a che pensi
- Milky
- 4 mar 2022
- Tempo di lettura: 14 min
-a che pensi?
-se te lo dico non ci credi.
Ovviamente, non ebbi davvero la prontezza di rispondere in questo modo. E già che mi trovo a giocare con i blocchi degli eventi accaduti, scambiandoli di posto in un solipsistico meccano mentre là fuori il presente procede indisturbato verso lo sfacelo, aggiungo che avrei potuto aggiungere anche: fidati, non vuoi proprio saperlo. Non vorresti cominciare a ficcarti in una simile fossa sibilante senza un equipaggiamento, senza una cassetta piena di strumenti e sostanze curative, di fragranza rinfrescante.
Subentra una seconda precisazione, per ridurre un anacronistico senso di ridicolo adolescenziale normalmente scaturito dall’ultimo avvertimento. Non ti vorresti ficcare in quella fossa non perché possa farti paura, quella è inevitabile, la accettiamo tutti no? Perlomeno è questo il gioco a cui -a quanto pare- stiamo tutti giocando svegliandoci la mattina, questa famosa accettazione. No, non ti ci vorresti ficcare perché ti si sporcano le scarpe, i vestiti, le punte dei capelli come rovinate dal vento, ed è un vento piuttosto squallido, sporco, polveroso di una polvere strana. La vedi, la senti sui polpastrelli, pensi “ma va che strana questa roba, non l’ho mai vista al paese mio!”, e sai che ti dico, hai proprio ragione. Meglio non ficcarsi in un buco del genere, no? Nessuno avrebbe voglia di doversi fare la doccia dopo soltanto per questo, e il tutto per aver fatto una domanda alquanto sconsiderata rispetto ai pericoli e rischi reali che poteva celare. Chiunque sarebbe d’accordo, l’ho deciso io, l’ho deciso per il bene tuo e di tutti, capite?? Non importa quella cosa che dite sempre, “dai modo agli altri di decidere se vogliono conoscerti” (devo fermarmi un attimo, ho una cosa qua, perché, sai com’è no, scusate comunque) “sembri accondiscendente e tollerante ma in realtà sei dispotico, sadico, rifiuti l’aiuto e l’avvicinamento e te ne stai a guardare l’effetto che fa questo tuo rifiuto”, insomma tutte queste cose qua. Non importa: è davvero per il vostro bene.
Comunque sia, quello che risposi veramente fu “a niente”, colto alla sprovvista, voce di tosse bronchitica che dà idea d’esser frutto di un irragionevole sforzo della gola. Uno sforzo che conduce al nulla, che non dice niente. Il tremito della faccia mi permette di far passare anche attraverso la mascherina l’informazione riguardo le labbra: incurvate in giù per stemperare, accattivare simpatia del tipo “eh del resto stiamo tutti così in questa vita che irrimediabilmente sprofonda tutti allo stesso modo nella grande livella del flegma” -e a camuffare, in generale, nascondere, distrarre. E che altro… altra prossemica di piccoli umani dettagli umanizzanti, che non voglio elencare. Ma fa un passo successivo, risponde con voce tra il concordante e lo schernente, “io non penso a niente”, come se imitasse o citasse, il me stesso o quella figura astratta fluttuante che ho appena evocato dando una stupida risposta colta alla sprovvista. Sorride, facendolo, dietro la mascherina, e con le guance sollevate a sfiorare morbidamente le vispe palpebre inferiori. Nella soffusa gentilezza corpuscolare del suo tono di voce, impegnato -senza particolare sforzo, in realtà: cortesia naturale- a mostrarsi divertito e aperto e comprensivo, si rintracciano particelle particolari, molto indicative delle capacità dell’occhio e della psiche, del loro tunnel cosmico fibrillante tra i canali oscuri della fronte: sa cogliere, sa percepire il nascondimento, il “rifiuto”, il muro nella prima risposta istintiva che ho dato. Mi spiace se il mio istinto è offensivo. Deve esser stato come veder comparire all’improvviso un muro dalla terra, spuntato fuori da una crepa che si stava già lì scavando, in una perenne predisposizione alla chiusura, forgiata in gran segreto sfruttando ogni istante. Gli istanti così gelosamente custoditi in isolamento diventano mattoni, e a gran velocità ritornano tutti, uniti e inamovibili nello spirito di sacrificio per la causa della barriera. Comunque, sì, mi spiace se è offensivo, ma in realtà mi spiacerebbe ancor più il fraintendimento. Mi spiacerebbe ancor più se la citazione, ripetuta a benevolo sfottò, fosse considerata la verità. Oh, rettifico, con “non penso a niente”, intendevo in questo preciso momento, in cui me lo hai chiesto, mica in tutti gli altri in cui ti assicuro che è assolutamente il contrario di quello che ho detto, perché chiedere è la condizione unica e sufficiente a far sì che si ottenga questa risposta del tutto insolita -basta non chiedere, se vuoi sapere la verità. Oppure, anzi, sì meglio così, rettifico dicendo che con “non penso a niente” intendevo che invece sto pensando esattamente a tutto, in questo momento e in quello prima e in quelli che verranno dopo, senza interruzione, e che se smetto un solo secondo si sgretolano le fondamenta dei monti, gridano i mari. Che gran casino, da una sola domanda, non è vero? Potresti chiedermi, allora -non lo hai chiesto- scusa, ma non sarebbe più facile dire direttamente quello che intendi?
Risposta: no. Cazzo, è ovvio. Non credo che nessuno abbia tutto questo tempo. E poi, la fatica farebbe perdere tutti a metà strada, una strada già confusa. La lingua e i denti, stufi di suonarsi a vicenda in quel bavoso strascicante xilofono di gengive e limitatezza, finirebbero per non credere più nemmeno alle proprie note musicali. E allora tutta la composizione, musicata fino a quel momento, perderebbe di senso globale, dal suo principio alla sua fine.
Quello che intendo non va bene in nessun reame. Facciamo prima così, fidati.
…
-a che pensi?
-se te lo dico non ci credi.
-tu dimmelo lo stesso.
-cercavo di visualizzare l’ostilità, in un angolo stretto simile a tubi.
-tubi?
-cioè, non proprio… immagina di entrare in un colle, con tutto il corpo. Come ad attraversarlo, in un momento di strana pioggia in cui per un effetto misterioso il suo suolo diventa una sostanza permeabile, ma che non lascia alcuna traccia di terriccio o fango su chi penetra al suo interno. Entrandoci, dimenticheresti la pioggia fuori, non ci sarebbe altro che l’interno scuro del colle, questa enorme cellula. Il picchiettare esterno rimane appena percettibile soltanto all’estremo limite della sua parete membranosa, da cui hai fatto il tuo ingresso, forse per raggiungere un richiamo. Lì dentro, avanzando, ti troveresti certamente, di fianco, delle conformazioni prive di spigoli, come dei rotoli di ciccia del colle o i suoi organi interni. Ma non hanno una texture dentro. Sono… “fatti di cosi”, come posso spiegare. Non si capisce niente, vero?
-non importa, continua.
-allora dicevo, comunque vabbè, non ha importanza, tieni presente che è tutto buio e si vede poco, riconosci appena delle solidità. Sono piccole collinette oblunghe di buio che si stringono attorno alla figura, mettiamola così.
-quindi c’è una figura lì dentro?
-l’ostilità, sì.
-ma da cosa la senti, tutta questa ostilità?
-è l’ostilità che sento provenire dal soffitto, dagli angoli, dalle persone, le loro ombre e voci, dal recarmi in un luogo, e perché no, anche dai miei tanto decantati animali.
-conosco questa tattica. Elencare una serie di cose, con finta nonchalance annoverare nel loro gruppo quella che costituisce il nucleo dolente, fare in modo che si camuffi e non sembri affatto un nucleo. Così da far apparire tutto dello stesso peso, tutto omogeneo, unificato. Semplificato e quindi celato, per gli altri, che non devono vedere. Afferro bene?
-beh, no, nel senso… e va bene. Hai detto impeccabilmente proprio il modo in cui stanno le cose. Ma non è che lo conoscevi già, il modo in cui stanno le cose? Tipo che è amico di tuo zio.
-ma perché nascondersi tanto? Di cos’è che hai paura?
-non è di questo che si stava parlando, mi sembra… e tu potresti dire, a questo punto, oh, un altro tentativo di distogliere, nascondere, celare. Erigere il muro e tutto il resto, nuova offesa, grazie tante. Ma sbaglio o avevi chiesto un’altra cosa, al principio? Mica è colpa mia.
-no, hai ragione, finisci prima di dire. Vuoi parlare di questa ostilità?
-non ne voglio parlare…
-…però sono io che ho chiesto.
-sì, tu hai chiesto.
Annuisce, occhi chiusi. Devo essere corrosivo per le sinapsi e le pazienze altrui, anche quando me le sto soltanto immaginando. Il fatto che tali casini scaturiscano dalle mie fantasie anche quando non stanno ripercorrendo sottoforma di metafora o cronaca un vero momento del tempo passato, significa che non è tanto la solita scusa, quella che fa “non ci posso fare niente: se mi trovo impreparato a un’eventualità finisco inevitabilmente per fare casini”. È proprio che certi casini ce li ho scritti dentro. Le loro manifestazioni procedono naturalmente da me, come gocce di dna. Non so quanto ci si possa fingere irresponsabili in circostanze del genere. Sono una strategia di sopravvivenza trasportata nei globuli, possiedono, codificato, un tempo in cui c’è stata la scelta. In quel momento io, fluttuando nella tenebra caotica e incomprensibile delle potenzialità infinite, devo aver deciso, per dominare la tenebra e trovare un orientamento tra i suoi antri oscuri: dovunque andrò avrò la certezza e il dovere di complicare le cose con tutti quanti mi incrociano oltre un certo limite, di cui dovrebbero essere avvisati. Più semplice così, fidatevi. Talmente semplice che, passato il momento della decisione, trascende la volizione.
Vedo un primo taglio, un segno della ferita che traccio. Non importa se è piccola. Vorrei mostrare che non è del tutto mia intenzione, che è tutto per proteggermi, insomma, chiunque farebbe così se capisse, se sapesse, no??? Impacciatamente sputacchio, con troppo zelo e fretta rispetto a prima, un’aggiunta alla mia descrizione. Chissà se basterà a ridimensionare l’idea che deve aver avuto, no, no, non preoccuparti, è vero che per me è difficile ma non è nemmeno una tortura, ecco guarda, ti dico spontaneamente un dettaglio, così ti tranquillizzi e non senti dispiacere.
-……allora, ecco, allora dicevo, questa ostilità oggi la vedo come una creatura bianca e verde.
Espressione appena sgomenta, poi, come dire, perplessa. Non incuriosita, perplessa. Ma non c’è traccia di ripugnanza in questa perplessità. Attende un seguito non perché possa essere interessante, ma perché è corretto, è educazione. Ci sono persone capaci di molti comportamenti sorprendenti in questo mondo.
-quindi è una creatura?-, chiede.
-se ha una forma, all’interno di un mondo chiuso, ho idea di riuscire a dominare la sua influenza. O capirla meglio, e capire meglio la natura del buio in cui se ne sta stretta. Tutta roba mia, quindi, capire me stesso, facile.
-ma tu non vuoi dominarla in realtà. Giusto? Vuoi continuare a sentirla. Ti giustifica, paradossalmente ti protegge. Se continui a sentire l’ostilità provenire da… diciamo pure dai “posti”, come dici tu, allora sei giustificato nel rintanarti, trascinarti la tana dovunque vai, sempre con te. Giustificato anche nel far male agli altri, sbattendo dure lastre di pietra in faccia, fatte di mattoni che bloccano l’aria. Si erigono con movimenti bruschi, così repentini da spaventare.
-sì, hai ragione, ma l’esercizio di visione, mi dà comunque idea che tutto questo, tutto ciò che vivo tra me e me, non sia tutto tempo perso… è roba importante, anche tu lo sai… e poi, forse, grazie a tutto questo, un giorno, prima o poi, acquisirò la facoltà di voler davvero cambiare. E tutto questo mi darà la forza di compiere lo sforzo, perché so cosa significa il dolore, so associare un’immagine a ciò che fa paura. È una forma di fiducia nel tempo, nonostante sia un pessimista.
-tutto vero. Ma ti allontana anche dalla paura che fa agli altri, ti distacca. Fortificato, rimani sempre dietro la stessa faccia, non curandoti dell’altro lato. Rimani cieco, forse volontariamente, riguardo alla paura che il tuo comportamento può fare.
-ma insomma, di cosa potreste mai aver paura, voi altri? Di esser risultati sgraditi, offensivi? E sarebbe una paura, con un tipo come me??
-forse c’è anche questo. O forse, devi capire che a volte gli altri hanno semplicemente paura di cosa tu possa esser capace di fare, chiuso là dentro, invisibile.
Questa risposta mi sconvolge, letteralmente, e rovescia una bacinella di ghiaccio alieno nello stomaco. Anche se a dirla è una parte di me stesso che si appropria di un costume di ossa carne e vestiti e tono di voce, derubandoli a un’esistenza che ha avuto l’avventatezza di pormi una domanda difficile, in una giornata scomparsa, con i suoi incidenti rimasti senza rimedio, nel caos torrenziale dell’irreversibilità.
-…di cosa io possa fare là dentro?
-hai un corpo. Hai una presenza. Checché tu ne dica in proposito o per quanto tu cerchi di cancellarla. Se crei, deliberatamente, le condizioni della sua assenza, ci sono delle conseguenze. Delle preoccupazioni. Perché cancellare una frase che si stava scrivendo, una risposta che si stava dando, è un messaggio tanto quanto lo è la conclusione dell’enunciato.
Penetrante, come sempre. E con sempre intendo gli ultimi cinque minuti. Mi guarda. Nel colore autunnale degli occhi luccicano diverse rugiade: pazienza per la stanchezza, una certa qual delusione, un’ulteriore pazienza anche nei confronti di quest’ultima. E se luccica del pentimento, è solo il riflesso del mio, lo so. Ma riflettendosi diventa così vero, così intrappolante… e finisce che sono convinto di essere l’artefice del consumo di una vita, di una salute psicofisica che non avrebbe conosciuto lo stesso affanno senza l’incidente dell’incontro con me. Quando è così, come fate a dire che è colpa mia…
-dai, descrivimi questa creatura, e poi ti lascio in pace.
“ti lascio in pace”, ha detto. Non posso che abbassare le orecchie. Potrei dire, “ma no, nessun disturbo, che stai dicendo”, usare queste formule magiche contro le sfortune della comunicazione -chissà nei secoli quanti raccolti hanno devastato e quanti bimbi sono nati morti. Ma non mi viene nulla. Esce un demente barrito afono dalla trachea, come a sbuffar via dalla gola uno stupidissimo grumo di nulla che ci si era incastrato, che lascia una scia di ridicolo fischio nello spegnersi.
-…la creatura, oggi, l’ostilità, è bianca e verde…- continuo, amareggiato -non proprio verde, un verde fosforescente. Tipo quello degli evidenziatori. Le parti verdi sono come delle specie di macchie oleose su alcune giunture. È in qualche modo antropoide, ma avanza quadrupede. Sulle nocche, forse, se le avesse. Arti lunghi, corpo un po’ tozzo, ma decisamente muscoloso. Non ha collo, ma una grossa testa, o sarebbe meglio dire “strana conformazione craniale”. Nella testa (si fa prima così), bianca con consistenza a metà tra la carnosità fisarmonicante di larva e il dorso graffiato di una megattera, sta incastonata qualche pupilla completamente nera, da vespa. Con un fulgore bianco a forma di goccia al centro, freddo, hai presente. Rende minacciosi gli esseri di sguardo imprevedibile. Che imprevedibilmente celano un pungiglione, e il pungiglione cela imprevedibilmente un liquido gravido d’uova parassitiche che si insinuano sotto la pelle di corpi ospiti. Hai presente.
Annuisce, la stessa espressione di prima. È una descrizione che annoia, che infastidisce, che mette in allarme, che fa sentire soli in compagnia di qualcuno che è già da solo, e parla a se stesso, non all’altro, preferisce chiudersi in una stanza in compagnia delle sue visioni. Oppure tutte queste cose le immagino? L’espressione non mi lascia capire. Io ci provo, ma anche voi… no, niente, scherzavo, non dicevo sul serio, ovviamente, avete ragione.
-poi?
Chiede forse per la solita cortesia, è questa l’unica possibilità.
-poi, come dicevo, queste macchie d’evidenziatore. Come una patina oleosa, per esempio sulle “spalle”. Comunque, il corpo è pieno di protuberanze, ma non sono separate dal tutto. Sembrano semmai contusioni, così ingrossate da far credere che anche le ossa al di sotto si siano gonfiate, in un processo tumorale. E di questo si ha conferma quando, da tutti questi globi sparsi per il corpo, cominciano ad aprirsi delle bocche secondarie. Non è più possibile dire che ci fosse una testa con una bocca primaria, perché tutte queste potrebbero essere delle teste. Nessuna gerarchia, solo quella imposta dal suo intero essere agli altri esseri che lo incontrano, e non tra le sue parti. È solo un busto dotato di teste, con due braccia e due gambe, e anche su queste c’è qualche testa. Le categorie umane risultano inopportune. Dell’essere umano ha preso solo la sagoma. Poi l’ha riempita di tutto ciò che, in una vita trascorsa nell’onnipresenza di tali sagome, comprendiamo essere illogico all’interno di quella stessa forma. Non c’è carne di gamba dentro i contorni della gamba, non ci sono occhi naso bocca nei contorni del volto, insomma. Dalle fauci spalancate un po’ ovunque su quel corpo, si leva un rantolo lieve, che echeggia nel buio circostante, sul grasso di collina che costituisce il corridoio. Lo fa tremare.
-mh.
Mi ha fatto molto parlare. E ha detto: “mh”. Forse la sua risposta intende farmi sperimentare in maniera concreta e senza occasioni di fuga la sensazione che si ha avendo a che fare con me. In effetti “mh” è una delle mie risposte, nonché parole, preferite in assoluto. Sento che non si tratta di vendetta, ripicca, sdegno -sentimenti di umani meno totalizzanti di quello che credo. Possono annidarsi in tanti piccoli gesti, idiosincrasie, modi di ripulirsi dagli starnuti, camminate, tic nervosi, probabilmente sempre negli sguardi, sia evitati che cercati. Ma compromettono davvero tutto il resto, a tal punto? Se per rispondere ha usato il mio “mh” di innumerevoli altre interazioni, anche quello è in qualche modo un aiuto che mi porge, che non merito, e non capisco, e ancor più non merito perché non capisco. Mi sforzo di capire soltanto una porzione molto limitata di cose, con eccessivo ed esclusivo lavorio, prosciuga gli sforzi diretti altrove.
Deluso da qualcosa, finisco.
-niente, questa è l’ostilità. Una proiezione che dell’essere umano ha preso in prestito solo i contorni, il punto di partenza. Per comodità. Ma il suo contenuto è quello che è. Che ho appena detto. E i denti in quelle bocche fanno paura, sembrano roccia calcarea fradicia, invischiata di plasma filamentoso fermentato in profonde cavità del sottosuolo. Da non credere, roba così dentro delle bocche. E gli occhi, sopra, che si moltiplicano quasi facendo pensare non siano veri occhi ma imperfezioni della pelle, non trasmettono il contenuto della loro sinistra luce. Ci sarà un contenuto in fondo, proverà certe sue emozioni aliene? Una creatura così, se la guardo, la ammaestro, almeno per oggi. Ne ammaestro i sibili, i ruggiti. Si contorce stretta tra quei rotoli di grasso di collina, quel buio solido, strattona a volte con spaventosa violenza, ma chissà perché, se ne rimane comunque “buona buona” là. Senza uscire dai confini o fare mosse troppo centrifughe rispetto a certi limiti impliciti.
-e perché il colore degli evidenziatori?
-perché li odio.
Ridacchia, chiudendo gli occhi spontaneamente. Una domanda che forse ha fatto apposta per concludere con “leggerezza”. Introduzione di un dettaglio sensorio e personale, non complicato. Dandomi l’opportunità di farmi perdonare per tutto ciò che era preceduto, tutto ciò che era oscuro ed eccessivamente contorto. Faticoso per i malcapitati.
-allora rimaniamo così- mi dice, -la prossima volta ti chiedo una cosa meno complicata, così non ti metto in difficoltà. Ok?
-ah, sì…-, balbetto assente e mi guardo intorno, destra sinistra, ci stiamo salutando e devo attraversare la strada che non sto guardando davvero, non farci caso.
-allora siamo d’accordo. Perché, dai, anche io, cosa mi aspettavo: “a cosa pensi”, è una domanda fin troppo personale, no?
Sorride, mi viene incontro, mi ridicolizza, mi umilia, mi analizza, mi perdona, mi viene il mal di testa.
-no, vabbè, è che…
Camminiamo, guardo i miei passi, il marciapiede, l’intollerabile dialettica in cui si trovano sospesi. Si dovrebbe ricondurli all’unità, il marciapiede che ritorna alla mollezza della pasta di cemento nera e piena di sporcizie non ancora cristallizzata, così da poter accogliere i passi che ci sprofondano, spariscono, affondano giù sotto la strada…
E intanto non finisco l’enunciato. Nascondo le mani nelle tasche. I messaggi, come uccelli-foca persi tra le correnti, galleggiano e si sparpagliano disordinatamente sopra le strade cittadine comprese tra i marciapiedi, che intanto si sono solidificati, impedendo lo sprofondo e la sparizione definitiva delle cose schiuse in alcuni momenti dell’esistenza. Fuori dalle uova, dalla nascita, fuori dai gusci e dai muri.
Domani l’ostilità avrà un’altra forma, ma ce l’avrà, senza dubbio.
Siamo rimasti d’accordo che con me certe cose non si dicono e non si fanno. In giro per il mondo ci sono ambasciatori dell’ostilità insolitamente clementi, devo dire: pare quasi che a loro dispiaccia mettermi in crisi. Comunque, non dovrebbero prendere a cuore a tal punto tutto questo. Non è mica un problema, se precipito in una crisi. Era proprio lì che stavo andando, tanto. Ah, giri di qua? No, io vado a Termini. Allora rimaniamo così.
…
Prego che esista una terra, un rifugio presso ogni dimora, in cui cancellare le esasperazioni. Capanna tra i rami di un albero, o dentro un colle cellula, paradiso di un buddha. Magari invece basta una semplice doccia, purificazione rituale che attende nelle case. Come sempre, percorro la solita via del ritorno e vedo accendersi i lumi nelle finestre, resistono incastrati nei ventricoli di contorte strutture. Qualcosa sembra migliorare, solo a quest’ora, prima che anche la luce diventi eccesso, entropia. Prolungherei in eterno quest’ultimo secondo del crepuscolo e terrei le luci sempre accese anche solo per questo, diventa per pochi disperati minuti l’unico motivo sensato per deturpare il mondo con il consumo elettrico. Ma sì, tanto non mi sente nessuno, nemmeno il mio idealismo intollerante. Che tutto si distrugga, se significa che ogni luce significa un corpo stanco dentro una stretta cabina, sotto un flusso d’acqua calda. Che riempiano il mondo di poesia silenziosa dietro ogni vetro. I respiri rimbalzano contro le pareti dei rifugi e ritornano ai mittenti, carezzandoli, dentro le nebbie di vapore acqueo bollente. Cammino fuori sul marciapiede, dimenticando il luogo della domanda e tutto il mal di testa seguente, e sento trascorrere quei fiati nascosti assieme alle pareti che mi lascio dietro nel cammino. Mi porto dentro simili respiri tra simili pareti.
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