si sporge e calcifica al di sopra delle sue nicchie interne e dei suoi inaccessibili pensieri, s’intravede e intuisce un fulgore sottile, come una patina sulfurea, che dà illusione d’esser lei stessa a conferire quel lucore allo scheletro. Ma è un’illusione ottica ed è un mistero insolubile. La biblioteca è uno scheletro edificato al centro del deserto, colonne bianche, qualcosa che un tempo era vivo, e agitava appendici, protuberanze, convergenze evolutive, membra frenetiche nell’aria respirabile d’un’epoca, forse rinchiusa e codificata come in un dna midollare dentro la sua memoria genetica, cioè dentro uno dei suoi archivi ai quali non so ancora se potrò accedere. Sono esploratore e archeologo, sono di quelli che verranno inevitabilmente risucchiati dal terreno cedevole, sono una delle inevitabili e innumerevoli prede di formicaleone -lo sei tu, che leggi i fogli strappati ai bordi e danneggiati dalle intemperie, nel momento in cui li ritrovi esausti al suolo, nel momento in cui infine attraversi quella soglia oltre la quale l’erba comincia a morire: sei già nel vortice, giù nella destinazione. Ascolta le parole morte di un morto.
Non si esaurivano lì i confini, intendo laggiù nel mondo che lasciavo dietro: quasi ricordo d’aver scorto un confine in quello che era solo un graduale modificarsi del paesaggio, un’impressione che avevo di star effettivamente entrando in una nuova dimora, scoperta sotto il sole, dove le piante grasse si difendono, ombre di uccelli saprofagi circolano, miraggi ballano nelle tessiture ipnotiche dell’atmosfera imitando le fontane roride di un altro mondo, un mondo che non è qui: questo “qui” si definisce per sottrazione e opposizione: il deserto da cui siamo partiti e a cui eravamo destinati è qualcosa che nasce contrapponendosi a tutto il possibile, tutte le città, i ponti, le frescure, le grotte e le gallerie e i palazzi, insomma tutti quei sogni febbrili che noi, uscendo, migrando, abbiamo inventato, punti da una nuova malattia -mosca del sonno incontrata al confine tra il deserto vissuto e un labirinto della nostra mente, ha inoculato un virus di ambizioni, turbini d’autocoscienza, specchi, infiniti specchi, il risultato del raffinamento della sabbia che calpestavamo. Prima degli specchi, prima dell’intelletto, sarebbe bastato guardarci i piedi per vederci riflessi, in un altro modo, in un’opacità che purtroppo avrebbe fatto orrore al nostro nuovo desiderio di chiarezza, iniettato dal parassita ora simbionte, il primo degli infiniti armadi di manichini e simbionti che avremmo di lì in poi costruito, perché vedendo riflessa la nostra figura nella sua infinita solitudine credemmo d’aver bisogno di compagnia. Vieni con noi, mosca. Seguici l’ombra come faranno con noi gli antenati glaciali dei cani, in quelle montagne impervie di un continente a nord. Assumi il nostro odore e noi il tuo… tutto questo è scritto, registrato sicuramente, da menti di sapienti nate da agglomerato di nervi tormentati, esistite qui, sgretolate un giorno con tutte le loro rughe simili a quelle delle dune, e non, come quelle che sarebbero state mie, simili agli arbusti della macchia mediterranea… simili, io e altri morti, tutti i morti, tutte le prede del formicaleone, del cammino.
Posso leggere quello che hanno scritto? È lì, in un altro confine che individuo pure nella gradualità, non con gli occhi o con la propensione dissezionante del cervello, lo vedo con i pori della pelle: come Mostro di Gila o rospo desertico mi ricopro la pelle di ispirazioni diaboliche, occhi sgusciano umidi e velenosi dagli esagoni microscopici della mia superficie, adattandomi alla durezza dell’ambiente: quegli occhi sanno anche udire e odorare, captare in modi estranei. Sanno l’inizio d’un altro confine: lo stesso che gli occhi registrano come propaggini di sottile ombra che, dallo scheletro mezzo sprofondato laggiù, strisciano attorno alla sua buca, e cambiano il colore e l’anima della sabbia, e segnalano: sei ora più vicino al mio nucleo, più di quanto lo eri prima, sei in un altro “qui”, sei una figura che attraversa i mondi, uno dopo l’altro.
Posso entrare? Nella biblioteca, nell’animale che aveva proboscidi e zanne e corni ricurvi e pungiglioni, il suo barrito lanciato nella valle rintrona improvvisamente in un orecchio che ho da qualche parte, incastonato tra organi che schiacciano, assottigliano, simili a bobine, in giravolta continua solo per nervosismo. Sento con quell’orecchio a recipiente un ritorno di suoni estinti. Sto per entrare.
Cosa vedo oltre la soglia? Sono in un altro qui ancora, sono in una parentesi. Ma il contenuto di una parentesi assomiglia ai suoi limiti: per la prima volta mi sembra di vedere questa verità possibile, mi sembra di vedere, sparsi sulla pavimentazione (metà sabbia, metà pietra levigata, o forse qualcos’altro ancora, un vetro magico), i libri, gettati a terra da un terremoto lontano nel tempo o una catastrofe roboante che sembrò far parlare e ruggire il deserto in persona. Sì, “l’altro qui” di me, la mia parentesi, la mia ombra striscia ora in questi corridoi, damascature sbiadite, legni di scaffali le cui strutture sono state cancellate da crollamenti e mucchi di sabbia, castelli interi che la mano d’un bambino cosmico intento a scherzi di distruzione ha fatto precipitare nel suo terreno di gioco in maniera conclusiva, per andarsi a spostare verso un altro divertimento, forse meno effimero, che non avrebbe mai trovato.
Le pergamene frusciano al mio passaggio, come la mia insignificanza fosse sufficientemente ingombrante da costituire il primo vento esistente da secoli di bonaccia, e si ritraggono, sentono in me un gatto o un cane intruso nel branco di randagi territoriali, una serpe strisciata in tana altrui. Ma poi si calmano. E libri di tutte le fogge -a rotoli, rilegati, in lastre…-, quelli non del tutto capitombolati dalle mensole disarcionate, quelli rovinati a terra, quelli strappati, quelli sbalzati verso rientranze alte sotto il soffitto, tutti somigliano a una diversa parola, tutti raccontano un singolo sentimento, riverberano d’una sola nota, come i pianeti.
Mi sembra allora che tutto questo sia il sapere. Un arrangiarsi di singole note planetarie. Ciascun concetto una stella, già spirata nel momento in cui la sua luce sfiora la notte del deserto che in essa vede il suo altro specchio nell’altitudine, che gli fa pensare, nel suo silenzio melanconico di terra, che sia celato da qualche parte entro sé uno splendido stagno di lucciole, un cristallo che quando beve il colore della notte canta in innumerevoli particelle, insetti o umidori d’anfibi, ammassi gassosi o nebulose lontane… questo siamo, quando creiamo gli oggetti maledetti come noi a partire dai codici che si vergarono in noi, quando fummo punti, quando divenimmo alienità: musica di astri, teorie umorali, oroscopi, bestie cornute che sempre adornano le sporgenze dei nostri templi e quelle dei nostri paranoici timori, che mai e poi mai vengono lasciati soli… mi perdo nel corridoio e accanto ai libri vedo decapitati i busti di ninfe e madonne, vedo privati d’ali gli automi guardiani mesopotamici dal corpo panterino, le barbe, gli occhi vacui di gemma. Scorpioni fuggono dai loro circoli di convergenza sulle pareti, tra una crepa e un singolo, resiliente lembo rampicante: scricchiolando viscidi si rifugiano infine in un buco, da cui sembrano generarsi tutte le ritrose oscurità e gli aneliti tentacolari ansiosi di venir risucchiati indietro nella loro tana, tutti i cuccioli di tenebra di questo mondo. La catastrofe che qui si è abbattuta un tempo è senza nome: e perché dovrebbe averlo, tra tutte queste tempeste di sabbia che si disintegrano anonime, che cancellano gli orizzonti in una bruma d’informazione troppo veloce per esser codificata dai mortali? Recano forse, queste parole di singolarità trasformate in libri, i dati sulle tempeste di sabbia accanto a quelli del meteo e della geografia nelle carte sul territorio? Solo un dato recano! Il passaggio e la devastazione che la tempesta causa, l’esito di ogni movimento, la loro presenza che per i mortali, limitati dai sensi e dal loro contrario, ha sempre un solo significato. Rovina a terra.
In un istante vedo: come in un racconto di campagna dell’est, dove una villa d’antiquato gusto si scopre essere una dimora diroccata e la sua dama una bestia fantasma da tana, di zanne e pelame smosso: luci dapprima inesistenti mi si palesano, calando oblique dai buchi e le assenze di soffitto di questo scheletro aperto, spargendo pulviscolo argenteo sulle colate di sabbia: e in un istante si squarciano, come nel passaggio rapido dell’ombra di una nube, e, per quel solo istante, ecco squarciati anche i veli che nascondono le essenze, ecco cosa contiene il mondo d’ossa: altre ossa. Tutti i libri, tutte le arguzie di scimmie deambulanti o di jinn, di tapiri spettrali e di stregoni trascesi, di sfingi ed enigmi dalle molte teste: tutti sono maceria, c’è davanti a me un cumulo d’ossa e polveri e non so cosa dicano. Arrampicata in cima al tozzo mucchio di ciarpame, intenta a scavare, mordere, ansimare, sta una iena striata, rumorosa e continuamente vibrante nel tremito propagato dal centro del corpo, silenziosa nel velo di grigio che porta, come una vestale in strano lutto fluttuante all’orizzonte di una terra desolata significando un presagio che modifica la sorte.
Sembra avere un volto perennemente contratto in una smorfia di ferocia, come dicesse “vai via, vai via”, oppure, “sto per attaccarti”. È aggressiva oppure è fragile? È una vipera tra i mammiferi e mi mostra lateralmente, tra gommosità di labbra nere, una dentatura bianca, e il suo occhio -pulce nera di veleno cristallizzato in bulbo- scruta ciò che ha alla destra e alla sinistra, e senza curarsi di me, se non con quell’espressione fissa, mi volge il profilo, e continua a masticare, a cercare spasmodicamente. Rimango per un po’ a osservarle nel collo il crine che sembra acuminato, i suoi pungiglioni disciolti in ciocche, che sembrano ferirla, disegnare una lacerazione là dove scorre il suo respiro.
Dai denti, dal torace gonfio come quello d’un cadavere e dei preta vagabondi dell’invisibilità tutt’attorno ai viventi, continua a levarsi un rantolio che cresce assordante. Lo sento dentro, trasmesso, vibrazione per vibrazione, in un invisibile, perpetuo assalto nell’aria. Sembra distruggermi quando mi corre dentro in branchi che cacciano le prede per sfinimento. Senza mutare atteggiamento, né lei il suo, restiamo, chi davanti ai tumuli disvelati dell’animo umano, chi alla loro cima a rosicchiarne i residui masticabili, semplicemente così, come ci siamo trovati, e capisco che lei è uno spirito di questo luogo, che di questo luogo conosce certi anfratti dove è possibile riposarsi, dai quali quando si avvertono un languore e un vuoto è possibile uscire a procacciarsi qualcosa in un mondo là fuori, del quale ci si stancherà presto, il quale si rifuggirà ripercorrendo gli stessi passi, finendo negli stessi precipizi nascosti, con la stessa rapidità e volitività dei rettili -per essere ogni volta un mutaforma, per essere lucertola, aracnide, e ora anche falco bruno e bianco, lassù nei cerchi del volo; ma non è stato che il passaggio di una nube. Vedo le pergamene e le lastre. Le rilegature ammuffite e quelle cosparse di polvere d’oro decaduta. È stato un istante che ho respirato intero, un singolo, profondo, interamente vissuto -unico tra tutti- respiro cimiteriale. E in piedi dov’ero, com’ero rimasto con la vita guardiana che ancora lì invisibile starà cibandosi di ciò che è già scomposto, sento che in questo edificio d’ossa, in questo deserto, esiste una quiete immensa.
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AUTOPSIA: SCUOLA ELEMENTARE:
La scuola che emana il respiro di un teschio rituale poggiato su un altare: ne avevo visti in una foresta, un lungo corridoio di felci e orme giganti di sauropodi attraverso il quale fuggivo, nelle ore d’apparente noia, che erano ore di terrore -c’è davvero un unico corridoio che potrò percorrere nelle mie peregrinazioni affannate, in cerca d’un nulla che non esiste? Dovrò davvero rimanere, per sempre, in questo corridoio di alcol fucsia fosforescente, di tempera e foglie morte appese alle pareti troppo lisce e troppo ruvide al tempo stesso? E non si tratta di un corridoio di quei rari momenti in cui nelle narici tue sale la poesia anche dalla polvere e dall’autunno che procede a strisciare verso l’estinzione, in cui la luce delicatamente pare disintegrarsi quando scende dalle finestre rettangolari sotto il soffitto, e accoglie al suo interno un riverbero crepuscolare evaporato dai sentori tutt’attorno improvvisamente materializzati in veli danzanti, dai respiri trascorsi di chi ha avuto modo di attraversare il silenzio totale, di porte chiuse per le lezioni in corso, e parevano svolgersi in dimensioni aliene, tanto apparivano mute. No, il corridoio in cui ti si vuole chiudere è un altro: soltanto quello dei momenti resilienti, convinti, dittatoriali nella loro verità: momenti in cui odi (ascolti o detesti?) con una forestiera potenza di viscere, con tutte le inesplorate profondità di te stesso, il friggente grido che emerge dal sole di giorni malati intrappolato nelle finestre e da una chimica pulitrice, igiene dispensato all’eccesso su ogni minima porzione di pavimento e parete e angolo, t’irrita le dita quando le strusci accidentalmente contro un mondo di detersivo. La scuola vuota vuole avermi dentro. La foresta, altrove, vuole avermi dentro, in altro modo, e io voglio essere dentro lei: rannicchiato con la faccia sulla superficie d’un banco untuosa di ditate e di placca verde giada, vengo trasportato in un sonno come di coperte di fogliame e aghi che nascondono alla vista il contenuto di un nido, riparato alto nel buio di fronde.
La scuola, in realtà, prima che io raggiunga il cortile allontanandomi in galleggiata spettrale dalle altre vacuità della città dormiente nella passeggiata notturna, vuole abbracciarmi: sono un edificio di accoglienza, mi dice, sono materna ed enorme: lascia che io ti allatti, lascia che una premura invasiva ti circondi con titaniche braccia di cemento, per trascinarti e al petto, e con gli adornamenti di questi arti, i suoi gioielli d’alfabeto e lavoretti festivi, t’insegni le nozioni, ripetendotele in mantra come ninnananna che t’affievolisca l’irritazione così da poter varcare la soglia del sonno, e affinché in sogno tu ricordi, ripercorra tutto, tutto ciò che hai trangugiato, vergognosa creatura atrofizzata assetata di latte, bisognosa -hai dentro te le mie nozioni ora, primi pezzi d’ossa, impari che a ogni cuscino di carne calda, quale io voglio apparirti, è legata una vertebra angolosa, e ti confonderò le due cose. Ti dirò: tu non sai cosa è che cerchi, tu cercherai il calore del grembo in una fossa comune là nel tuo cervello, dove si riversano manciate caotiche di materia già morta, tu cercherai la vita nell’unico latte che ti lascio, cognizioni, leggende: vedimi, ora che sei cresciuto, che ancora mi ergo in questa notte d’estinzione della città e della civiltà, io sono le leggende dei bambini che andavano a inscenare prove di coraggio nei miei corridoi intrisi della più sinistra oscurità, perché fa tanto spavento vedere svuotato ciò che al volgere d’ogni giorno pullula di movimenti, recite di vita indaffarata: fa pensare che sia tutta una farsa: che la mia vera faccia sia questa, e che la vera faccia della luna sia quella in ombra, che tutto il mondo e anche la tua foresta non sia che un rovescio di forze desiderose di annientarti: io invero sarei dimora di spettri, a ogni gorgoglio dei lavandini e ogni scricchiolio di vecchia lavagna non sollecitato vedi questi ectoplasmi tremare, donandoti in nuovi brividi lo stesso raccapriccio di passi di blatta sulla tua pelle.
Procedo, quasi verso il centro dell’aula comune, dove si attendeva la campanella, quando passa un bagliore ultraterreno attraverso le finestre arroccate -possibile che sia un faro di automobili nella città deserta al centro dell’estate? O è un bagliore programmatico, un fuoco fatuo che deve esserci nel destino del buio coi suoi transeunti scrosci di pneumatici e biancore? Qui, al centro, e passa il bagliore, e vedo, là dove si sarebbe erto un monumento se la scuola fosse stata una cittadella, il suo custode: a comandare gli spettri delle oscurità disabitate, si contorce, gioca con particelle di sporcizia appiccicate in fondo al suo seghettato brulichio di zampe: l’insetto notturno, di corpo schiacciato e lunghissime antenne, ha un gigantismo pasciuto d’irrazionale che ne fa un vitello tra gli artropodi, così grande che ne sento l’odore pungente, d’umidità e putrefazione, e dell’immondizia che ingurgita, riuscendo tuttora a estrarla da qualunque spazio, da tutto ciò che ci circonda nel ventre di questa scuola: verso di lui converge con forza gravitazionale, striscia sul pavimento richiamata, librata da polveri e pattumiere e legname sgretolato e trucioli che ricoprono vomiti e piogge, indesiderate secrezioni del giorno: assorbe con gusto, vedi l’istinto suo fibrillare nella singola goccia bianca degli occhi neri, vedi là dietro pulsare il suo cervello di operazione, incessante sopravvivenza, contorcimento inestinguibile di zampe che sanno toccarti senza contatto, sanno spargere malattie sui tuoi pori mentre osservi dalla distanza. E prontamente obbediscono quegli spettri, dai gorgoglii e dalle lavagne, perché portano umidità di falde nascoste, portano ciclo vitale e morte del legno: insetto che un tempo era uno spirito della corteccia putrida e dell’umidità, ora rifugiato dentro gli edifici, dentro madri di cemento che tutto vogliono avere in gestazione, e partorire, e imprigionare. E nell’addome vedi palpitare un’altra gravidanza, ovoteche d’invasione attendono, scolaresche di creature ctonie che come me si spargeranno e andranno in gita e cresceranno dissipandosi come piante parassitate, e brulicando nel caos si ritroveranno, in un futuro stadio delle loro metamorfosi, negli stessi luoghi, a contemplare i luoghi della nascita, il tanfo placentale che intride il vecchio deturpato nido.
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AUTOPSIA: ACQUARIO:
L’acquario è stato abbandonato e tutti gli inquilini delle vasche sono stati trasferiti, mandati in vacanza, messi in fila, loro del mare, in un traffico che dalla spiaggia procede indefinito verso un torrido snervante ritorno, verso paesi d’entroterra ignoti, verso garage dove infine verranno riposti gli ombrelloni, le borse trasparenti, i costumi a righe, le radio portatili; acquario edificato in anni prosperi mostra ora solo carcasse di vetro, mostra ora le acque rinchiuse in contenitori che non sanno più che farsene: sono il solo visitatore, in questo momento. Chissà se in altri momenti viene qualcun altro, a far visita, forse, all’unico inquilino rimasto, in unica vasca, l’unico a non esser stato ancora trasferito, trapiantato in altro flusso di corrente, movimento che prima o poi porterà anche lui altrove, verso altri lidi consumati ed erosi e frastagliati d’alberghi con gli scudi fulgidi esposti al sole e le antenne e le parabole e i condizionatori coi volti di cernia nel vuoto di balconi. Gira avanti e indietro, agitato, in perenne ipocondria per l’arresto cardiaco che lo coglierebbe se smettesse di nuotare, lo squalo martello quasi settantenne. Occhi spenti, simili a cartacce; conservano in pieghe prossime a disfarsi, disciogliendosi in oblio blu salino, il ricordo di un’inaugurazione, un vetro, visto per la prima volta come fosse appena sgusciato dalla sua borsa di sirena, come ad aprir la vista per la prima volta fuori dalle membra della sua madre oceanica -che cos’è questa barriera che splende e che mi custodisce e sembra far scivolare verso me i suoi segnali luminosi? E dall’altra parte mani, polpastrelli, dita che stringono lecca-lecca, bocche allargate, occhiali scuri, volti traballanti e scomposti in ghirlande deformi di pesci luna. Così si sente, così pensa, qualcosa che è pura acqua, fluidità, e si ritrova un giorno dentro uno scrigno, un portabagagli, una gabbia toracica, un cuore, un ammasso di cellule.
Vieni all’acquario, e forse sei già dentro un’illusione della luce appartenente alla stessa specie di quelle che negli altri edifici t’hanno fatto vedere il vero e nascosto e inespresso, perché è un edificio e una teca che forse per sua natura t’accoglie in un innaturale blu profondo, ti accerchia da pareti e acque, piscine lussuose -i pesci e i cetacei vennero calati, nel medioevo di benessere, dentro pozze opalescenti imparentate a quelle che venivano incastonate nelle bianche terrazze, sollevate sopra il vento del mare. Vedi già com’è lo spirito, lo spirito più spirituale tra tutti quelli che hai incontrato negli edifici, perché immerso, perché agitato, perché morente: schiaccia mano unta contro il vetro e credi d’accarezzarlo, quello squalo che passa dall’altra parte e lateralmente ti capta col suo muso di ghiandole, impotente, ti sembra che ansimi dal labbro inferiore dentato con la sua semiapertura che cerca rimedio, e dalle branchie, una ferita inferta dall’evoluzione come prezzo per poter respirare nelle profondità. Chissà se dal mondo d’acqua e vetro ti vede, uguale forse al bimbo che nell’inaugurazione festante si schiaffava contro la barriera quasi a volerla attraversare, estasiato dallo zucchero e dagli altoparlanti e da una promessa, d’acquari per ogni città, d’intere metropoli di grattacieli vitrei e pieni d’abissi, rifulgenti sotto eterne estati. In un giorno placido, in cui acque artificiali, come il mare e la natura, sembrano voler mandare un encore di ultimi nostalgici scrosci, uno squalo ripercorre i suoi cerchi, e gli sembra di riascoltare, fibrillanti nel più profondo dei suoi sensi acuti, gli attutiti sound del boogie e il doo-wop circolanti nell’impianto agli angoli d’ogni vasca, rumore che s’immergeva andandosi a mescolare alla stirpe dei pesci; e il suono del linguaggio, lische vergate nelle targhe, a spiegare il contenuto d’ogni boccia, come al negozio d’animali con i prigionieri portati dalla barriera corallina: qui nuotano anime, creature esotiche, d’un mondo alieno il cui accesso è precluso all’uomo: ma ecco, egli può rubare, egli può mostrare, vedere tutto in vetro. Qui giace un contenitore.
Sarà demolito un acquario, con me ancora dentro, e scrosceranno attraverso le vie e i palmeti del lungomare i suoi contenuti, spuma blu come un sangue diluviante d’apocalisse, e frastuoni di vetro, intelaiature, cavi elettrici in contorsioni caotiche e scintillii d’anguille nella risacca. E non si sa se si vedranno emergere dai flutti, lasciati liberi d’imperversare in città, i miei arti scalcianti, e accanto una pinna solitaria, grigiascura che sferza la corrente, come da una massa buia che nuoti in acque basse d’atollo, come da leggende di avvistamenti di identiche pinne dalla prua di un veliero. Qualcuno, qualche sopravvissuto in cima alle sporgenze e i grattaceli più alti, la vede da lontano: e sembra in quel momento di vedere l’abisso in persona dentro un simbolo di pelle e cartilagine, abisso con tutti i suoi misteri di vita sconosciuta, e sembra contemporaneamente d’averlo dentro, negli occhi, che scava, e continua ad aprirsi, a scendere, squarciando tenebre lente e fresche in una cavità che già esisteva dentro sé, attendendo di scoprirsi liquida, silenziosamente abitata, primordiale; poi la pinna s’immerge, la leggenda, sparisce, si confonde la massa buia con la schiuma che l’avvolge e che infuria, sfrangendosi contro i cartelli stradali, i parchimetri, inesorabili argini di infrastruttura; ed è stata solo un passaggio raro, che nuota forse ancora, setaccia un fondo di nulla -giungeranno fin là, dovunque sia quel mondo, i segnali elettromagnetici di questo? Chi osserva l’esondazione si chiede se lì, nell’altrove cui essa conduce, si riescano ad ascoltare i chiacchiericci di quaggiù, l’allunaggio e le stragi, le hit estive e le sparatorie, e cosa ne penserebbero, squali di fondale, che finalmente hanno lasciato la loro interminabile preistoria, e forse riposano -sì, forse si sono infine concessi un arresto, una resa di membra che devono inabissarsi, stare cioè dove devono, nella tana cui appartengono.
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