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absurdus, sp.

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 lug 2023
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 6 lug 2023

Trascinato sotto i primi bagliori dei lampioni per essere condotto nell’antro, davanti alle tarantolari fauci aperte del mago, il bimbetto si guarda attorno, a ogni passo diventando grande grande grande in un altro corridoio di specchi scavato nella dimensione di fulgide distorsioni che va formandosi nelle ombre che infestano la festa del porto, laggiù plasmandosi adulto, scucchiaiandosi numerosi occhi ovoidali in più parti del corpo così che con ciascun angolo di sé possa osservare il pericolo e nei confronti di questo diventare un riflesso, una minaccia più grande, così che con lo sguardo possa elargire il segreto pensiero che comincia a fermentare nei recessi viscidovaricosi di un fegato immaturo, una sanguinolenta fetta di coltura batterica nell’addome nord-laterale pregna di oliature industriali e fermentanti afrori che ogni istante aumentano la concentrazione del loro potere acido, la loro puzza, il corpo sta crescendo, per volere profondo di scheletro e calcio e primo osso immobile, sta crescendo, il fegato fetido in raccordo tra l’istante della fecondazione, che rivive adesso come teofania di se stesso e del buio magma d’immersione primordiale, e tra l’istante futuro, l’ignoto poliedro d’ombra che si assembla da ciascuna precedente tessera del domino della tenebra attraversata, ogni giorno, sole o luna in cielo. E innumerevoli bulbi pupillati su di sé per vedere: maculatura, esotica bestia da gabbia fatta di passi irrequieti avanti e indietro nell’angusta ombra lacerata da arrugginite maglie scarnificanti e di riingoiati ruggiti frustrati nell’aria di noccioline bruciate, oppure diavolo, nella gabbia dell’oscurità. Sì, gli piacerebbe essere una creatura così in quel momento, quella sera circense da spiaggia.

E si vede vertiginoso, a guardar tutta la sera rimpicciolita, e accanto a lui, emerso dalle onde cogli schiumosi residui del mare scroscianti dalle squame, un kaiju. Sono giganti, e in lampi di distruzione i loro passi, il loro mero avanzamento, il loro gridar “ci sono, ci sono, per qualche motivo”, diventano Shiva disceso: Geox e zampe tridattile di un permiano letargico d’abissi a schiacciare insieme i tendoni e i gazebi del suolo, le formiche e le creature senzienti si riversano fuori dalle tane e gli intrattenimenti e i tiri al bersaglio e le microcosmiche ramificazioni delle viuzze come per allontanarsi da gocce di pioggia che a milioni precipitano sulla terraferma ciascuna sfaldandosi all’impatto in un remake cinematografico e catastrofista del diluvio universale, le miriadi delle specie del mondo formicale salgono a coppie su un’arca urlante incendiata nella pioggia chiamata autoconservazione. E loro, fratelli in rettilarità, tutto questo vedono, più alti dei pali della luce e telegrafici, tutto questo lassù osservano rendendosi fluttuanti volti satellitari, troppo distanti per riconoscere il dolore inferto, le incalcolabili macerie sotto di loro. Fiato radioattivo che come telai sbrindellati ribaltati internamente dalle volubili pressioni del vento s’infiltra negli spazi vuoti tra i raggi della ruota panoramica, quei vuoti che sembrano accogliere inchiostro bianco dallo scheletro metallico della struttura adiacente e colorare dello stesso bianco un vago contorno lontano della singola nuvola che occupa tutto il cielo in quell’incolore crepuscolo, vestendolo, rendendolo uguale alla domenicale sostanza parassitaria nella mente che sbuffa foschia e impercettibilmente aumenta di peso, gravando la testa inosservatamente.


La sera circense. Festa. Molo. Vede le ferite del tramonto. Riescono a passare per qualche spazio bucato nel cielo. Come braccia di un tossico. Come ratti in stive. Ventri di imbarcazioni in allineato galleggiamento sull’acqua senz’onde perfettamente livellata sotto i marciapiedi del lungomare, dopo ogni tramonto diventa pozza del nero. Originale crepaccio del mondo. Demone. Acqua più nera dell'abisso. È un volto che guarda. Il molo ha un odore. Con i suoi occhi con i suoi nasi lo riconosce. Più della realtà vicina, più dei gabbiani stridenti che scendendo quasi in picchiata sostituiscono le livree dei loro cappucci, all’improvviso neri e gialli come in un libro illustrato di cartone spessissimo, quel bimbetto, quell’uovo d’apocalisse, riconosce un tunnel lontano squarciato nella penombra di sogno graffiata da cicatrici violacee di eterna festa notturna instillata in ogni significato di male e altra faccia: videocassetta, fotogrammi del suo allattamento in casa, la sua cura infantile, sua crescita: dall’infernale tafferuglio ruotadentato del videoregistratore si sprigiona, come effetto luminoso-calorifero dello sfregamento della pellicola neratrasparente lì dentro digerita, l’immagine maternale, foriera di latte mitopoietico somministrato in gola: in un giorno di luce campanaria tra le principesse e i principi e i coriandoli di lietofine si genera attraverso il mero esistere dei fotogrammi il loro negativo, le canzoni dei cattivi che suonano con più fascino nei sax avvelenati e delle blue note diluite nel rosso di piccoli inferni divampanti, ogni rauto soffiante cascate di scintille draconiche nella tenebra del loro abitato cavernoso -il male è qui, ragazzo, cantalo: spiega la mascotte, neo-Zeus d’oltreoceano che per sedurre Europa e Geisha prende forma di topo nero antropomorfo ed eiaculando in Atlantico e Pacifico li rende fertili del magma animato eternamente fluente, pellicola inesaurita, istantaneamente replicata nel proiettore intracraniale sin dal primo suo istante d’incontro, insomma dal suo primo istante d’esistenza. Si fa strada nel corridoio buio del bimbetto che è un uovo d’apocalisse, attimi prima di incontrare il mago, l’idea che forse nulla esiste prima e dopo di lui, che tutto quanto incontra è esplosione, big bang, che il big bang esiste, che una scienza esiste delle cose del mondo, un complotto d’esperimenti, oscuri agli strati più superficiali dei governi, dove le bestie preistoriche resuscitano e agiscono tra i nidi abitati dalle nuove scimmie secondo precise necessità scritte su mappe del possibile e fattibile e obbligatorio; piani oscuri, di cui era lui stesso scrittore, immaginandoli, permettendogli, una volta figliati, ottenuta da lui la paternità, di svilupparsi autonomamente, lontano da lui in un’altra tenebra dove avrebbero potuto crescere indipendenti e a dismisura, reggendo in piedi le loro trame su pilastri centrali d’incomprensibile e pertanto illimitatamente possibile. Mosaico spermatico dell'esistente. Un gigantismo aberrante dell'immaginazione, composto di brandelli codati e spettropallidi di sé: tutto quanto è, è caverne di te. Afterimage dell'angolo buio.


Legno cemento acqua pelle torturati da brezza e musica e carillon e sfrigolio e salsedine e stridio e mistero incontenibile. Esagerato incontrollato vomito di recipiente proibito. Quindi giorno perfetto per incontrare il mago.

Brezza sferza, calcando i solchi tra le travi della passerella sul lungomare nei pressi del molo, ricostruita lignea per ricordare i velieri antichi giunti a mordicchiare le coste, ghiandole schiumose chiamate granchi che accorrono in passetti di zelo salato a ripulire il brandello gassoso di una carcassa riversata dalla risacca. Sotto i piedi quella stessa spiaggia, quella stessa decomposizione. Appena sotto le tegole. Sotto le cartacce e gli zuccheri filati cadenti, neve scenica, rosa, sarà viola nella notte. Notte: se la immagina bussare di là da quel fumo illusorio di bianco rosaceo ai lati: uno schermo blunero fecondato dai viola del fuoco e dei draghi notturni del movimento, che come fosse furioso in qualche maniera segreta nel suo volto d’impassibile indistinzione batte colpi terremotanti contro il muro dei secondi in inesorabile successione. Nuovo istante si rinnova, un gabbiano incurva una rischiosa marciaindietro, il bimbetto sente, fragrante, più vero di qualsiasi altro odore della sua vita (nasce il suo naso, per la prima volta, celebra in quell’altrove d’altri specchi distorcenti un battesimo gravido di sole e rampicanti e offerte saccarine e marcescenti sugli altari), il lembo ultimo delle penne caudali che evitando l’impatto gli hanno sfiorato le narici, quasi in modo che le punte acuminate delle zampe palmate graffiassero la sua molle faccia, aprendo varchi per l’ossigeno all’imburrata di fetido grasso giallo tra la patina emozionale del volto e gli imparziali nervetti dello strato inferiore, e il cranio, e altre cose minute, che si stavano creando adesso… sei una galassia, fratello, diceva fraternamente a se stesso -con una lucertolesca parte di sé neonata e doppelgangerante- accorgendosene sempre più in quella misteriosa e insensatamente viva sera di rivelazione, ogni volta -cioè costantemente in un arco temporale di infiniti millesimi di secondo- che notava una nuova esistenza nella sua capacità di immaginarla, rilevarla, sentirne un’aura. Galassie esplodevano in ogni sua cellula, in ogni cellula del reale&irreale.


Entriamo nell’attrazione con l’esoscheletro a tendone biancoviola?, dice una voce, angelicata maternità di simulazione, forse non con queste esatte parole, forse lui dicendo “sì mamma” senza aggiungere altro di quello che aveva pensato, senza rivelare il trucco. Il mago ti sta aspettando, dice forse -improbabile- lei, dice forse cospargendosi le oleate curve e sinuosità serpeggiate fiere e terrificanti dalla vecchia pelle della depressione post-parto di tatuaggi omaggianti un misterioso principio dell’Uno, un nervo di elettrificata nerezza concentrata in un punto di ragnatela, onnipresente negli altri simboli che sono ormai sua pelle, suo linguaggio -fogliame nettarino di viti, fichi, tralci attorcigliati, zanne d’alberi cavi i cui spiriti erano concentrati nei teschi degli erbivori d’occhio immobile, un fallo che in una radura solarlunare libera le donne denudate in festa e in dolore, amaro festeggiamento delle madri del mondo, le erbe attorno asperse dal loro pianto gettato da ogni loro parte del corpo capace di piangere, ogni parte dell’anima capace di avere un messaggero corporeoacqueo. Ogni madre strega e sposa del capro d'acqua d'abisso. Costellazioni e gocce nella placenta. Torta nuziale del messaggio, urlo muto, sfiatatoi.


Questo è una donna una madre una voce infilata in un sarcofago simulato. Altre rispondono, voci di avventori, festeggianti, mele caramellate in veleno, scorrazzare estemporaneo, acquisiti agitati nelle mani come ventagli contro immaginari nuvoloni estivi, e sussurri, premure, “attento”, rimani dove ti posso vedere, torniamo a casa, venghinosignorivenghino e altri refrain. Tutto attorno in vortice audiovisivo, lì vicino all’attrazione che imita un tendone da circo, spalancata e scura in attesa come la bocca della caverna di forma cranica e zannuta di un malvagio che abita i margini del consesso sociale e della coscienza, tana di mago. La sua canzone cantata da lampi di luce demoniaca, divampano cavità oculari della grotta.


Entrano ed è buio senza corpo, foschia cosmica ai lati delle cose. Moccoli equidistanti poggiati a terra illuminano fiocamente solo un tappeto, rossa lingua srotolata fino a.

...................

Il mago scintilla un dente d’oro in fondo alla tenebra del tendone, seduto alla sua cattedra di stelle. Sparisce il cielo di fuori, dimenticato, separato: ragazzo, toccalo qua il crepuscolo, e non ti servirà altro: una palla magica, un globo, un pianeta. Il fumo viola imperversa nel suo vetro.

E avvicinandosi, un figlio d’apocalisse, col sangue dei grandi rettili e i grandi uccelli e i grandi sommergibili dell’era polmonare in attesa millenaria sotto le bolle di respiro, attesa del nuovo sole e del segnale dalle terre radianti del re dragone figliodelcielodelmare -avvicinandosi alla sfera magica del mago, da vicino fa rifrangere il proprio equoreo e distorto riflesso boccaspalancato nel vetro, vedendoselo quest’ultimo al contempo indistinto dagli occhi, altrettanto vicini, del mago, il suo protuberante naso malconcio e i suoi denti che da irritate gengive sporgono a spolverare corrosive nebbie d’alito giallo come nelle caricature delle genti sgradite negli stessi cartoni ch’erano stati i suoi primi riferimenti della cultura umana: Gilgamesh semiticolicantropico che soffia contro le pareti delle tre casette dei tre maiali edilizi. Sì sono gli occhi, sì sono biglie: contengono le stelle, il cielo, ogni sua variazione, e tu sei testimone del loro ininterrotto contenimento. È mai possibile che i fiori concentrici delle galassie vengano di secondo in secondo imprigionati dentro queste cose? E che lì ripetutamente esplodano, rendendomi piccina anche questa nuova consapevolezza, spazzandomi dalle narici l’odore pescemarcescente di gabbiano che ho catturato nella rete della memoria per sostituirvi invece la fragranza polverosa e remota e completamente vuota del vento sui deserti asteroidali? Rendendomi piccina l’inspiegabile brama di marcia gigante, regredendo me e fratello godzilladiscendente in un uovo circolare di molle guscio in fondo oceanico. Svegliato dalla guerra: laggiù in sonno d’inferi d’acqua appena smosso dalle onde, le esplosioni distanti della superficie, gli affogati spettralvendicativi di Dan No Ura e porto perlaceo. Molo. Non ci siamo mossi dal molo. In un incantesimo -degno di mago-, tra i soffi saccarini dei dolciumi e gli abbrustolimenti, tra eco cigolante del ruotare panoramico e le luci ricircolanti che cominciano a divampare, tra i voli e le lische, un negromante riesce a creare un portale di buio. E dentro ci scopri il nonsole, la nonluna. Dentro ci scopri il vetro che abbiamo.


Chiude gli occhi un secondo. Lo stesso fa il sé stesso interpellato prima, il fratello, il più teropode tra quelli dei mondi di specchi. Vede i frammenti del vetro sulla battigia. I cormorani sul legno del molo, le otarie, i marinai ubriachi che bastonano e uccidono, e tra sabbia e legno e cemento arrancano forse nel disperato tentativo di ricomporre la lente infranta del cannocchiale. Stacco. Taglio cinematografico: bimbetto crea il cinema: si è nella notte, non più bussa ma sfonda, impera, spadroneggia, senza musical fumiganti, senza segnali ovvi del fuoco suo: vede il futuro immediato dietro il più probabile presente, pezzi di vetro sporco a ricoprire per intero la spiaggia, e le travi, e le piazzole vuote antistanti le bancarelle in un’ora di buio che sembra campeggiare in un’assenza totale di vita, in una storia che si stenterebbe a credere esser stata abitata se non per quei relitti di costruzioni antropiche -antropos, scimmia, forma di vita- per sempre vuoti, per sempre affiancati dai rifiuti vitrei e cartacei e cibomarcescenti, senza più spazzini alati all’orizzonte, senza stridii, senza altro che ombra e cigolii di ruota, di vento più forte, sempre più forte, che cancella anche il mare -vento asteroidale che ci screzia più del mare, più dell’acqua che è noi, la nostra più ampia superficie. Nostra di antropos. Scimmia di mare. Tritoni la nostra stirpe. Annegati già tutti, collasso branchiopolmonare universale.


Ma è un altro il vetro che gli sta venendo indicato.


Riaperti gli occhi, il mago gli sorride ancora, incoraggiante, sguardo, ghigno predace di poteri a se stesso simili, non si nutre che di se stesso, autotrofi tritoni noi tutti.

Voltati: vede genitori, e il margine di una fila di sconosciuti là fuori, accalcati e potenzialmente desiderosi di spintonarsi là per entrare, appena un centimetro dal velluto abissale della tenda che crea i contorni di quel mondo, quella notte dentro la notte, quella radice quadrata. E tutti, genitori, mago, corpi rosa e rosavestiti in file interminabili di là da quella nera vagina tunnellante verso il molo-mondo, tutti quanti senz’esclusione portatori di pianeti in corpo, vetri in faccia. Galassie che gli ammiccano tra i musi, guardandolo. Scoprono i denti in quell’istante, tutti, in identica smorfia. Un dentifricio d’argento trascorre come dal fondale il frangersi della luce diurna ambrata nella formaldeide della superficie quando passa un convoglio di mante con le gommose bianche ali spalancate. Passa un secondo luccichio. Diventa identico a quello dei due opali vicini. Tutti, due per ogni faccia. Dentro il tendone e fuori dal tendone e ovunque. Il molo il mondo è quel posto dove tutte le cose hanno in faccia due coriandoli e il sole ci scoppia dentro facendo una musica un jingle che risuona dal porto e i battelli ormeggiati un overture sfolgorante delle sfere in pupilla un’opulenza inutile nella forma.

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