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abbiamo ascoltato Plastic Ono Band

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 22 ago 2022
  • Tempo di lettura: 22 min

Camminando ascolto con soddisfazione lo scricchiolio dei passi sulla strada mezza ghiacciata, e mi accorgo di quanto la città attutisce i suoni. Erge palazzi di materiale isolante, le vie silenziano. Cinto da palazzi alti mi muovo, una minuscola macchia senziente sulla mappa, tra i reticolati, marciapiedi puliti, lungo un parco. Pochi in giro a quest’ora, in questo periodo. Tutto attutito. Aria ed edifici hanno un nucleo d’ovatta, impossibile da trovare, ma esiste. Fluttuo in movimenti periodici e meccanici su un marciapiede con baffi d’erba, giardini su un lato, hanno statue da fontana, putti o forme astratte, che mandano luccichii invernali lungo le curve dolci della struttura color rame, cava, liscia e lucida. Attutire, silenziare: camminando nella città quando possiede questa quiete capace di incantare ci si abitua alla sua concretezza, quasi assenza di simboli. Il pensiero si fa delle forme in cui risiede: ho meno ansia di definire il mio tempo, il mio spazio, i loro mali. Sto abitando. Le statue solo ricordano i simboli, una mitologia che tenta di ricostruirsi anche qui. Leggende urbane, di rame e pietra o di mormorii che circolano, di immagini di luce elettrica, o luce di un sole strano quando al crepuscolo non è ancora abbastanza buio e, incavate tra ingressi di locali e gazebi esterni, se ne stanno a fibrillare mezze addormentate soltanto poche luci fioche. Luci e colori s’avvinghiano alle vibrazioni impercettibili, con loro scendono le scale e salgono in metro -non le vedo, non ci sono fermate qui, ma c’è, ci sono treni sferraglianti, apparati sferraglianti celati da ogni sottosuolo, in profondità dietro ciascuna parete un movimento che convoglia punti senzienti come me. Mormorii che in questo modo viaggiano. Stirpe prolifica, pullulano e sanno spuntare dalle svolte delle vie. Potrei camminare ancora un po’ e veder materializzarsi una voce. Mistero. In rispettoso silenzio l’attraverso, e strattono un altro giro attorcigliante alla sciarpa che porto, chiedendomi se non possa essere un boa del ghiaccio, un pitone delle nevi. Mito che esiste in città. È su di me, sopra di me, mi tocca -si unisce a me, perché fa parte dello stesso punto che vive e deambula, siamo lo stesso punto. Sento come un palpito di sangue e respiro quel tepore che gli attraversa il tessuto e mi avvolge il collo. Così equipaggiato entro nel caffè che conosco, la mia meta, la spinta ai miei passi originariamente intorpiditi. Grande sonno e risveglio. Piedi fermi sul pavimento freddo di una camera si svegliano e trovano un mondo pieno di luci. Le porte automatiche si spalancano dischiudendo una moltitudine di scie elettriche rasoterra, faretti, illuminazione riflessa dal pavimento arancione. I piedi varcano la soglia d’un mondo di luce non invasiva, nonostante sia parte delle infinite luci urbane, mentre sopra il resto del corpo si lascia assorbire da una bolla di calore differente da tutto, separata dall’esterno, un diaframma di portali impalpabili appena visibili come flussi d’aria traballante. Mormoro un buonasera inudibile facendo un lieve inchino in direzione della ragazza del bancone, che sorride delicatamente, e guardando con decisione il pavimento mi dirigo al mio tavolo preferito appartato in un angolo del locale. Mi chiama a sé facendosi di legno più scuro degli altri. Si chiama penombra e ha un dorso fatto di parete, protegge la schiena. Sono già seduto, cancellato il tempo intercorso tra l’ingresso e l’occupazione del posto, dimenticato. Divento già tutto istinto: animale che si muove per volere di restare lì, così abbracciato, fino alla fine della sera, fino alla fine dell’infanzia dei miei giorni in questo posto. Cigolando sotto il peso mio e delle cose che poso, il legno mi saluta, mi rimprovera, mi rende consapevole dello spazio che ingombro, mi imbarazza, mi rimprovera per l’imbarazzo. Ma mi riconosce e comincia subito a proteggermi la vulnerabilità del dorso, col muro inseparabile dallo schienale della panchina, alto su di me.


A lungo leggo il libro, meno a lungo digito qualche parola sulla tastiera. Musica che non tace mai. Porto con me in peregrinazioni e smarrimenti canzoni di malinconia perfetta, tramonti urbani trasformati in dati, tramonti di sentimenti comatosi e visione che in una gommosa fibra si distende contemporaneamente in avanti e all’indietro: il passato la nostalgia il futuro la nostalgia per quando sarà già passato, zone d’ombra ignote alcune si chiamano presente altre si chiamano semplicemente zone d’ombra ignote e vivono in tutto l’universo conosciuto. Tutto ciò nel mio occhio nel mio occhiale.


Si appanna il vetro antiriflesso venendo raggiunto da un pennacchio bianchiccio rampante simile a un’illustrazione futurista, e davanti a me la ragazza in divisa verdescuro posa il piccolo vassoio recante il tè verdechiaro che ho ordinato. Ringrazio allo stesso modo di prima, vedo incresparsi le piccole labbra. Piccola circonferenza bivalve. Capello verdeacqua legato ricade su una spalla in ciocche qua e là scolorite biondeggianti, quasi bianche, e c’è un odore d’aeroporto nell’ambiente che mi assopisce i nervosi e scattanti organi impazziti che dentro me si sparpagliano in brulicanti foreste di girini. È un aroma, si mischia all’odore di tè, e brioche di tavoli poco distanti, ed ecco un doloroso fischio di decollo m’invade l’orecchio accaldato appena fatto uscire dal padiglione della cuffia -scostata per potermi sentir pronunciare anche senza voce il ringraziamento, per poter evitare fraintendimenti, per accogliere eventuali parole, “prego”, rimproveri, saluti di lei. Non ci sono aeroporti nelle vicinanze, ne ho portato uno con me assieme alla musica e le pagine e i dati informatici. Ma ci sarà un aereo sopra il locale, sopra i quasigrattacieli? Che da qualche parte nel cielo ha fischiato forte, pronto a farsi assorbire dall’inchiostro della notte sempre più blu, e a lanciare un ultimo canto di luci di segnalazione fino a sparire? Mi sembra che ci sia, che ci siano tante nuvole che sempre guardano tutto questo dall’alto, in un’illusione di perfezione, in un’illusione che tutto s’addormenti e s’addentri nella quiete, respiri che si assottigliano all’unisono. Penso questo e m’imbambolo e quasi mi viene sonno e gli occhi penetrano con acume ittico un punto vago del vuoto, e mi sembra d’udire una risatina, o d’avvertire vagamente l’eco delle sue vibrazioni che si propagano dopo aver frastagliato uno strato sottocutaneo di braccia e spalle. Un istante, meno di un istante. Mi riscuoto e si è già voltata, tutto in meno di un istante. Vedo proiettarsi nell’ombra di lei che se ne ritorna al bancone una stanza, una scena, una miriade di dischi collezionati e ascoltati in due come in preghiera, pareti ricoperte di poster bandiere scritte. Sono fantasie, fantasie inopportune. Mi dico smettila, basta guardare gli estranei, basta guardare soprattutto le estranee, perché “spietato e inesorabile è lo sguardo maschile” come canta il poeta. Però che male c’è se sono solo spettri di sorrisi poco convinti? Con la delicatezza di spettri se ne fluttuano discreti senza incrociarsi, vanno a sfumare chissà dove lasciando che vengano dimenticati nel flusso di miti e simboli e presenze della città, che per sempre rimane un flusso silenzioso e inespresso. E noi torniamo ciascuno alla propria occupazione, buoni come grosse creature abbeverate al fiume.


Traggo un sorso, con soddisfazione, quasi come coi passi. Carezzo con soddisfazione la qwerty ed eseguo scale musicali, soddisfazione del crepitare plasticoso riecheggiante attraverso il locale e della scena che in quanto animale sono andato a cercare, per rifugiarmi, attraversando la città nuova che sto imparando ad abitare minuscolo e autosufficiente. Sono al sicuro. Sono al sicuro? Sguardo veloce, cerco di riconoscere forme. Poche presenze a tavoli vicini. Simili movimenti, simili ai mei. Simili abbigliamenti, uguali strumentazioni -pc, cuffie, libri cartacei, tazze fumanti di qualcosa-, prime necessità. Altoparlanti, arredamento. Volumetti a disposizione in librerie nane, e poi vetri, e poi quadri, incastonano vedute di bistrot e canali e giardini e balle di fieno e concerti. Laggiù c’è lei, tornata al bancone, da sola stasera a far da guardiana al locale, a farlo respirare e a spegnerlo in chiusura. Digita sul cellulare, lo ripone rapidamente, si guarda intorno, senza noia si direbbe. Non ripensa con scherno ai miei gesti goffi, chissà quanti ne incontra ogni giorni di tipi silenziosi ma cordiali, chissà quante volte lei, senza alcuno sforzo, riesce a esserlo, senza mai corrompersi, senza mai farsi vincere dalla stanchezza. Rimanendo se stessa e cambiando insieme, impara il mondo rimanendo se stessa. È incredibile.


Un brivido ignoto mi attraversa le mani, raggelandole per un attimo. Ma l’inclinazione maldestra della tazza e la conseguente scottatura arrestano alcune implicazioni che mi sarei gettato a pensare immediatamente. Tampono col fazzoletto, verdescuro come il locale e la sua divisa. Torno al libro e alla tastiera, cuffie come orecchie di coniglio elettrico, altro simbolo proveniente da un mito nascosto, mentre il pitone delle nevi viene lasciato a riposare sullo schienale della sedia. Mettendo forza nei polpastrelli arrossati da un incipiente congelamento digito caratteri senza senso, ignorando deliberatamente così da non fermarmi le loro mancanze, le mie mancanze. Solo in un posto che non mi rigetta posso trovare il potere di non fermarmi e sparire, come l’aereo, spegnendo l’ultima luce di segnalazione in un liquido sconfinato che mi inghiotte. Niente mancanze solo momentanea effimera ma intensa concentrazione. Solo musica in un locale dove si viene a leggere. C’è anche quando le cuffie bluetooth sono spente, cool jazz del locale. Poi Aretha Franklin. Poi disturbo d’altoparlanti. Quando la musica diventa un po’ sgradita, quasi fosse un cicaleccio inintellegibile scrosciato da uccelli stranieri sopra le onde del mare, riaccendo le orecchie di coniglio elettrico aka cuffie e le indosso. Like a finger in the sky, like a finger in the sky, ascolto scrivo chiudo gli occhi, il tramonto sfuma da qualche parte e mi connetto in maniera non invadente a quanti nei tramonti del mondo stanno ascoltando le stesse parole elettricamente incise, deeper into movies cioè imprigionati dentro film mentali, immateriali. Per conciliare il mio spirito conciliatore, il fumo, ma non sono un fumatore, ma se ah se ci fosse il fumo, fantasia frequente in città. Basta fantasie! Tu sei tu, e non sei nient’altro. Lezioni vergate a inchiostro nel cervello metropolitano. Piccoli infiniti Wittgenstein uno dopo l’altro infatuati dalla vita della mente che nei secoli con i loro pennini hanno sgraffiato infinite pagine dentro il calore colonnato di biblioteche e luoghi del genere per tutta la grande città con le scalinate grandi, la grande città in cui sono venuto a leggere in santa pace. Piccolezza! Infinita piccolezza! Eppure le loro parole e i loro pensieri, per loro certamente, piccoli santi patroni della mente, dovevano risuonare in eco di incontenibile pregnanza, come una pioggia eterna sui marciapiedi autunnali, come le note del piano di prima tra i muri e le foglie del locale, sempre a trovare eco. Prima d’uscire furtivamente e invisibili al di sotto dell’interstizio delle porte automatiche e gettarsi negli aghi danzanti dell’aria esterna, dove vengono attutite dall’assorbimento acustico delle vie semideserte, le note con le loro eco trovano uno stato perpetuo, di inesauribilità. Solo che nessuno può sentire quelle frequenze.


Finisco il libro. Finisco il serbatoio di malinconia, almeno così credo. Questione di minuti: ritornerà, basteranno una foglia, un piccione stanco di volare, una cosa troppo sporca o una troppo pulita, chissà, e riotterrò uno stato depressivo del tutto innocuo costantemente massaggiato, controllato, estetizzato. Né il libro né gli appunti digitati su vari file sanno donare un responso al mistero del mito corrente, un mito di girovagare e osservare senza alcuna meta, ma non un viaggio, no. Nemmeno il viaggio di Dedalus decollato dall’Irlanda per trovare l’arte, sulle ali del falco. No, sono qui per… stesso brivido improvviso di prima nelle vene, quelle che s’avvinghiano sottopelle alla grammatica delle dita roventi. Torna lei. Riprende la tazza. Già finito il tè? Ho già finito tutto, il libro l’album la stesura dovuta per oggi, non mi sono goduto niente? Mah, no, dai, non sarebbe giusto dire così... L’ho vissuto questo locale. Ma non è forse anche questa una forma di consumo fine a se stesso?, mi chiedo in ansia, sono un colpevole consumatore di locali e di scene e di momenti di morbida quiete? Su una parete dall’altra parte del tavolo un signore d’acquerello seduto a un bistrot dentro un quadro, tutto macchie e stortura di lineamenti, sembra annuire con distacco e incontestabile saggezza mentre regge una pipa. Il fumo che aiuta la sua concentrazione. Lo invidio.


Il pitone delle nevi è pronto a risvegliarsi. La ragazza si limita a riprendere la tazza e il vassoio. Aleggia forte un odore di erbe dal fondo, piace a me, si capisce che piace anche a lei, lei è di coloro che riescono a sorridere nelle ore di lavoro, cogliendo aromi e amando piccole cose. Deve avere uno di quei nasi che si comportano singolarmente, pieni di personalità più che di batteri quando s’arriccia e inspira e freme -stai di nuovo osservando, smettila subito! Oggi devo essere particolarmente lucido. Ricordo di quando seduto su una panchina del parco sono rimasto a fissare una statua per un periodo interminabile di cui non mi sono minimamente reso conto. Invece adesso so fermarmi. Sto bene di testa, il rifugio mi ha fatto bene. Rifugio da cosa?


Tazza e vassoio ritrovandosi a mezz’aria tra le mani di lei schioccano un bacio di finta ceramica. Cliente che ha bevuto, tazza ripresa, il nostro scambio si limita a questo. Ho ancora il berretto in testa che avevo nell’inverno fuori, sono un guardiano di pecore fatte al 100% di lana. Capelli di corno e pittura discendono disordinatamente da sotto il labbro del berretto, sono appuntito trasandato ma con stile ma con indifferenza. Questo io. Questa lei, treccia verdeacqua che manda riflessi, come attraversata da viva linfa. Un commento, qualcosa che succede. Risate di inspiegabile complicità. Dolcezza che a volte esiste nella vita di tutti i giorni. Ho quasi la spinta ad annotare certe cose, certe piccole bellezze. Ma ho il vizio di scrivere in astratto o in amarezza, le dita rosse sulla tastiera scrivono: “il nostro scambio si limita a…”, e in quel momento lo scambio smette di limitarsi. Confini espansi. Solo nella mente, conversazione. Ma la immagino a dire qualcosa a un certo punto, non saprei bene cosa, che mi immobilizza.


Nei paraggi vedo solo due schiene, sedute a tavoli del tutto identici, tutti a una certa distanza. In un improvviso fuorifuoco diventano punti autodisintegrantesi, diventano pallette d’inchiostro in giacca bruna. Spariscono. Il pavimento, i piedi, mescolano le loro reciproche luci come saliva, luci o le loro illusioni, chiamate colori. Lei è una ragazza che lavora, che vive qui, che sopravvive. Fuori di me e fuori di questo posto, fuori anche di questa città. Ma dov’è che vive? Come fa a respirare il suo petto, portandosi dentro tante di quelle cose, ognuna con un nome come un’importante e inspiegabile cianfrusaglia del passato? Chi sei tu? La spinta a voler sapere di lei non è una spinta di conoscenza. Non voglio avvicinarmi. Voglio vedere l’abisso su cui sta fluttuando. Lei e tutti quanti. Tutti a vivere qua. Ma questa città esiste?


Una specie di fulmine mi punge i timpani e mi trafigge poi interamente quando capisco senza potermi svegliare d’essere in un sogno.


Trema un po’ tutto. lampioncini faretti. Io l’edificio il suolo. La vista: è la vista che sta tremando, e comincio a vacillare. Sono il punto da cui s’origina il sogno, se tremo trema il mondo. I personaggi tremano, sono parte di questo, ma non riesco a non pensare che siano privi di anima, nemmeno quando precipito lentamente verso il basso, e tutti diventano scie confuse nella confusione di colori e forme che si mescolano, e vedo una macchia che corre, s’avvicina, incontro.


Ti senti bene?, accorre presto accorgendosi che qualcosa proprio non va. E anche con l’intero visibile che trema, l’impressione di lei che emerge dal tremore dice: tu, in questa città, cosa? E soprattutto come?


Sto sopravvivendo anch’io? Questa routine esiste, o l’ho immaginata e forzata in certe forme? Abito qui? Scrivo, cosa scrivo su questa tastiera? Essendo me stesso, compio le azioni che il me stesso di questa dimensione compirebbe. Ma non è forse una fantasia come quelle che mi impongo d’abortire, paventando la perdita di me stesso in tanti nonmestessi? È un pericolo grave, ferocemente discusso da Platone e Luigi Pirandello e Federico Fellini e John & Yoko e Anno Hideaki nella maestosa biblioteca tra via Scilla e via Cariddi -storico simposio che profetizzò la nascita di quelli come me. Tanti me stessi che si disintegrano e sostituiscono. Come sono giunto qua? sognando, forse. Ho sognato una specie di bar dove venire a leggere, prevalentemente. Schiene brune distanti e piante ornamentali e scaffali di volumi e gatti soprammobili, o gatti che gironzolano. Libri propri o libri offerti, bevande offerte solo in cambio di denaro. Musiche offerte. Musiche proprie. Sono giunto qui sognando o attraverso le orecchie di coniglio elettrico. I loro sensori possono creare mondi, scricchiolando all’interno degli ingranaggi prismatici perfetti.


Lei tenta con un palmo aperto e dita unite di risollevare il peso della mia testa cozzata idiotamente sulla superficie del tavolo, all’improvviso, giocattolo svuotato d’anima. M’avvicina la sciarpa, per avvolgermela così da potermi proteggere una volta ritornato all’aria del mondo -tutto in questa città di questo periodo, ovvero una città tutta autonoma, avviene a causa o per colpa del freddo. Malfattore e dio e trickster insieme, mito gelido di mondo urbano. Mi viene allora avvicinato, per aiutarmi, il pitone delle nevi.


Riprendo colore e calore, un altro tè in arrivo. Offerto non in cambio di denaro. Salute e zuccheri da riacquisire, colorito da versare nella pelle. Ma se mi chiede qualcosa, come stai che è successo ma ci soffri di frequente?, che rispondo? Mi sono accorto che non vivo qui e che se ci vivo non so come faccio e non so che faccio tutti i giorni a parte questo bel momento della routine che sogno, momento di solitudine in un locale sul quale si regge tutto quanto e che è l’unica ragione per cui sono qui. Temo che non capirebbe, certo questo timore avrebbe senso solo nel caso remoto, ma per nulla da escludere, in cui ci siano altre parti e momenti del mondo fuori dal perimetro di questa, ehm, “fantasia”. Recupero colorito e calore. Riesco a trangugiare il tè mentre ripongo libro pc cuffie nello zaino. Ringraziamenti sorrisi pudici battute, stiamo tutti così, la condizione umana è così. Cioè crollare in sincrono al crollo delle illusioni e sbattere idiotamente la capoccia sui tavoli di questo mondo. Immersi in odori d’aeroporto. La condizione umana è uno svenimento. E il cuore che occorre per tollerarla è quello che possiede questa sconosciuta quando ride quando fa una battuta di contenuti universali per insegnarmi ad accettare la stanchezza e la caducità e il vuoto, dice ti sono vicina in quel momento, quel momento in cui cadi. E mi sembra in quell’insignificantissimo istante, nitido con geometrie di cristallo, mi sembra che qualcosa, all’improvviso, viva, e palpiti, disciolto nell’alone che avvolge l’ambiente sospeso tra luci di faretti a terra, al soffitto, negli schermi nelle piante nel vetro nelle pupille nella polvere che fluttua lentamente.


Cenni inudibili di cortese silenzio, contento di salutare. E tornare per strade individuali di malinconia, perfetta, scavata nel ghiaccio della città tra rive di marciapiedi e ombre d’aceri da parco.


Mi allontano e mi vedo nelle pupille di lei che mi allontano e mi viene quasi voglia di chiamarmi, dove vai?, esco dalla fantasia ma torno subito, prometto. Esco dalla mia fantasia per entrare nella sua. Sono lei, sbatto le palpebre in piedi al bancone, un istante dopo una figura transita scura, incorniciata nel vetro di una finestra, sono io che dopo essermi ripreso sono uscito dal locale, mi vedo che torno a vagar nelle viscere del freddo, molto più freddo di prima. E l’altra io, stanca, torna torno alle mie occupazioni, pensando a tutti gli esseri soli, a tutti gli esseri insomma, che qua si sono seduti e hanno bevuto e letto e assunto farmaci. Dimenticare, forzarsi a vivere. Penso che la vita vista in questo modo sia davvero una strada di scura solitudine piena di sospiri misteriosi come amore come arbusti ardenti d’alta montagna. Musica che cambia: è bellissima, i pezzi di Cole Porter cantati di nuovo, ancora, un canto ciclico che commuove. Sono sola e amo vivere qui, ma qualcosa mi spinge forzatamente le lacrime negli occhi. Non sono catartiche, perché non so dove devo andare. Immagino alzarsi in volo qualcosa, uccello o creatura antica o creatura di mente senza forma. Accendo una sigaretta seduta in bagno su un gabinetto chiuso dopo aver disattivato soltanto per due minuti l’allarme anticendio. Fumo in faccia al presente e i suoi secondi, anche in una serata così quieta. Voglio tornare a casa e ascoltare i dischi, assieme all’ombra di qualcuno. Schiena bruna e capellone sotto lana e scricchiolii rachitici di passi poveretto deve avere molto freddo, signor schienacapellipassiscricchiolantimaninelletasche, tramutato in ombra, condannato a vagare la landa dormiente fino a… nella fantasia però si possono ascoltare i dischi, in quella stanza che è una parentesi. Un ordine viene quasi strillato da qualche parte, là nel mondo, e non c’è altro da fare che correre da lui, gettare la sigaretta, prepararsi a far muovere muscoli facciali, per comunicare. Presto la notte, una notte di scure lastre ghiacciate, tintinnerà sul mondo e calerà anche sul locale, fin sotto al seno protettivo dei palazzi senza suono. E s’accenderanno lampioni e fruscerà il fogliame nelle vie pulite e ordinate e semideserte dove qua e là s’aggirano inoffensive e disperse ombre di cose randagie.


(mentre mi riaddormentavo non so dove mentre perdevo coscienza mentre il visibile diventava oscurità opaca mescolando tutto il tempo. Non so dove fossi non so quando è accaduto, forse ancora al locale negli attimi prima che lei mi raccogliesse la testa. Oppure magari su una panchina, morente di freddo, in una città reale diversa da questa. Mentre venivo riempito dall’oscurità e al suo interno sparivo, perdendo la percezione tipo immersione in un mare glaciale. Mentre ero così e tutto il sogno veniva risucchiato in un sonno senza forme sfilavano per l’ultima volta delle immagini, per l’ultima volta la metropoli, grande e pulita e sconosciuta in cui da solo avrei voluto vivere studiare rifugiarmi e sparire, aveva delle leggende. Voci soffiavano, vento e stridii e fogliame vorticante. Vedo aceri di un parco vedo ringhiere vedo chioschi nei pressi di fermate della metro vedo tram e fili sospesi che fanno un groviglio in cielo; vedo che la metropoli è un enorme cratere circondato da alte conifere foreste campi coltivati balle di fieno fienili e cieli stellati; vedo statue equestri vedo colonne e scalini e motivi ondulati sotto balconi del centro e in edifici pubblici vedo elefanti e nomi d’elefanti nelle vie e proboscidi nei pressi di un giardino zoologico; vedo giardini con la gente che si mette la faccia nelle mani vedo chiese con la gente che si mette la faccia nelle mani vedo che vado in un giardino e mi siedo e mi metto la faccia nelle mani; vedo una che stacca dal lavoro che introduce una comitiva di fantasmi nella porta del condominio mi invita a salire; vedo che mi inerpico sulle rampe di scale nel buio, vedo che ho sempre in testa delle canzoni, vedo il suo appartamento poco arredato, i fantasmi sconosciuti anche a lei che prendono posto e s’agitano. Vedo una Gibson SG sverniciata accasciata a un angolo, scritte su pareti più arredate del pavimento, vedo che inserisce un vinile sotto una puntina. E mi addormento su una sedia solitaria tra sgualciti pouf sparpagliati. Il sonno qua è una morte indolore mentre riconosco le note del disco, ottimi gusti, il sonno è popolato da presenze sconclusionate, i sapienti della biblioteca e Dante coi morti di violenza e Billy Corgan coi pachidermi e un lago di sangue e un lago di notte in cui mi rannicchio e mi metto in bocca i pollici e divento un cerchio.)


È un po’ cambiata. Senza divisa verdescuro del locale. Chissà dove lavora veramente, in quale caffè senza musica e senza gatti. Minigonna di jeans strappata, gambe scheletriche, verdeacqua legati in coda di cavallo sfibrati molto più scoloriti. Maglietta impregnata di tabacco, tessuto nero rischiarato dalla stampa di una candela, dice che è una Nazione di Sogniaocchiaperti. Sogni di musica mi hanno portato prima là, ora qua.


Lei soffia fuori il fumo. A me gira la testa.


Questa è una casa che esiste lei la abita la rende possibile. Io non abito da nessuna parte. Me stesso non ha casa non ha forma. Mi riprende il dolore alle mani di prima. Era reale.


.

-perché ti sei sentito male?


-perché ho capito che non ero veramente qui, che non sono uno di questa città, non sono uno studente che riesce a sopravvivere.


-qui? Questa città?


-no, non questa. Quell’altra dov’eri al locale. E io abitavo, camminavo, venivo al locale, spesso.


-cosa pensavi che fosse l’indipendenza?


-pensavo che fosse un locale con luci soffuse, pieno di libri e dischi e vegetazione e gatti e dipinti. E uno schienale solitario solo per me, e un angolo appartato in cui scrivere, bevendo tè caldo. E io che mi reggo in piedi da solo, così, solo per rifugiarmi nel locale, senza dover mangiare senza dover risarcire qualcuno per il fatto che esisto. Pensavo che l’indipendenza fosse una grande e pulita metropoli in un cratere circondato da conifere, una città capace di nascondere le sue immondizie, perché è una città di studenti e libri e cinema e musei e tutti gli album del mondo e tanti silenzi e pochi pregiudizi e idee che respirano e per questo stanno bene e non hanno bisogno d’essere espresse. E simboli e miti da trovare in giro, nelle statue nelle piazze, nei parchi nei mormorii, nella metro sotto nell’aereo sopra.


-e invece?


-invece io non sono qua, non c’è questa città. Se c’è, sono fuori dalle sue mura.


-come fa uno studente a essere indipendente? Con cosa paga?


-con l’eredità. Con il perdono degli altri. È un piccolo Wittgenstein è un Piccolo Saussure che nelle biblioteche colonnate s’innamora della mente e rimane a vivere solo nella mente, producendo incanti che mandano avanti un mondo d’incanti. Ma non funziona, non fuori da quella città. Nessuno studente è un piccolo Ludwig piccolo Ferdinand. Nessuno studente è indipendente.


-cos’è l’indipendenza?


-non sono indipendente. Sono uno studente che teme il mondo.


-e gli altri, cosa credi che siano?


-gli altri??


Intende anche lei. Dimagritissima, ogni secondo di più, non si siede mai, sebbene sia casa sua, ne infilza l’umido pavimento di legno rovinato con le scarpe, è in piedi, sempre in piedi come quando lavorava al caffè. La tela sulla parete, cosparsa di scritte e inchiostri e fauves d’arte punk e loghi di band e slogan e icone, si flette e si ritrae in accordo a impercettibili spiragli di brezza mimando una respirazione, tra chiodi che la fissano facendone un tendaggio. Una protezione. Deve essere bello e sicuro dormire su un giaciglio tipo futon con questa grande bandiera che avvolge dietro il cuscino, che veglia. E tendendosi assume una forma, circolare quasi, attira gli occhi, gli sguardi, come un volto. Lei, pur avendocela sempre in casa, non smette d’osservarla. Ma non c’è ossessione negli occhi. Come non c’era noia nei suoi occhi al lavoro. Come non c’è nessun tipo di eccesso nei suoi occhi. Con un indice tira fuori una ciocca mezza verdeacqua mezza paglierina che ormai stava già sfuggendo all’ordine imposto dall’elastico nero. La lascia penzolare ondulata, continua a rivolgersi alla parete. La forma è guardata anche dagli altri ospiti della stanza -la gente che era al locale? Circolano e mormorano come visitatori di una mostra, tra loro, animandosi anche a bassa voce. Lei mi interroga, senza curiosità e senza giudizio, tra uno sbuffo di fumo e l’altro. Sulla sedia, col petto accasciato allo schienale, agito ginocchia, mi contorco, mi tormento i capelli e roteo gli occhi per la stanchezza.


(quando mi ha portato qua? Quando mi sono accorto che non c’era la città, che non c’era la mia fantasia. C’è questo appartamento? No. Allora non è assurdo che dentro questo appartamento, che pure non esiste, questa giovane cameriera cerchi di spiegarmi che lo sconforto derivato dal crollo di simili fantasie è vero e va accettato ed è la cosa più reale di tutte? No. Al diavolo!, grido tra me e me mentre mi attorciglio ossessivamente una ciocca all’indice e mi mordo un’unghia.)


-cosa leggevi?


Ha ricordi dell’altro mondo. Ha un collegamento con quell’altra se stessa? Qua le domande le fa lei. Nella mia fantasia stavo leggendo.


-Sanshirō. E poi Kappa di Akutagawa. Riletti per l’ennesima volta.


Consumatore di pagine, e di scene di quiete.


-cosa scrivevi?


Una domanda a cui devo rispondere, mi sono mostrato nell’altro mondo, nell’altra città, a scrivere su un portatile, non posso eludere, mi sono mostrato, non posso fingere di non poter rispondere non posso fingere che non stessi scrivendo perché è colpa mia. Nella voce e nel collo ho muco e imbarazzo.


-scrivevo cose mie, cose…


-che cose tue?


Insiste, ma senza cattiveria. In questo posto le domande vengono poste per capire. E io non mi sono fatto capire.


-mmh.. storie, diciamo. E poi altre cose, tipo, articoli. Studi.


-ah, scrivi.


Ho un groppo in gola freddissimo. Sollevo leggermente le natiche e sento un fruscio appiccicoso di sudore, pantaloni che si staccano, zuppi. Consapevole del sudore che rimarrà per sempre appiccicato sulla sua sedia, anche quando me ne sarò andato. Mi sembra di arrossire, aguzzi globuli sotto la faccia. Un alone caldo stordente da indumenti invernali mi disegna un’aureola tra orecchie e fronte coperti a metà dal berretto.


Studio le leggende. Prendo appunti. Sulle immagini. Spaesato e sigillando dietro le labbra parole sconnesse che potrei solo balbettare sconclusionatamente, guardo in giro per non guardare lei, come quando serve ai tavoli. Un tizio in camicia marrone, uno che era al locale con pc e libri, lunghi capelli unti e barba a chiazze come la mia, parla scoprendo denti odorosi con uno skinhead dai muscoli asimmetrici, con una ricciuta artista, leggono il bandierone appeso elencano nomi di band e movimenti, c’è la storia lassù, la colonna Traiana delle subculture giovanili il libro illustrato del dna contemporaneo. Non c’è il mio zaino però, non è buttato da qualche parte sul pavimento, tra tegole polvere ragnetti e lenzuola abbandonate e fanzine stracciate. Il mio zaino con dentro il pc e i miei pensieri. Riesco a sentirmi nudo e insieme a morire di caldo per il berretto e insieme a morire di freddo perché l’inverno qua è duro e nelle case i riscaldamenti non funzionano.


Un venticello leggero smuove il bandierone, gravido di sentori di polvere e muffe umide, spira dall’androne del pianerottolo in cui l’ascensore sferragliante tra maglie di rete ha ceduto il posto a una voragine nerobluastra affacciata sugli abissi nascosti del condominio, da un’eternità. Refoli stantii si sollevano da quel buio pullulante di tubi e ingranaggi.


Scrivo di miti e immagini, vivendo in un mondo urbano. Per sopravviverci.


-che città era, quella del tuo sogno d’indipendenza?


-una città in cui una bella e immutabile immagine di me incontrava una bella e immutabile immagine di te. In un locale di scorte infinite, in un aroma d’aeroporto senza tossine.


-perché sono così importanti le immagini?


Taccio.


-non hai una casa? Dei giorni, dei posti che vedi, gente vicina, gatti vicini, cose da fare… stati d’animo che attraversi. Perché girarsi dall’altra parte?


E tu invece?, vorrei chiederle. Circondata di musica. Uguale a me. Consumatrice di scene, evocate dalle note.


-io sono come te. Però sopravvivo.-, dice, senza però farmi sospettare che mi legga nel pensiero. Legge l’atmosfera.


Mentre nella stanza gli ospiti ancora mormorano e il disco ancora gira facendo ondeggiare nell’aria umida note colanti simili a denso caffelatte, s’insinua nel vetro della finestra un rintocco di campane. Chiesa nei paraggi, una città reale.


Il calore alla faccia spinge un’acquerugiola nel retro dei miei occhi. Nella superficie vitrea di una lacrima dentro il mio teschio, non ancora venuta al mondo, vedo riflettersi le ringhiere e le statue. Angioletti, contorte ossa futuriste, Geomag d’arte avanguardistica, elefanti, capitelli, onde, pesci, alberi, spade.


-cerchi immagini-, risponde al posto mio, -perché sono il motivo per cui quelli come te amano la solitudine. Perché se non sai dove andare puoi solo infilarti la testa nel torace cavo.

Perché solo le cose che non esistono non hanno un peso e non pagano un riscatto. Sospiro. Sembra che mentre mi massaggio una mano appoggiata al ginocchio che agito, il rintocco della campana venga risucchiato da dove è venuto, chissà dove, un punto invisibile nella distanza invisibile, dietro il vetro dietro la mia schiena. E le note scivolanti dal disco mi sfiorino la pelle,

but then again, you’re not to blame, you’re just a human, a victim of the insane

e commento per cambiare discorso, è un bell’album, erano parole profetiche, erano studenti innamorati della mente. Per amare davvero bisogna amare anche il mondo dice lei. Tu lo ami? Lei scrive poesie, diventano i testi delle canzoni della band, mi dice. Anche se lavori? Soprattutto perché lavoro. Punk acustico, Viaggio di Eric, nasce da tutta l’esperienza, tutto quello che lei è. Sospiro e mi stanco e ho un’emicrania diffusa su tutte le cellule del corpo. Perché non riesco a immaginare di raccogliere nelle meningi la forza necessaria a tollerare tutto quanto, e poter comunque creare parole di bellezza dopo essersi consumati nello sforzo di tolleranza. Ma lei, pur essendo come me, saprebbe spiegarmi dove guardare la bellezza in tutti i posti che esistono, senza doversi sforzare di tollerare alcunché, dovendo soltanto respirare e guardare?


In silenzio ascoltiamo l’album che finisce, sparisce, ascoltiamo la sua morte lenta. E il suo silenzio, e gli strappi simili a ronzii interrotti che rimangono a galleggiare nel vuoto, punti di sospensione dopo la fine.


Esco in strada. Mattina, meno fredda della sera che ho immaginato. Le pareti giallastre di questa via assorbono vibrazioni d’assestamento dei rintocchi estinti, spariti nel nulla, nei secondi che corrono avanti. Il sole cade in stalattiti di ghiaccio giallo che pian piano si riscalda, e comincio a camminare, allontanandomi dal portone, dove abitano lei e gli studenti indipendenti. Mi ha dato un mangianastri e delle cassette amatoriali, tecnologia obsoleta riesumata con precisi scopi estetici. Mi ha chiesto se voglio “dare una mano”. Ma se devo farlo, seriamente. Scrivere seriamente, suonare seriamente, disegnare seriamente. Ho detto sì, come dovessi dimostrarle qualcosa. Ma cosa? Che non mi servono più le immagini? Ho già le cuffie alle orecchie, già le orecchie di coniglio elettrico e il pitone delle nevi al collo, perché farà freddo e io lo so. Già mi fanno male le mani al pensiero che dovranno sforzarsi, maneggiare strumentazioni, creare qualcosa con un peso e una forma. Affrettandomi ascolto i passi nella quiete mattutina prossima a infrangersi, in cerca di un parco e una panchina dove possa rifugiarmi e lasciare che s’estingua un reflusso amaro che ha preso a salirmi dal profondo.

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