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Arsura

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 18 set 2022
  • Tempo di lettura: 24 min

Gli entrarono velocemente in bocca le salate frattaglie del mare. Le labbra sostituirono gli occhi nel privilegio di conoscenza del mondo, e mentre nei polmoni penetrava una morte violenta di fuoco che sembrava non aver ragione d’esistere sott’acqua, sentì di maledire le divinità con le ultime particelle di linfa vitale che, brucianti di follia per un terrore primordiale, faticosamente sopravvivevano in un debole flusso nelle meningi e nelle vene. Affioravano a volte fuori dall’acqua, per ricordare il sole, per testimoniare l’annaspo sotto il cielo dei mortali. Moriva, o sognava di morire forse, come il lontano ricordo di una fantasia collettiva, un rituale all’altare tanto tempo fa, prima di scegliere il legno della barca come proprio unico suolo. Odore di oli scroscianti da pelli ovine, fiaccole simmetriche… e maledizioni e bestemmie. Gli dei gli avevano dato occhi per vedere e lo avevano tuffato in un mare che bruciava quegli stessi occhi, infilzandoli col sale e l’odio rovente, predatore, respirato da infiniti pesci pilota e pescecani sotto la superficie. Le labbra diventavano ponte col mondo.


Salate frattaglie del mare attraverso la lingua, singola serpe di muscolo a connettere le labbra del discorso alle profondità dell’io, incastonato nello sterno. Nulla poteva vedere immobile o messo a fuoco, l’acqua entrava nelle palpebre e le corrodeva. Ombre deformi delle frattaglie del mare rifratte attraverso la nebbia verde che, cristallizzata nei suoi atomi da spigolosi frammenti di sale e fluidi verdazzurri antichi, lo ammantava tutto. Strattonando se stesso, e così sentendo traballare nell’alcova ossea dello sterno quella mosca patetica chiamata “io” fin quasi a scardinare i propri lembi di dorso dalle pareti di una crisalide, trascese il proprio senso di resa e d’odio del mondo: era riemerso, con bracciate, con calci che, fluttuando a vuoto in un’acqua d’omogeneo sconfinato nulla sotto le onde, sembravano per sempre omaggiare in danza la mancanza di direzione della violenza, l’impossibilità d’identificare i nemici in quel mare che era la vita. Il terrore che gli aveva creato ombre ostili attorno a tutti i confini di tutte le lunghe notti, solitarie o in ciurma sul legno galleggiante, voleva sempre che sotto di sé trovasse i vortici o le zanne delle profondità e provare terrore, e fuggire per poco, e ferire. Odiare almeno qualcosa che esiste. Presso gli altari e con gli dei, sulla terra che l’aveva plasmato prima dell’acqua, aveva imparato il verbo “combattere”. Combatteva solo per stare a galla.


Onde verdi e bianche, il sole bruciava una vita autorigenerata sul palpitante prato delle acque quasi sconfinate, fenici di vita e morte rimpicciolite come spermi dentro ciascuna delle sfere minuscole che in isole lontane a est del mare avevano chiamato atomi, costringendoli a esistere. La barca non si vedeva, da nessuna parte. Non sopra, non sott’acqua. barche lontane. Promontori lontani, solo questo. I gabbiani, quello scricchiolio che fanno soltanto quando sono in mare e mai quando sono in città. Queste le impressioni sconnesse che raccoglieva, godendo ogni respiro prezioso. Labbra soltanto a galleggiare al di fuori della superficie. Carne che capta odore ruvido di brezza, sapore eccessivamente salato del verde. Le frattaglie del mare, erano legname sfilacciato, erano sottili e molli, erano tranci di medusa, tranci di medusa o altre imbarcazioni defunte altrove.


Legno? Una riva, doveva essere vicina. Conosceva, tanta era la sua esperienza, il sapore dei legni delle barche sconfitte, un dato sensoriale misto del sudore che si leccava di dosso sentendo se stesso in un sapore di pelle screpolata, e di resina. E non era solo quello: c’era sapore di grani di terra, strappata e pendula in fondo a filamentose radici smarrite. E un ronzio indistinto, ma di certo altissimo, già lo investiva in quel momento, spaziotempo in cui della sua barca non era rimasta alcuna traccia. Sparita per sempre nell’acqua un po’ torbida, eppure così pulita. Risplendete sotto il sole, sotto il giallo riflesso come in specchi d’erbaccia secca sulla nuca di un promontorio distante, vicino, distante, vicino.


La costa. Riuscì a voltarsi in poche forti bracciate, e vedere. Quella era la costa. E un fragore torrido si sollevava dalle chiome multiformi degli arbusti della macchia, e dalla selva in cui si tramutava sospingendo tentacolarmente le sue membra virescenti all’interno dei rilievi oltre la linea dell’orizzonte, oltre le distese di dune che spadroneggiavano dalla spiaggia, per qualche tratto dentro la boscaglia. C’era civiltà laggiù? L’avrebbe cercata, tra i pini sacri all’impero. Avrebbe cercato i santuarietti per il Nume e la Ninfa. E una strada. Le lastre, impossibile non riconoscerle. Anche loro, a fare da mattonato, paiono annegare, nella terra o nella sabbia, o essere incerte sulla propria appartenenza, alla superficie o al sottosuolo -pensava così alle strade della civiltà e alle superstizioni dell’animo di tutti, mentre già l’abbandonava l’odio per gli dei e lo ritrovava un volere di salvarsi, raggiungere la costa. Le lastre. Estratte dalle isole vinte con la guerra, o dai sottomondi dei diavoli conquistati con spade di linguaggio inciso sopra i cancelli di tutte le prigioni, tutte le fognature. Lastre d’una pietra calpestabile, paiono sopraffatte da una patina di granelli, le rende opache, come imbottigliate immediatamente al di sotto del suolo, presenti eppure… impressioni confuse. Cervello che diventava una mattonella, bramando la civiltà che avrebbe sperato di trovare una volta raggiunta la costa. Bracciata dopo l’altra, tremore muscolare che reagisce ai morsi di curiosi piccoli squali. Possibilità d’incontro in mare, un reame pieno di esseri che si contorcono, si agitano. Forse un tempo anche loro come lui, tutti precipitati da imbarcazioni, di cui non è rimasto nulla.


Decise che questo era un mito, scoperto da se stesso per se stesso, proprio lui che era scettico tra gli smarriti e gli orfani, peregrino del mondo senza mondi, onde e deserti di spiaggia, elemento acqua ed elemento terra che continuamente ridisegnano se stessi, reagendo al vento e al fuoco. I nemici del mare, che lui aveva creato nell’immaginazione costantemente allertata dal rischio della caduta, erano figli d’un dio padre di squali che un giorno come lui era precipitato di barca, per aver offeso altri dei, altri principi che nascosti e dispotici regolavano mediante vibrazioni distanti tutto ciò che si manifestava alla superficie percettibile. E anche squali e razze e murene, e i coccodrilli di scaglie d’oro degli dei stranieri, tutti nuotavano in un flegma di vita e morte, un brodo amniotico in cui, odiosa e affamata di vivere, pulsava la volontà.


Avrebbe ricordato solo frammenti di quei pensieri, come ricordi delle ultime processioni d’immagini in un dormiveglia. Non avrebbe ricordato l’altro sapore, l’altro mondo incontrato dopo quello del mare e le sue frattaglie, un sapore lacerante di spiaggia. Un rumore di spada solare quando le tempie furono trafisse dalla luce, e il corpo si trovò fradicio sulla battigia a bruciarsi per ore.


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Così raccontò a quelli che aveva incontrato davvero, uomini di carne e sandali, civiltà. Qualcosa esisteva lì, calpestava la crepitante distesa sconfinata di aghi di pino, che riflettevano vividi il rossore riverberante attraverso le piastre di sole incastonate tra i rami, manto della corteccia. E le cicale, assordanti, rendevano l’intera spiaggia e l’intera selva una singola palla vibrante. Era in un nuovo mondo, separato da un globo di suono. Il tratto di mare al quale era sopravvissuto grazie alle braccia era parte di quel mondo. Sopravvissuto… no, entrato in altre regole. Con gioia aveva comunque tentato di mostrare un cenno a coloro che l’avevano incontrato. Gioia contenuta: la cultura degli uomini della terraferma è qualcosa di austero. Lingua comune, prodigio di civiltà simile alle strade, per raccontare la propria provenienza lontana, e farsi capire, con probabili orecchie o vibrisse di dei in ascolto nei nascondigli dell’ambiente.


Tutto andava bene. Potevano intendersi, sedersi insieme. Cessione amicale di un liquore imbottigliato: lo si usa per gli annegati, i quasi annegati, insomma i poveracci che conoscono certi capricci indomabili del mare. Dea femminile? I due stranieri, non stranieri tra di loro, si guardarono e risero, scambiandosi un cenno che solo tra loro potevano intendere. Chi siete? Domanda rapida cui viene presto risposto -attendevano forse di sentirselo chiedere. L’uomo sopravvissuto e senza barca sentiva il sospetto sollevarsi nel proprio addome, risvegliato come il vermone di miniera venerato nelle storie più vecchie della sua terra. Si capì da quanto dissero che erano di quella gente strana di cui aveva sentito parlare, in porti trafficati, in storie mai ascoltate per intero. Pagani anche per i pagani stessi, più eretici degli eretici, forse di quelli che bevono nettari strani soltanto sotto le foglie e i rami fitti? Facevano strada per il folto, su una strada senza mattonelle, senza civiltà. Striscia compatta di paglia gialla, si calpestano nel sottosuolo i passaggi dei cinghiali e dei leoni, scuro e giallo nel fitto, movimenti di caccia e furia selvatica.


Lo stavano conducendo dal Nume in persona. Un timore fatto di febbre, sintomi vacillanti del mare e pegno della sopravvivenza, tremavano nelle gambe e le ossa, impercettibilmente, vincendo la tempra nordica e diffondendo nelle vene la consapevolezza del sangue unico che tutti eguaglia nella penisola, una vertigine di fronte al mistero e al divino. Ma vide comparire, sempre più vicina come una forma ibrida di ignoto e riconoscibile che emergesse dall’ombra, una figura mezza umana.


L’uomo giunto dal mare contorse il volto. Mostrò eterno disprezzo per quell’apparenza di cervo, quella sua masticazione di bacche e noci -di questo solo si nutre, egli si identifica nel cervo e rifiuta le carni che i sacerdoti delle capitali rendono sacra ungendola d’olio e parole che qui vengono disprezzate. I rami gli si conficcavano nel cuoio capelluto e avevano forma di palchi, e un legno della stessa consistenza del corno. Seduto per metà su una roccia e una ceppaia, le ginocchia a punta, osservava con occhi immobili. Tracce di fango a mosaicargli il volto. Le corna, spiegarono i suoi accoliti, se l’era ficcate in eterno dolore, un giorno, per completare la sua trasformazione. E subito per placare il dolore aveva ingerito la sostanza, succo di funghi ed erbacce: così aveva dominato il dolore, e l’aveva visto mutarsi in interminabili raggi sparati dai due fori nel cranio, verso il cielo. E i raggi avevano connesso tutto, il sopra e il sotto, risolvendo ogni mistero dell’esistere, mentre gridava fino a squarciarsi dentro, per sempre.


Lo guardava con disgusto, degenerazione dell’uomo e della costa.

Che uomo sei?, gli ringhiò tra i denti. Ma ogni grido e ogni fantasma di petto abbandonò la forma del suo petto, ridotto a meno di se stesso. Ogni muscolo perse l’anima. Il modo in cui quell’umano, quella creatura rideva, faceva rabbrividire le bestie più feroci e i mostri d’inferno. Quindi anche gli uomini. No, non era un ghigno d’uomini. E l’uomo del mare, senza barca, credette che l’allucinazione segreta provocata da quella loro sconosciuta lotofagia si stesse estendendo fin dentro lui. E alle cicale, intorno, vibranti, mentre precipitava. Una spaccatura di migliaia di minuscoli dentelli bianchi che si era aperta nel mostrare una sincera risata, sul volto rosa, e marrone, e fatto di vera pelle di cervo. Da far pensare che se la fosse cucita, sotto la pelle umana, in un altro rito di dolore e trasformazione, cucitura chirurgica di rovi dentro i muscoli della faccia. Un prurito, dentro lo sterno, sede del sé, e un capogiro subito dopo.


Poi un tonfo: per un solo ghigno di quell’essere era svenuto a terra, completamente stordito nel cuore della palla sonora delle cicale. L’odore di pineta sottoforma di pugnali d’ago gli recideva i vasi sanguigni delle narici, facendogli sentire in un singolo atomo -cristallo di sale- tutto il mare, il sapore verdazzurro di prima, il legname frantumato, la selva, le bestie, il cielo.

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(visse per un po’ dentro un silenzio, nascosto nelle pieghe del rumoroso mondo d’arsura, per tanti secondi simili a secoli, separato da ogni cosa del mondo. Parlò in un dialogo di febbre torrida. Come non avesse mai smesso d’annegare, mai salvandosi dalla prima e più veritiera forma che il destino aveva assunto per lui, solo per lui, sulle onde già toccate dal frinire.)

(e affondando sentiva nel singolo atomo tutto il legno e le bestie e il cielo.)

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Dialogarono le due separate e inconciliabili immagini, compenetrandosi nell’odio, nella segreta necessità della sua completa estinzione. Erano in un mondo di biancore, precedente il sonno e la veglia.


[dialoga l’uomomarino]

[Precipitato in quella buca che si apre sotto di me quando mi addormento sul suolo caldo sul nonsuolo sull’annullamento di tutte le cose. Ogni cosa ha una controparte, non. Ogni cosa non ha una controparte. Non ricordo bene, non ho mai. Un uomo che è andato per mare non ha mai fatto di questi ragionamenti. Ma per la prima volta precipita in una buca. E in questo mondo non trova né se stesso né quel tiziocervo. Non si accorge che i due sono in dialogo, non mi accorgo.]

[Il nero diventa bianco e il mondo è una tavola svuotata di colore. La bonaccia. Un bianco d’occhio spumoso chiamato onda chiamato residuo salato della cima agitata delle acque si allarga fino a diventare unica cosa con il visibile. La schiuma poi perde irregolarità: bonaccia che adesso significa schiuma piatta. E un nero diverso s’apre in me che ci sono caduto. Non è il sonno non è l’allucinazione che come un morbo contagioso mi hanno passato quelli là, attraverso il respiro attraverso la somiglianza del sembiante ovvero l’appartenenza a una stessa specie: umana. La trasfusione dell’esperienza di individuo in individuo permessa dalle mappe del sistema circolatorio totalmente sovrapponibili. In terre lontane sottomesse a Roma le genti deliranti in un sogno di preghiera leggono il cielo leggono il sangue tutto si identifica in un’identità singola. Sono un gigante che guarda dentro un gigante. Anzi, dimentico, dimentico dove ero. Non c’è spiaggia non c’è pineta, non ci sono i selvatici che mi hanno accolto a modo loro offrendomi la fiaschetta che aveva il sapore di veleno puro distillato da noci silvane di morte pura. Non c’è l’allucinazione allora nemmeno. C’è solo che sono annegato. Ma lo sono?]


((dialoga l’essere-cervo))

((Sono una cosa portatrice di ghiandole. Le lego al collo. Ho una collana di ghiandole infilzate dal filo che le accomuna, le rende parte di uno stesso oggetto. Collana. Ghirlanda. Fioriture e boccioli di corpo nervoso sanguinolento fioriscono e raccolgo, rendo omaggio con la raccolta, periodica ben regolata. Ritmi inscritti nel mio corpo, il mio scricchiolar d’ossa controllate. Ho manovrato la crescita d’ogni particella di membra ho adempiuto a un disegno astrale a un disegno che qualcuno ha messo qua da qualche parte prima che io venissi. Una notte le corna infilzate hanno ripreso a farmi male. Come quando. Bevvi, bevvi, bevvi e il ventre mi scoppiò di fuoco. Liquidi e lava fuoriuscivano dai rigonfiamenti dei miei intestini il serpente dormiente dentro me la spirale precipitante nella singolarità. Corsi per i boschi mi strappai le carni dei piedi nonostante la callosità nonostante gli zoccoli sviluppati. Troppo forte correvo perché il suolo spinoso non si avventasse. Tracce di sangue mi condussero a una caverna dove piansi insieme al soffitto che lacrimava la lunga genesi del calcare. Che male faceva. Per quanto avevo bevuto balzai avanti. Infezione la chiameranno quando la mappa del cielo sarà mutata. Non vedo se sarà mutata quella del sangue. Di sicuro la mia. Esseri-cervo ostracizzati in qualunque futuro, divinità androgine di trasformazione. Io sono il mercante senza merce il mercante astrale dei fiori decapitati e dei grumi infilzati in collana, la mia raccolta omaggia la selva che mi ripaga nutrendomi di noci, cervelli in frutta semi in meninge. Protetta da guscio metafora di noi. Sguscia il tuo guscio rompi il tuo legno trova il tuo modo. Io l’ho trovato: identificarsi nei portatori di corna estetiche e corna sacre, gli erbivori che scalpitano sviluppano corna e palchi così da perforare la membrana dell’uovo, infatti sono ovipari, tutti gli animali sono ovipari cioè nascono rompendo un guscio vivono volendoci ritornare rannicchiarsi di nuovo nella non nascita. Questa la verità che ho offerto all’uomo giunto dalle onde con cui sono in dialogo adesso nel Fiume Bianco. Gliel’ho protesa con una zampaccia sporca di terra appoggiata lì sulle mie dita e palmo color giallastro sporco per i calli rigonfi. Li lancio contro le cortecce per indurirli schioccano i suoni della boscaglia sono i continui rintocchi legna e corno e nascondimento dappertutto. Ma ora ascoltiamo lui. Che ha visto i frammenti vischiosi di uova appoggiati al mio palmo giallomarrone. Io ti ascolto che affoghi nel Fiume Bianco. Sei un affogato tra i tanti.))


[dialoga l’uomomarino]

[Affondo sono affondati tutti. Siamo affondati e su questo fondale che non credevo sarebbe mai stato bianco cerco le ossa le vestigia bianche che possano confermare che proprio tutti siamo così. Non trovo. Non si precipita in una buca nera apertasi sotto il suolo bollente per poter fare un viaggio e imparare qualcosa, adesso l’ho capito. Nemmeno il viaggio per mare. Parto vado a commerciare vado a vedere le coste lontane, amare gli occhi di colori diversi perdermi negli odori d’unguenti nausearmi di sudori diversi. No, non vai a fare niente, vai a morire, mi ruggì contro il padre, mi pianse dentro la madre. Il mare è la morte, il mare è la morte, e pure la foresta e pure la montagna dovunque vai, tu vai a morire. Ma non sapevano e mai sapranno che è stata la barca a morire per prima. Non ci sono dettagli diversi da questo: non c’è la costa non gli animali non le cicale anzi loro sì o meglio la loro bolla di rumore che si chiama tempo. Ma il resto no. Solo la barchetta che si distrugge e nient’altro e non so nemmeno cosa è stato. La folgore del padre degli dei, lo scoglio del dio battagliero con cui riveste le ginocchia del suo cavallo. La barchetta è esplosa. Ho assaporato le sue parti o altra legna che nel mare si disperdeva. Arriva alle altre coste così come alle nostre giungono parti di legno sconosciute, dal tempo lontano da geografie lontane. Non ci sono viaggi non ci sono commerci. Le colonie nostre sono collegate dal legname dal sale sono collegate soltanto dalla spazzatura che sott’acqua nuota. Un pescecane spinoso limaccioso nelle branchie palpitanti da fondale buio marronescuronero viene a mordicchiare per comprendere -perché è creatura inquisitiva, non come l’uomo di mare che dalla barca precipita. E adesso sa. A casa non ritornerà mai più. Solo questo impara: che a casa non ritornerà mai più.]


((dialoga l’essere-cervo))

((E non c’è altra lezione che si possa apprendere. Oltre alla verità delle uova da cui veniamo.))


[dialoga l’uomomarino]

[No non verrò a stare tra gli altri reietti perché sarebbe una lezione a metà e non voglio perdere non quella maledizione almeno non quella. Ho perso già l’imbarcazione ho perso le onde il loro essere qualcos’altro da dolore impatto sui muscoli credo che i miei organi interni si siano disintegrati sono un vaso contenitore di pappetta molle indistinta e non collasso solo perché degli inibitori di dolore sono in circolo, ultima spiaggia letteralmente del cervello che non gradisce di vedere il collasso completo del corpo che lo contiene. Non posso perdere altro non posso perdere quello che ho scoperto e cioè che non tornerò a casa e questo significa che non posso conoscere nemmeno un altro luogo che si chiama casa. Lascio a uominibestie la mansione di erigere tempietti ai numi selvatici col fogliame nei capelli e le unghie scheggiate, lì dimora un organo del dio come in un canopo. Io non dimoro io sono uomomarino senza imbarcazione senza porto del ritorno senza amici e famiglia che mi avevano visto partire sull’acqua e sempre più allontanarmi e scomparire. Griderò fino alla fine dei giorni e saranno miei compagni il lampo sulla landa e il veleno delle bestie come sta forse scritto nella lingua aspra di quella tribù esoterica. I credi e la civiltà stanno dove stanno i templi e le costruzioni, non qua nella costa che si crede bosco. No fognature, no, solo un’unica cloaca del mondo, il mare in cui s’affonda. Sono scarto di me stesso e quando tornerò dal bianco di questo posto non farò che urlare fino a consumarmi fino a uccidere gli uccelli le cicale le cose dell’aria.]


((dialoga l’essere-cervo))

((E cadranno le crisalidi e le esuvie dai rami intrecciati dei pini. E sarà caldo e stridore di pelli morte. Esoscheletri solo rimarranno al passaggio di un tizio che è nato che è cresciuto mentre sotto il suolo un lombrico carnoso si contraeva comprimeva un passetto impercettibile dopo l’altro sopra i grani inferiori del suolo schiacciato al contempo dai grani superiori. Produce farina di terriccio vivendo. Esoscheletri soltanto come tracce di quello che è nato cresciuto partito per mare annegato come tutti. Non venire con noi fa come ti pare. Io nacqui crebbi conobbi l’abbandono e annegai come tutti. Ho trovato le corna per bucare il mio uovo, e rinascere. Sono io che il tempio custodisce, cuore imbalsamato dentro le porte del tempietto. Profanalo e la voragine si aprirà. Non sono un capo, non è questo il significato delle corna. Non parlo per farmi obbedire.))


[dialoga l’uomomarino]

[Ma c’è qualcosa da dire che non sia un urlo un grido straziato?]


((dialoga l’essere-cervo))

((Non c’è una cosa da dire che non sia un grido straziato eppure continuo a dire anche altre cose. Certe bestie sui rami tra i rami dentro i rami -io son capace di sentire-, lanciano canti d’amore anche senza amori, lanciano gridi senza nulla da gridare. Questa è la via è la vita. È straziante è inutile è orribile ma facciamo. Vivo perché ho i palchi vedo un loro riflesso nell’ombra che si proietta sotto la canicola investe la corteccia rossa dei tronchi si ricompone acquosa in una pozzanghera in una goccia di sudore.))


[dialoga l’uomomarino]

[Annegamento solo annegamento dicono che il suono non si propaghi sottacqua non hanno studiato ancora bene quel mondo di balene e di mostri soffianti. Ma sono ora in quel posto in cui l’urlo degli annegati l’urlo mio si sente. Se succede capisci una sola cosa che la vita è ciò che accade ai polmoni in quel momento.]


La vita era ciò che accadeva ai polmoni in quel momento.


Uscirono dal Fiume Bianco dove si spogliavano tutte le coscienze. E rientrando nei corpi e nel loro contatto col terreno il tempo, dai secoli e dai millenni, s’era convertito nei minuti, nelle ore. Sdraiato al suolo, nel sapore di umori granulosi che gli dominava la bocca e la coscienza, non vide che i riflessi dei riflessi filtrati dai pini del sole rosso che in quel momento si stava frammentando in fluidi bagliori liquidi sulla superficie delle onde, per sparire in una conca oltre l’orizzonte, in continenti ignoti dove morivano solo orche e pirati del nord coi destini di morte già scritti nelle aurore.


Marino e cervo si risvegliarono dal loro sonno e la fine del crepuscolo aveva avvolto in una placenta d’inchiostro il confine iracondo del mare, i limiti resilienti al vento della costa boscosa.


Esseri umani consacrati all’ombra lieve, sospesa tra il giorno e la notte, all’improvviso s’aggiravano con passi delicati tra gli arbusti sotto la volta intrecciata della pineta, sotto le ragnatele e le liane di mucillagine della selva. Facendosi luce senza nessun fuoco, reggevano ghirlande di fiori bianchi probabilmente velenosi, portavano vesti chiare che illuminavano il loro percorso fatto più che altro di odori, fatto più che altro di ombre ch’erano capaci di sentir parlare. Bambine o nane lasciavano strisciare sulle loro orme insanguinate dai rovi le chiome fulve più lunghe dei loro corpi, diventavano code. Essere-cervo, al centro di una radura di gente con la coda e arbusti con volti di corteccia, incrociava gambe-zampe per poi spalancarle e mostrare la ferita che occhieggiava, serena e melliflua ed estasiata nel dolore, là dove era stato estirpato il suo sesso in un tempo distante. Opera di stesse mani-zampe. Numerosi sangui -comprese l’uomo marino- avevano dunque nutrito il suolo di quei boschi e selve. Molte gocce, convertite in nutrimento, convertite in respiro, ancora circolavano tutt’attorno, nei rami nelle foglie negli intrichi segreti del suolo.


L’uomomarino percorse un sentiero per tornare alla spiaggia, portarsi il sangue ancora ben chiuso nelle pareti di pelle. Seduto su uno scoglio, viscido e sbavante come un’ostrica, s’avvicinò un ginocchio al mento, fece ciondolare un braccio nell’aria sempre più gelida attorno a sé: un’appendice abbandonata, simile agli uomini che la possiedono. Ascoltò la risacca che pareva aver assorbito tutta la forza dell’ultimo canto d’amore di tutte le cicale scomparse alla fine del pomeriggio, e delle ultime ancora vive nel buio incipiente. La ascoltò propagarsi fino alle linee più lontane del mare, più scuro della notte vicina. Una sula ragliò da qualche parte, i cormorani erano ombre anfibie, i gabbiani punti neri fluttuanti nelle ultime strisce luminose.


Pensò a sé e a quello che avrebbe detto d’essere. Era solo, esistevano solo genti incomprensibili, nel mondo che l’aveva raccolto dal fallimento e l’oblio. Avrebbe detto loro: sono un marinaio. Partii per cercare il nulla, esattamente il nulla e non le ricchezze. Partii perché in me, nel mio sterno, c’è un osso cavo e non sa nemmeno volare. C’è al suo posto un osso come quelle placche lasciate dalle seppie sui sassi della spiaggia: nato solo per esser beccato e morsicato, dagli uccelli dai granchi dagli squali arenati. Quest’osso non è riuscito nemmeno a morire. Non voglio diventare un idolatra di dei sconosciuti.


L’essere-cervo, però, gli avrebbe detto di non essere un dio sconosciuto. Un dio invece noto a tutti, dormiente e nascosto. Tu cosa sei?, gli avrebbe chiesto l’uomomarino tornando attraverso lo stesso sentiero, se solo avesse avuto nel cuore l’impulso a parlare, muover le labbra per toccare il mondo e non solo esserne toccate, per plasmarlo e non solo subirlo. Io sono trasformazione, accettazione, cuore e corpo-, avrebbe risposto l’essere-cervo se gli fosse stato chiesto, nel modo giusto, dopo i pensieri giusti.


Gli vennero incontro coi perlacei piedi nudi nel sangue di rovi, nell’acqua che rendeva lancinanti i tagli, due bambine o nane. Vestali corrotte. Con voci trasparenti come lana magica bagnata da un cristallo liquido, gli dissero che l’essere-cervo voleva fargli incontrare una “persona”. Pensò a una maschera, il teatro, la cerimonia: selvaggi che conoscono l’arte di stregare. Fece per alzarsi dallo scoglio, fece un cenno, e gli parve che le due lo riconoscessero e interpretassero correttamente. E gli parve di vedere, in risolini sfuggenti e pieghe d’occhi, che avessero gli stessi identici volti, lo stesso identico spirito, degli uomini adulti o non-nani che l’avevano trovato spiaggiato sotto la luce del sole, offrendogli da bere. La gelida risalita d’un brivido attraverso sé ridisegnò in un istante le costellazioni di nervi dentro la sua schiena. E forse anche le costellazioni di stelle che, nell’orizzonte dietro e sopra quella schiena, fluttuavano e osservavano tutto. Determinando le superstizioni e i destini e le ispirazioni degli esseri goffi della terraferma.


Ogni passo, sospinto dentro la terra, crepitava suonando la distruzione di incalcolabili mondi sotto gli aghi di pino, sotto erba povera di liquidi vicino alla sabbia. L’uomomarino lasciando dietro sé il mare, seguendo le vesti larvali delle piccole sacerdotesse tra i tronchi, s’accorse del gelo di quella notte, uguale e opposto alla calura che aveva ruggito al suo ingresso in quel mondo, uguale forse al contrasto di gelo e fuoco che dall’acqua del mare gli era strisciato dentro i muscoli e le vie respiratorie. Forse moriva, di febbre o polmonite. Lasciando dietro sé il mare non seppe più riconoscere se il freddo che sentiva fosse il mare che gli era entrato dentro quel giorno diventando malattia, il suo annegamento mancato, oppure il vento, che sempre più violento colpiva le parti spezzabili del legno tutt’intorno.


Era un essere-cervo non molto alto, ma d’innegabile presenza raccolta in qualcosa di strano, in nascondigli della sua postura. Imprevedibilità dentro i nervi, e corna regali. Era rannicchiato sullo stesso tronco monco del pomeriggio, in quella stessa parte di bosco, lì a tormentarsi con le grinfie certi sparpagliati ciuffi di pelo dei capezzoli, delle guance, stopposi e rossicci quasi si sforzassero di replicare il terreno della pineta. L’uomomarino si voltò e in un sentiero di inquieta penombra e piante calpestate non vide sacerdotesse né accoliti. Vide un soffio di bagliori violacei correre su steli di lunghe erbe piegate, ascoltò il vento che nelle fronde diventava un piccolo inverno. Tornò a guardare l’essere-cervo che l’aveva fatto chiamare. Sentì freddo, ovunque, in sé e attorno a sé.


-dove sono andate?


L’essere si grattò un grumo di nei o sporcizia tra il collo e la spalla, ruotando eccessivamente la testa e facendo nevicare marciume di foglie morte dalle corna. Queste parevano suppurare nella notte. Pus vagamente luminoso attorno ai fori in cui i rami erano conficcati e sanguinolenti.


-chi?


Lo sapeva benissimo chi, pensava l’uomomarino. Inganni di gente fatta di domande senza risposte, popoli esiliati convinti che il bosco da solo sia una risposta. Voleva certamente irritarlo, fargli credere che sin dal principio non fosse mai esistito nessun altro, ma lui non ci avrebbe creduto mai, lui…


-mi hanno chiamato. Sono sparite.


Le pupille dell’essere-cervo si dilatarono senza scopo. L’uomomarino ricordò la facilità con cui un solo ghigno l’aveva fatto cadere quello stesso giorno. Negli stagni neri che s’allargavano dentro quelle orbite poteva spalancarsi un oblio senza ritorno. L’essere-cervo non rispondeva, e nessun altro esisteva nell’ambiente circostante, all’infuori della notte e certi suoi lugubri fischi lontani.


-devi farmi conoscere qualcuno?


-senti.- l’essere, sorprendentemente, sospirò. -devo prima conoscerti.


-conoscermi?


-sì. Non aver paura.


-io non ho paura di niente.


-no. Tu sei uno del mare.


-sì.


-però non ti conosce nessuno.


-basta il mare.


-come a me il bosco.


-così sembra.


In silenzio si fissarono, gareggiando. Per primo uno dei due sarebbe caduto nell’acqua nera contenuta negli occhi dell’altro. S’incrociarono in scie svanenti nell’aria sopra di loro due gridi, una sula dal mare a ovest, un gufo di palude lontano in un est di miscanti e umidità, muragliato da intrichi e distanze di vegetazione nata da secchezza, pasciuta da fotosintesi d’arsura.


-hai mai ucciso qualcuno per mare?


-sì.


-ti è piaciuto farlo?


-non lo so.


-ma dovevi.


-infatti.


-non avevi scelta.


-no. Non l’avevo.


La gente di mare mentiva spesso. L’uomomarino sostenne a lungo lo sguardo dell’essere-cervo che tornava a sospirare e, apparentemente, a indebolirsi. Piccolo e umano, ritornava. Un sesso forse mollemente gli ricresceva dallo spazio in mezzo alle gambe. Ma si ritrasse immediatamente. Nell’occhio un raggio. Balzò in un istante, più svelto e forte delle belve e dei demoni. L’uomomarino in uno scatto involontario portava davanti a sé i gomiti, rinchiudendosi in un guscio di combattimento adoperato in molti scontri sul mare.


Ma l’essere-cervo stava solo assaltando se stesso. Contorcendosi al suolo affondava unghie scalfite e nere di lordura nella carne del braccio, la strappava, trascinando graffi lunghi fino al collo, alla fronte, come a volersi disegnare i campi arati dai rastrelli sul corpo, e far nascere su di sé le colture. Ma nulla nasceva se non il sangue, e come era già parso evidente, le corna, lì dove erano conficcate, tornavano a irrorare sofferenze atroci in tutto il corpo, sparse dai globi di carne craniale fin dentro al cervello che là sotto mai cessava di agonizzare, in febbri note solo a se stesso, in torture che autoalimentavano la convinzione d’esser necessarie.

L’uomomarino osservava sgomento.


-sento di nuovo le corna! Sento di nuovo le corna!

((ti sto conoscendo! Ti sto conoscendo, io, per primo! Nel mio santuario!))


Pus maleodorante di cimici e decomposizione eruttava dalle infezioni tracciate dalle corna.


-..devo…. impossessarmi.. della tua stessa violenza.


In un lampo di movimento unghie nere affondarono nel collo dell’uomomarino. E prima che potesse reagire urtò con le ossa sui rami e i sassi del suolo, e prima che capisse cosa quello in un istante avesse fatto, stava venendo trascinato. Perdendo la vista, sentendo con le labbra il fogliame, gli escrementi degli animali, i funghi morti.


L’essere-cervo nuotava nei rami più fitti, si tuffava in ragnatele e rovi, scalciando nel regno agile di scimmie e satiri. L’uomomarino in odio alla terra inghiottiva il suo stesso sangue, colante dalla fronte coronata di spine. Ogni strattone lo dilaniava. Con immane forza e velocità veniva trascinato attraverso vie della macchia mediterranea che nessun altro poteva percorrere, e nessun altro avrebbe mai attraversato a nuoto. Un balzo da un promontorio rialzato. Atterrarono con un tonfo indolore su una duna di sabbia, simile al paesaggio che le sacerdotesse avevano sognato guardando per ore la luna. Una neve di granelli minuscoli si sollevò e li toccò di nuovo, cadendo, come a ritornar da loro. L’uomomarino respirò, non ricordando l’ultima volta che l’avesse fatto: stava guardando il suo riflesso nell’acqua del mare, ferma in una conca, senza onde in una baia che dissipava ogni movimento, e addormentava tutto. Nell’acqua scura e nel chiarore di stelle, vide il suo volto tumefatto e le unghie che gli afferravano i capelli, per concedergli di riconoscersi prima dell’immersione.


Le mani selvatiche spinsero ferocemente la testa di un marinaio, di un naufrago, nell’acqua bassa stagnante in prossimità della riva di una baia tranquilla come la notte. Piccolissimi pesci si sparpagliarono vermicolari attorno all’oggetto duro e molle che era precipitato nel loro mondo mandando nubifragi di schiuma e bolle, e scintillando livree d’argento s’allontanarono verso le acque lontane come fluidi vitali in abbandono d’un corpo destinato a marcire.


( sott’acqua tutto era calmo, dentro il suo stesso respiro, che diventava materiale, diventava palle d’acqua. Nella sabbia limacciosa, distante quanto una lingua distesa dal volto immerso, stava incastonata una conchiglia. Lunare. Nel suo cuore di mollusco era custodito il segreto del flusso e reflusso di maree, cicli, fertilità. La conchiglia spalancò le valve, rivelando un sorriso di labbra carnose e lattee. La Dea comparve mentre i sensi di lui s’allontanavano dal centro di sé, più lontano possibile dallo sterno e dal cervello come se lì, nei centri di tutto ciò che era e credeva d’essere, s’accumulasse un veleno repellente. E i sensi e la ragione, spingendo nelle estremità fisiche del suo essere, nelle tempie, parevano farle esplodere. Nel dolore poté parlare con la Dea. )


( -allora sei davvero una divinità femminile. -tutte le divinità lo sono, quando vengono propiziate in questo modo. -in questo modo? -devi perdonare, sai, l’essere con le corna di cervo. Ma è come perdonare te stesso. E non sei pronto. -me stesso? No, io non c’entro con loro, e i loro idoli animali... -quell’essere è il nume del bosco e della pineta, anche se nega di essere un capo. E qui sempre attende chi si perde lungo le coste e si stupisce di vedere il bosco sopra la sabbia. E lui come uno specchio compie il gesto che chi lo incontra ha già compiuto in passato, se quel qualcuno è venuto senza nient’altro da compiere. Tu hai qualcosa da compiere? )


( l’uomomarino, che stava affogando in mare per la seconda volta, aveva assassinato in passato, e non aveva niente da compiere. Era venuto solo come sopravvissuto. Era stato un ragazzo salito sulle onde per tuffarsi nel nulla, nel caos che non amava. Una pulsione che portava in sé, pressante come i cavalli dell’impero contro le mura di bastioni su coste lontane, feroce come tutto ciò che era storia ed era civiltà e missione del popolo, gli imponeva di distruggere le pareti di se stesso, di voler vedere un giorno le proprie tempie scoppiare, il cranio riempito d’acqua salata. La Dea aveva una voce di raggi lunari, la Dea era la voce che aveva sempre voluto sentire. Non credeva agli dei. Alle dee sì, segretamente. E quel segreto prendeva forma solo nel fondale. L’unico posto dove un uomomarino poteva morire con gli occhi chiusi, non lasciati attoniti e spalancati dalla brutalità di una spada affondata nel torace dal gesto di un altro uomo. Nel fondale lo guardava una conchiglia, e nella conchiglia danzava coi suoi veli di notte e stelle, gigantesca in un atomo, la titanessa del mare intero. Gli disse, gli cantò, lo assicurò che nei secoli -che avrebbero divelto la terra e l’avrebbero trasformata completamente di impero in impero- sarebbe sempre sopravvissuto quel santuario con quel suo nume folle con le corna di cervo, anche dopo la sua morte. Che genti future recandosi in spiaggia avrebbero sentito un rumore cauto sugli aghi di pino, e il suono di una parola silvana nel filo d’un raggio di sole cadente tra i pini attraverso un brusio di cicale e onde vicine. )


( -e tu ci sarai ancora? -io sarò dovunque un uomo che ha odio per sé e per gli uomini immergerà la faccia in queste o altre acque. La Dea parlava e si faceva amare dall’uomo del mare e dell’odio, parlava con formule, e l’uomo smetteva d’odiare le formule sibilline dei riti, dei segreti che negli anni di peregrinaggio aveva dimenticato. E il suo petto in apnea si riempiva invece d’un mare di sconosciuto amore e quiete, un mare freddo e nero come quello in cui stava affogando. Dissolveva ogni arsura. )


( -io sono le acque che scorrono anche dentro te. Immergiti, trova una frescura nel fuoco che ti sta squarciando. Tu non hai mai potuto credere che nel mare ci fosse un dio barbuto, con forconi e cavalli di guerra, carri trainati da draghi chiamati serpenti di mare. Tra i molluschi sono la più bella, la mia suzione umida ti trascina dentro, come tu fossi schiuma subacquea, piena di nutrienti. Torna da me. )


( l’uomomarino tornò da lei. Il fuoco che arroventava ogni suo anfratto si spense, lentamente, facendo entrare rivoli d’un freddo che significava soltanto pace. Vide sé stesso in un altro corpo, di millenni distanti, nella stessa spiaggia, in cerca del cervo che sapesse condurlo nuovamente da lei. Ma lei non esisteva per aiutare lui. Lei esisteva per far esistere la spiaggia, con i suoi numi più piccoli, le sue radure. E le cicale e le onde, scricchiolii del suo organismo, si propagavano fino ad assordare il tempo, immobile su quella costa dove la barca d’un singolo uomo presto dimenticato s’era infranta per sempre. )


( -la mia barca….! Dov’è? Mi dispiace, per la mia barca… -non temere, se ti dispiace per qualcosa. Il tuo animo, sporcandosi e sporcando col sangue, si è disabituato. Ma non temere, nemmeno per la tua barca, che come te è tornata da me. Ma da un’altra parte, e non la rivedrai. Ma pensala serena, come te adesso, come te sempre più. )


( -ah… L’uomomarino sospirò, chiuse gli occhi, quasi sorrise, svuotandosi di tutta la forza. Non gli serviva più. Era bello sognare di diventare schiuma, dopo una vita in cui non aveva sognato niente. Solo di salire sulle onde, e salendoci, aveva dimenticato perché mai avesse sognato. Ma la terra e il suo tempo, incisi in mille ferite dentro lui, ignare di se stesse, non vollero mai abbandonarlo. Poté soltanto scegliere, lui, di abbandonare loro, dopo tante faticose bracciate, tante nuotate in scelte sbagliate. )


Nella baia appena albeggiante, gabbiani bianchi, luminosi come piccole lune nella penombra, becchettavano i calli duri, le vesti lacere del corpo rilassato in un bellissimo riposo, nella posizione del morto a galla in acque basse di una conchetta piena di pesciolini, e crostacei di colore uguale alla sabbia loro madre. Un frinire cominciava a risvegliarsi dal bosco abbarbicato alle guglie della sporgenza rocciosa soprastante, generatrice della quieta ombra che come un fazzoletto nero carezzava la sabbia sempre intatta, priva di tracce. I gabbiani scuotevano placidi le penne. Tirando per i becchi venivano sbalzati lievemente dallo stesso moto ondoso che in un abbraccio ammantava il corpo, quel corpo lucente nelle acque: conchiglie e stelle marine gli coprivano il volto, pronte a schermirlo dai primi raggi del sole che alla prima ora del mattino sarebbero caduti perpendicolari su di lui, sul suo sacro e profondissimo sonno.


(ringrazio mia sorella per la foto che ho modificato)


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