argomentazione sulla sofferenza dei cavalli attraverso cinque piani d'esistenza
- Milky
- 4 feb 2024
- Tempo di lettura: 19 min
Argomentazione sulla sofferenza dei cavalli attraverso cinque piani d’esistenza:
In un involucro placentale di lenzuola
Maledizione, prima parola che accoglie il giorno. Profeticamente, se ne conosce la qualità sin dal primo buio di palpebre che si accorgono di essere palpebre, si conosce la qualità del tempo di veglia sin dai primi cenni di squallore. Sogno pseudo-erotico: veramente una caduta di stile. Si assapora già la sostanza che più dell’idrogeno riempirà l’universo alla fine, dopo il tramonto, quando sarà il momento dello spegnimento, affidare alla notte ogni guarigione. È una sostanza d’aria calda emicraniale, la solita, fiato che scorre nelle tubature varicose del treno, ferro rovente in corsa. Il risveglio decide se si è stanchi.
Una colonna di odore stantio, stalla e caverna, prende corpo in un angolo della stanza, arabescandosi d’occhielli solari provenienti dalla serranda chiusa come schermo bluastro, un corposo color terracotta tinto di freddo pelagico dalla penombra -lì vive la forma ora viva, distinguibile a malapena dal peso che aggrava l’aria. Agitando le sue nuove squame di luce che già s’abituano alle membra, pone mano a un blocco di parole e dati, cominciano le ginnastiche della razionalizzazione: prego descriva questo suo sogno erotico, mi chiede.
Ebbene in un primevo giardino di leccornie e piaceri e soddisfazioni autorisolte che io ignoro tutte dalla prima all’ultima incontro nei pressi di un tumulo di una gibbosità terrosa di un termitaio poroso di acque sorgive che fiottano come pus nettarino insomma incontro mi imbatto in questa seducente creatura di fauci che è come una pianta carnivora in grado di camminare e nel volto di preistorica fame scorgo l’emersione di occhi bruni e una voce appartenenti probabilmente a una tipa che una volta mi ha fermato per una petizione, a piazzadelpopolo o in un simile colonnato circolare di aggressiva luce solare di gambe in avvicinamento di migrazioni odorose di pelle e abiti e della loro promiscua frizione. Le sue lentiggini, o un’entità analoga: mostro nel mio sonno. Mi piacciono i mostri. Non mi piacciono le cose che stanno nel giardino in cui si muovono.
La cosa che si è materializzata in camera mi chiede dove sia l’erotismo in questo. Rispondo che la sua modalità razionalizzante non è fatta di vero ragionamento se pensa che i sogni siano solo un ammasso di polaroid inconsequenziali e sconclusionate. Non devo spiegare niente a nessuno. Divento anch’io, come specchio dell’ospite parassita, una colonna, inamovibile, un pilastro avvolto da coperta: sotto, mi faccio luce con un primo schermo nocivo: video consigliati: l’operazione Blue Moon e la vita di Chet Baker, ed ecco, siringhe crepate e unte di grasso, colonialismo postbellico e spettri di smarriti, romantico vandalismo del cuore, tutti si sparpagliano assieme alla mia carcassa fetale sul mio materasso -come davano un senso al loro risveglio, questi antieroi al whisky nati e vissuti nel post-nonsenso? Sapevano di agire dentro uno schermo? Forse elaboravano tutta la loro esistenza davanti a uno specchio, o diverse decine di specchi, che sempre li accompagnavano. La consapevolezza della propria sagoma, coi limiti che negano l’espansione di coscienza; la consapevolezza del proprio intento, che si becca una sifilide concettuale e va a di corsa a narcotizzarsi, anestetizzando le lesioni; soprattutto il vetro diteggiato di uno specchio tangibile, brutto brutto e sporco, sul quale si riflette la faccia del primo mattino, quella coi crateri e gli odori, zero edulcorazioni. Acqua fredda da gettarsi addosso: l’autolesionismo comincia dall’acqua, fonte di vita.
Gemendo, sotto il bozzolo metto una musica giustificatoria, al mattino già Bill Evans o Herbie Hancock si fronteggiano come manichee divinità lunari per determinare quest’oggi come suoneranno i bianchi e i neribemollidiesis nella soundtrack di questo noir inaugurato dalla stortura, dai panni smessi buttati in giro disordinatamente, dalla parola Maledizione, la prima, inaugurazione di nascita, rima con un camion di passaggio che bombarda le mura degli appartamenti, le loro palpebre chiuse, dietro le quali vivo, io, rintanato, vergine, orzaiolo nell’occhio del meccanismo.
Oggi cercherò di salvarmi. Soltanto questo.
In cucina, stanno disposti a giudicare gli addomesticati verdi da vaso con la loro fotosintesi asmatica, i grigi mattonellari e pianocotturali con le loro incrostazioni lipidiche di pasti estinti sacrificati al crapulone dio dell’effimero. L’arancia tagliata male per la spremuta lacrima un rivolo di sangue rosso. In questo momento non fa nemmeno tutto così ribrezzo: sarà la luce che ancora non è del tutto entrata nel deterioramento, entro i parametri che ci sono noti. Tutto è ancora un uovo di nuvola, il pensiero è una nebbia bianca: non ancora depredata dal violento stagliarsi di forme nette e volumetriche che usurpano spazio alla lisergica dolcezza del nulla, qui tutto si scontorna lentamente e senza stupro. Si galleggia bene.
Ma presto sopraggiunge (da dove????) un senso di minaccia. Meglio andarsene. Camminare per estinguere coi passi l’eco goffa e ingombrante del trauma dell’esserci, con tutti i patemi da esso ramificati.
Lascio storto sul ripiano il coltello usato per l’arancia, vicino alla pozza zuccherina della prima azione, primo peccato commesso. Chiudo la porta a chiave su questo eden da interni. Solo una cosa puoi fare: scendi le scale in maniera diversa dal solito, non incontrare ciò che incontreresti ascoltando questa musica, gestisci le coincidenze: salvati dalla trama.
In stazione
Soltanto per qualche secondo è già più tardi: c’è un salto: sebbene sia presto, si è già dopo il pomeriggio, e una persona che casualmente immaginavo (che fine ha fatto, odierebbe sentirmi pensarla così come io odio essere pensato, odierebbe me in generale, ma sì unendo tutti i puntini è evidente il disegno della crepa estesa nella distanza tra noi, e l’ostilità che dovrò aspettarmi, la mia cacciata da questi luoghi), proprio questa persona si materializza, fantasma o reale, non ha importanza, mi sorprende da dietro, batte su una spalla mentre me ne sto andando, ma io “scusa mi hai beccato proprio in un momentaccio”, ma si vede che io ormai mi sono già fatto male, sto tutto rannicchiato nei reconditi motivi di un suo microcomportamento di una volta che giustifica le mie teorie persecutive, scusami tanto ma sono proprio in quel momento della settimana in cui tutti gli abitanti della terra assumono per me la forma di gianobifronte di gentilezze e di quello che celano, scusa è quel momento della settimana, quel momento in cui vi sento deridere disgustare manipolare e mi avvio armato di muraglie e gusci per la strada di sterpi sferzati dall’inverno diretto al tesoro dell’eterna solitudine -no, non posso mica dire questo, sì dai la cosa del momentaccio da sola va bene, farà una faccia strana ma pazienza, sì lo so che i miei occhi sono creepy come un faccione di ominide incastonato nel vetro del bioparco o nello schermo del documentario sui criptidi, scusa ma, scusa ma, e alla fine dico davvero:
-scusa ma…
E senza aggiungere altro scappo veloce, lontano da lì, calpestando le aiuole per tagliarmi scorciatoie, chiudendo per sempre una cortina di pelle gommosa su quell’interazione recisa a metà, sulle interazioni tutte. Sono scappato e sono in stazione, come balzato attraverso un portale, già al ritorno, sono scappato in stazione e supero quelli che attendono in banchina, dove cazzo corre quello. Supero l’aiuola e la torretta in disuso, costeggio i cancelletti chiusi a molteplice mandata dall’edera. In un cantuccio che puzza di piscio mi rannicchio a piangere. Sento singhiozzare. Come se non bastasse, a singhiozzare è qualcuno che è venuto a rifugiarsi qua prima di me. Merda, sono io di sette anni fa, che venivo a piangere qua dopo le prove di guida! Com’è ovvio, non appena ci accorgiamo della reciproca presenza gli salto addosso e lui fa lo stesso, risponde, prova a menarmi anche lui. Non riesco a capire chi è che tira i cazzotti più forti visto che siamo entrambi me stesso. È solo un torpore indistinto su tutta la pelle, ogni colpo, ogni lacrima salata che scende nelle spaccature brucianti delle labbra -sarà effetto dell’inverno o dell’aversi costantemente sotto gli occhi? La coscienza genera decomposizioni.
-e fatela finita…-, brontola qualcuno, grave. Sale intimidatorio, dai ventri multicamerali come quelli dei ruminanti, un gorgoglio di letargiche digestioni in fondo al sottosuolo, tremore simile all’onda sismica propagata nell’orecchio che si accosta al suolo, il treno in avvicinamento dalla distanza di due stazioni, lontano nello spazio assieme a desolate banchine d’attesa tra sterpaglie e container bucherellati da rovi, lontano nel tempo assieme alle mandrie degli estinti bufali d’acqua di questa prateria palustre che sfuggono le frecce di limacciosi pellerossa butteri. Chi è che ha parlato, il genius loci? Un altro che vuole le botte?
-c’ero anche io in quegli anni, con voi, non ricordate?-, tuona la sua voce di eterno rimprovero.
In quegli anni… ah, parla della scuola guida. Quando si veniva sempre qua, lontano dagli indiscreti. Nel piscio e nell’edera nella convinzione dell’assenza d’ogni speranza. Aaah, vero, c’era anche lui. E ci sarà sempre?
-aaaah-, facciamo noialtri, i pugni e i calci bloccati.
-mph!-, bofonchia gutturale il bestione, che seduto sul bordo di cemento del prato è più alto di uno struzzo in piedi, e proiettando un’ombra d’aculei scagliosi frastaglia il mattonato e l’erba, ingloba le nostre piccole figure di eterna delusione.
Così ci sediamo tutti e tre, ad aspettare il treno, sotto la torretta abbandonata. Allineati sul bordo, tutti con le ginocchia cuneate in faccia, a schermirci il viso da chissà quale vento molesto. Sento, con un angolo dell’orecchio, un lieve viscido sfrusciare della coda di lui nell’erba che gli sta dietro: un lieve nervosismo esiste anche nei giganti, nei simboli che, corporalmente, scalciano nel mondo dei vivi.
Sui sampietrini
Allora, ce la fai sì o no ad arrivare da un punto x a un punto y posizionati sul continuum di una retta che fa il suo quotidiano cruento kebab con le ore infilzate una dietro l’altra per arrivare sfinite all’indomani? O le tue scelte etiche ti fanno rifiutare anche le carni della giornata?
Eh non so se lo finisco il segmento, dipende. Intanto cammino, intanto vediamo, se un modo riesco a trovarlo. Quaranta minuti di percorrenza, ecco cosa posso ascoltare riempiendole tutte, musica appropriata alle turbolenze interne e al clima esterno, musica scaturita direttamente dagli strattoni paranoidi dell’animo. Ne sono compositore quando la infilo nei padiglioni, la cartilagine mia percuote il pentagramma, che non so leggere, che impercettibile e sottostante erige ciascun fenomeno del mio solipsismo. Accelero il passo frequentatore assiduo di queste strade note: sento sguardi, senza nome senza fisico, impossibili da provare, tutti attorno: tallonano il mio andare. Corro quasi, per scappare. Distraggo tracce, quel gesto che tutti gli ominidi sanno essere di una goffaggine estrema e che tutti comunque compiono nonostante la palese fittizietà: scorrere chat che non ci sono, scrivere lettere a caso, porre all’orecchio una nota vocale mai esistita. Stessa cosa è leggere un articolo irrilevante, un post transeunte, dissimulando grande interesse da salaryman in metro: interagisco fittiziamente con l’amministratrice di questo gruppo che si occupa di meme e della grammatica dell’esistenza: la mia capacità di concentrazione mi aliena dagli inseguitori: come chi prega in un bancone di legno tenebrato nell’angolo della chiesa paesana vuota e ragnatelosa, ginocchia puntate sulla pietra fredda, vedo: una faccia di madonna elettronica, fluttua e si compone di impulsi multiformi: è tutte le madonne elettroniche gravide di commenti messianici: come per chi prega, è un dialogo fittizio d’amicizia fittizia -ma diversamente da chi prega, non massaggia il cuore, non è un palliativo. È solo un momento. Una distrazione finta consapevole di esserlo. Un gioco.
Madonna elettrica esorta ai commenti, alle impressioni personali, a dirle se sta facendo bene, se è meglio che elimini quel post, la sua elettricità è insicura, insultata in infanzia da madri padri catechismi. Fa sondaggi. Cercando se stessa. Rispondono tutti, ripetendo se stessi: madonna ripetitore, wifi transustanziale.
Chiede qual è il superpotere che desideriamo ebbene il mio superpotere è evasione in una psicocinesi verticale che evolve radicalmente l’andatura bipede. Basta mettere i Talking Heads sì hai capito bene mettili in cuffia camminando e diventi fico, attraversi un processo chimico uscendone fritto da strati che non pensavi di celare, e perdio!, si estinguano all’istante tutti coloro che hanno visualizzato una decappottabile bianca e occhiali da sole quadrati e un villino incendiato tra i giardini e il vento tra i palmeti di un lungomare di desolato shopping; no, quello che le testeparlanti suonano sul quattroquarti catalettico della monomania è il delirio di onnifluttuanza che investe quando nel cervello, nell'architettura acustico-craniale precipita rimbombante il cambio di tonalità di Memories Can't Wait. E perfino i sampietrini hanno i brividi e sono pronti ad aprirsi mostrando la voragine loro madre là sotto, le senti? Ombre dove non ne vedevi, sono io, e altri demoni quando everything is very quiet perché lo sai perché? Perché se ci sono delle oscurità nei dintorni quando avverti presenze inquiete e in loro ti rispecchi, quel suono è la consistenza stessa del buio è l'infrasuono monotonale e ronzante generato dalla mera esistenza di quello stesso buio, materico, cioè la massa corallino-neurale dei corpi calcificati da roccia lavica gastroenterica rigurgitata appartenenti al sottoscritto e a tutti gli analoghi figli di una sciamana puttaneggiante di schiuma epilettica, quando si sdoppiano e scivolano nei sotterranei del tutto ogni volta che t'accorgi che una presenza ha mandato un fiato quando tutti sono nel sarcofago everyone has gone to sleep -sì sì dormite che noi siamo gli incubi, ma noi chi esattamente?- quando, quando noi subkafkiani invertebrati, per un solo istante abbiamo ossa come gli altri Vivi&Morti, per l’infimo valore temporale d'un misero delirio evolutivo inconcludente del nostro privato universo inaccessibile e piccolo piccolo, crediamo di poter camminare incolumi soltanto pochi minuti davvero non è che una tregua momentanea del mondo grande grande.
Ritorna e vedi l'assurdo. Ritorno e vedo l’assurdo. Sono in salvo?
Nei pressi del bel giardino protetto dalla sagoma sauropode del tram fermo allo spiazzo, vedo appoggiato al cruscotto di un'auto parcheggiata il peluche verdognolo biliare di un tarasque, mostro provenzale di aculei, poco commerciabile, eppure là, morbido, guardiano, usurpando Stitch e Yoshi e Kirby uni e trini. Il tarasque morbidoso riposa sulla plastica ruvida, arroventata dallo spicchio solare sfuggito all'ombra dell'olmo. Anche a finestrini chiusi si sente quell'odore come pelle essiccata bollente. Sogna, il piccolo kaijū della camargue, e ti senti sveglio, come svegliato da un sogno che ha aperto gli occhi su una veglia ben più bizzarra e irrisolvibile; squame di pelle morta dell'inganno del reale bombardano la tua quieta Hiroshima di fenicotteri e raganelle, e sei rintronato, sei già stanco e pentito, solo rielaborazione è la tua arma, solo il dopo sempre il dopo mai il durante, che è un intollerabile drago d'orrore.
La madonna elettrica aveva posto poi un’altra domanda, dopo quella del superpotere, mettendo in difficoltà.
-e di cosa hai bisogno?
Voleva che avessi una motivazione, un motivo dell’eroe per il suo cammino. In fondo, nemmeno lei, che potrebbe rappresentare chiunque dando alla luce la remissione dei peccati, nemmeno lei riesce a guardarmi in faccia: forse tutti mi assomigliano: non riesce, e ha bisogno di ficcarmi in una sceneggiatura. E io da parte mia vi inserisco, voi tutti, in un dopo. Cangianti. Riesco solo così a vedere il flusso che ci incorpora, ci fa abbracciare: questa galassia torrenziale allo sfacelo, nebulose di nondetti: qua sappiamo amalgamarci.
-di fiducia-, rispondo io, sincerobugiardo, tagliando le complessità: è ciò che avrei risposto se in un dungeon di tavoli da macellaio, legato polsi e caviglie a una superficie violetta di sangue secco sacrificale, fossi stato posto davanti a una falce che oscilla ossessivamente una risposta sì o no non evadibile, quelle situazioni che non ti permettono di dire “non ho bisogno di niente”. Ma è poi la fiducia la cosa di cui ho più bisogno? Va bene, se devo necessitare qualcosa, è importante, potrei aver risposto di peggio, ma… è l’assoluto? Immaginariamente, rispondo a lei come in quel dungeon: come se avessi fretta di rispondere e nessuna altra scelta: sono in un rpg che per proseguire mi chiede di completare un dialogo a due opzioni: una è “la fiducia”, l’altra è una stronzata incommensurabile, e allora tante grazie che scelgo la fiducia. Fatto sta che sono io il programmatore del mio rpg, quindi le ho scelte io le risposte chiuse, i sì e i no di questo mondo, di questa agrodolce antimateria di pixel. Un mio inconscio sopravvissuto agli sguardi controllori dei miei scafandrati viaggi dentro me stesso ha deciso a mia insaputa le alternative: “la fiducia” oppure “calzini nuovi, per poter sempre evadere le domande”. Cazzo, forse i calzini erano la risposta migliore. Mi sono lasciato distrarre dalla loro componente materialista. Erano un simbolo, un simbolo!
Lei sembra ignara, no anzi disinteressata al mio travaglio.
-e che aspetto ha la tua “fiducia”, ragazzo testeparlanti?
-la mia ragazza- rispondo io -è il finale di Strawberry Fields Forever. Ovvero è un fumo irideo, io distendo le braccia e lei sfugge, si piega danzando in una mezzaria di liquidi intracerebrali. Siamo sott’acqua, o in uno spazio vischioso, tra pianeti di bolle? Lei dormiva, sotto la nostalgia, sotto la giovinezza di schiene sdraiate nei campi a ricevere l’effimera amara sublime abbronzatura estiva del tempo. E ora è libera: la sua livrea è un uccello del paradiso che spiega le ali, macchie di colore dipinte sulla tela di un centro in cui vengono ricoverati individui che non riusciranno mai a parlare, ma a cui viene messo in mano un pennello. In un pomeriggio infinito e opprimente, che trasforma le finestre allineate in una stele di macchie solari, scivoli lungo il corridoio ossigenato: ti fermi davanti a un quadro esposto: la mano di un paziente, la proboscide di un elefante hanno creato questo. E senti le note elettriche, la loro stessa schiusa. Io distendo le braccia, ne afferro i contorni, e lei vola via, ricompare da un’altra parte, sparisce poi lì quando mi avvicino, e da fantasma ancora fluttua altrove. E intanto è ovunque: sopra sotto dietro intorno a me. Sfugge ed è ovunque perché non sarà mai più confinata. Fiducia solo in chi è ovunque, in chi già scivola nelle mie ombre, superandole, accettandole già. Jinn di perdono sereno, coda lunga che è una firma di chitarre e sitar incrociati in fondo alla pagina di tutto ciò che è stato, firma nostra dopo le nostre morti.
Lei, fittizia, annuisce nel suo schermo, sorridendo appena. Ride di me, o forse è una persona di una certa età (non posso essere certo che un’entità telematica abbia fattezze fisse): dovere morale di piegare le labbra in radioso silenzio di fronte ai cedimenti dei più giovani, quando fanno sgorgare all’esterno anche un solo rivolo dei fiumi viscerali che portano dentro -quando credono, in quel momento, che essi costituiscano il giacimento del significato intero del cosmo, quando recalcitrano all’idea che, mutando di forma e mutando di tempo, non saranno più così intensi, non percuoteranno più con la stessa urgenza le pareti del petto, e temono che lasceranno un greto povero, di progressiva polvere e pomice, fino all’immagine ultima degli anni: una ragnatela minerale, simile alla vista dall’alto di un’arida mappa geologica e idrografica. Ma forse è in quei graffi, in quelle scalfitture sul carapace di ciò che è stato, che c’è lo specchio delle rughe di lei, quando, ascoltandomi, non può fare a meno di ridere.
Ma non è una persona più anziana di me. Quella è solo una fantasia. Soltanto qualcuno che da qualche parte, da qualche irraggiungibile capo oltre lo schermo tenuto da me in mano, ha un corpo, microcelebre, stanco, bramoso di nulla, di nullizzarsi -metamorfizzarsi all’improvviso, una qualsiasi mattina praghese, in icona con sotto l’ultimo accesso effettuato. Sa perdonare i miei neologismi. Per questo ho ancora il telefono in mano: la mia mano non si è ustionata al contatto -perché lei conosce la differenza tra annullarsi e nullizzarsi, me la concede, non giudica, non manda ai campi di sterminio. Indugio, sto ancora a guardare. Ragazzo testeparlanti e ragazza postodellefragole. Leggo, vedo piccole esistenze patologiche rigurgitare nella sezione commenti lo sfacelo delle loro questioni personali, quasi come stavo per fare io. Prudono dita che potrebbero scrivere. Ritraggo nel guanto, poi nella tasca, tacendo, mantenendo inalterato l’equilibrio che dipende dal mio karma, dal mio nondire. Il sole dell’una picchia sul biancobrunogiallo di ambasciate e biblioteche neoclassiche, sulla pavimentazione tartarugata dell’esterno, sulle foglie lussureggianti ai margini, dove il personaggio giocante non può camminare se non ha sbloccato una qualche forma di travalicamento ambientale. Il tarasque è ancora qui, da qualche parte.
Laddove se n’è andata senza lasciar tracce l’ombra l’uomo nero il boogyeman degli universi personali, ecco che nella realtà (????) compare una coda di lucertola, striscia sulla strada davanti, lascia una scia sul tratto di sterrata di una salitella, che presto si ricopre di altri sampietrini e altro asfalto -era solo un inciampo nell’uniformità, una momentanea recisione sinaptica del manto urbano. Lucertola striscia nel fogliame nel marciapiede nel nonvisto. Come presagio di qualcosa che deve accadere.
Nella fossa
Mi parcheggiano, anche loro sorridenti (oh ma che è? Cosa c’è dietro?) nella piazzola sotto il grande ricurvo semaforo sottocasa nella città avvelenata, infrastruttura segnaletica in cui nidificano i corvi dagli occhi di smeraldo e le gazze, se solo uno si sforza di vederli apparire, quei giorni di frastuono di trapani, motoseghe, lavori in corso. E si vorrebbe udire nel cielo di fili elettrici incrociati un univoco gracchio di piumaggio nero, per sovrastare la tortura inflitta dal giorno che perpetua la provincia: si vorrebbe vederlo già tramonto, anzi, eterno crepuscolo, di moderata rubescenza, di ampi biancori tenui e traballanti come miraggio in mezzo agli arrossimenti del cielo che mosaicano i buchi tra i palazzi, tra i fumi pestilenti.
Ma loro sanno che sforzarmi mi ha stancato.
Sanno, perché ho parlato.
Mi sento spolpato. Molluschi senza interno, tra scogli, tra macchie di sale scrostate simili a escrementi aviani o spermi scimmieschi, ambra grigia di noi altri spiaggiati.
Mi hanno riaccompagnato e sanno. Ho parlato, sfinendomi. Sanno l’effetto che mi fa questo posto.
-dai, allora speriamo di rivederci in una grande città. Non qui.
Annuisco, saluto, esco nell’aria arancione, l’illuminazione stordente della sera post-invernale quando si vuole uccidere il buio. Il rumore di sportelli che si aprono e chiudono penetra in tutte le cose, e sembra diventare la cosa più reale che esiste. Null’altro è mai esistito al di fuori di quel rumore: il mal di testa cresce istantaneo. Afferrare la fronte con entrambe le mani, scuoterla, percuoterla contro il muro più duro e infrangibile, come a voler uccidere uno sciame di vespe che si è materializzato all’interno del contenitore, germinando dalle larve delle noci che inosservate scavavano al chiuso. Pungono pareti interne. Percuotere, percuotere. Questa via in cui abito diventa il mondo intero, questa via diventa rumori meccanici di sportelli, diventa i momenti che li accompagnano, la loro incontrovertibilità, universale. Meccanica, frizionale. Mortale.
Sì, ci rivedremo in una grande città: grande come il serbatoio del Vesuvio, e altrettanto buia.
Un saluto con la mano, altri di baci mandati nell’aria, senza contatto. Passi sulle strisce pedonali, saluti a quelli di noi altri che ci hanno preceduti sotto l’asfalto. Saluto ai ributtanti lahar di terra ctoniourbana che verrà denudata in futuri lavori in corso, verità sotto il sole e gli stridii di domeniche senza fine.
Per natale, da parte loro i miei regali preferiti: Joyce e calzini. Come avevo già scritto un diario di dejavu, associato a una canzone. Solo la rielaborazione, sì. Solo queste cose, suoni nostalgici e flussi di coscienza, solo queste cose salvano. Nella mia camera scura accendo un fuoco e un frastuono shoegaze. Oltre la serranda chiusa si perpetua quel mondo.
Oltre le serrande del presente, i punti di arrivo dei dejavu non ancora compiuti.
E altrettanto buia: una grande e vecchia metropoli, custode della cenere. Io, come beduino, stramazzo per la marcia vagabonda, in mano un pugno di quella sabbia, bacio quella sabbia, e ho le labbra grigie, come l’orizzonte, e il cielo qui sotto, e i miei vestiti, e le stelle. Come quelle gobbe di dromedari e megattere ed elefanti marini che affiorano dalla sabbia, sotto torri-fari degli astronomi che si stagliano all’orizzonte, sorreggendo il bacio tra la linea di terra e l’infinito indefinito del cielo. C’è tanto ancora da camminare.
Da un’altra parte
E altrettanto buia: qua finisce finalmente tutto.
(e inizia), mormora un vento, dal quale nessun ginocchio protettivo schermisce. Sono in piedi, che è nudità, esposizione alla città cinerea.
Finalmente tutto. (e niente), mormora. Finisce. E dire che non c’è stata nessuna odissea: solo forme di animali, saprofagi, intenti a scavare tra le macerie (e le macerie erano vive, ogni singola cosa, era un miracolo, ma tu non l’hai visto, non sempre l’hai sentito).
Mi volto, verso gli abissi d’orizzonte, senza orientamento, sperduto sempre, come lo ero in superficie. Cerco di capire da dove proviene il vento in questa oscurità insolita. Muovo un passo sul suolo morbido, che quasi non tocco, che quasi smette d’essere suolo -sabbia e cenere, negazione di aggregato.
Le mie vesti lunghe si avvoltolano in scie quasi libere, sventolano araldiche coi loro serpenti bianchi attorno ai miei fianchi e il mio collo come sciarpe smosse da questi spifferi improvvisi, e mentre avanzo mi coprono la faccia, mi ostruiscono i passi, mi cingono tutto. Semirette di vesti sabbiose: strappate qua e là, sgretolate nei contorni come pagine di polverosa biblioteca morse da insetti, si polverizzano al vento, pian piano. Ma sono vesti lunghe che mi avvolgono, e non si esauriscono mai, non smettono di sbatacchiare facendomi scie attorno al corpo, mentre senza posa traccio un solco sottile nel suolo vuoto, perfetto. A volte, di là dalle cataratte che mi offuscano, vedo rimbalzare tra le onde del vento granelli tintinnanti, stelle in miniatura.
Vedo da lontano la sorgente parlante del vento: è un punto della duna, distinguibile, come qualcosa che smuova e fori la superficie uniforme dei granelli uniti a ricoprire l’infinito: allo stesso modo appare la fossa d’un formicaleone: allo stesso modo -sembrerebbe, guardando da lontano quel punto, lontano, troppo illeggibile ancora-, lì sono stati risucchiati gli innumerevoli: predoni, che al gelo ululavano alla luna e ai suoi alti crateri di lepre, chiedendole un segno; idolatri di lune rosse insanguinate d’arancia, fanatici dell’intensità con le caviglie martoriate dalla steppa, stanchi, i primi a catturare e addomesticare gli animali corridori, per montarci in groppa, ibridando il movimento; e dopo di loro tutti i carri equestri, i monumenti di piazze e i conquistatori e i principi e i cacciatori di ponente, tutti gli altri predoni assassini, tutti i martiri assassinati; tutti precipitati lì sotto.
Così sembrerebbe da lontano.
Dopo molte notti, sono infine sulla duna: ma la mia vista è offuscata, ancora: si porta, quaggiù, in questa città grande grande e buia, la massa residuale delle carenze di lassù: all’ombra che là siede, invisibile cieca e oscura a tutti coloro che, pensando solo a salvarsi, non sono riusciti a salvarsi, io sovrappongo le figure di una visione già appartenuta, non nuova. E stralci di una conversazione, e il sentire di allora, e i dolori e le rielaborazioni, e le strategie di sopravvivenza. Rivedo un ologramma di due amici, il nostro discutere su questa stessa visione: loro due nell’aldilà, uno di loro seduto su un tappeto a offrire un tè nel deserto. Se accetto, se rifiuto, il modo in cui accetto, in cui rifiuto: cose che determinano la mia incarnazione futura. E il modo in cui ritornerò qua, a salutare queste sabbie. Seduto sornione, lui si arriccia i baffi: un granello di stella, pianetoide di particellare cristallo, s’è incastrato tra due peli storti e rigidi: lì incastrato mi osserva, corpuscolo del tutto.
-allora-, mi chiede, echeggiando frammenti di altre cose udite, altre cose non nuove, che ho lasciato senza risposta, che ho trascurato, abbandonando macerie dietro i miei passi. -allora, dormi bene? Come le passi, le tue recenti notti, com’è il tuo sonno?
“mah, sì e no”, scrollo le spalle io, assottigliandomi, “nel senso che…”. Nel senso che, nel senso che.
-male!-, dice il mio amico sahara, prendendo a occhi chiusi un sorso del tè. L’altro amico, amico kalahari, appare al suo fianco, statuario. Scricchiola rumore di pietra quando piegandosi gli si siede accanto, affossando un’area precisa di tappeto: prendendosi uno spazio. E mentre l’altro sorseggia, lui soppesa la lunga asta di una pipa, quasi uno strumento musicale a respirazione circolare, che in eterno suonerebbe in sprezzo e amore dei suoi natii cieli australi.
Nella mia mente, ancora viva, si presentano le loro figure: una statua ad ali nere spiegate, e una statua di zampe colonnari in giada pachidermica, sono guardiani ai lati dell’entrata di un tempio. E io sto davanti all’ingresso, senza saper che fare.
-male!-, ripetono, o forse uno solo dei due a parlare. Non so più chi dica cosa.
-quello che sai valutare del tutto, comincia da quello che sai valutare del tuo sonno. Il sonno è importante: e valutalo allora! Rispondici, una buona volta, senza evadere: è un sonno di merda, vaffanculo!, oppure, ho dormito benissimo, come i sassi morti sotto di noi. Non esitare! Decidi: dormi bene, o no?!?
Ringrazio in silenzio, con lieve sorriso da spettro, occhi chiusi, annuisco, procedo. Loro annuiscono, alzano specularmente la stessa mano, uguale alla mia, identico saluto. Me ne vado avanti nella notte soffiante. Loro stanno sulla duna.
Se mi girassi li vedrei ancora. Laggiù, nel dietro, là, come un fuoco lontano, dove si raccontano storie.
Cammina cammina, vedo aumentare i ruderi, le cose che affiorano da qua sotto. E allora capisco che la città comincia ad assomigliare a una vera città.
Qualcosa bussa ai margini del deserto. Che ha delle pareti, così alte da non potersi vedere, da farsi trasparenti. Qualcosa gratta.
Una massa, a prima vista orripilante, come il primo miracolo osservato dalla prima mente, comincia a irradiarsi da una conca lontana, lontanissima all’orizzonte, la cosa più lontana che c’è. Tumorale, la cosa nuova che sta nascendo, albeggiante, irradia braccia fulgide di bianca pelle spolpata. Ai suoi distantissimi margini, in quelle terre levantine sotto il suo incipiente alone, comincia a colorarsi, d’un tepore malato, giallobrunorosso, la sabbia sottostante, la terra che arriva fin là. E sto a guardare.
.
Mentre guardo tutto, dentro crisalidi sovrapposte di coperte, sono guardato. Una massa informe e senziente si raccoglie nell’angolo della camera. Estrae un fascio di appunti, pronta a scrivere, a chiedermi al risveglio dove sono stato e perché.
Opmerkingen