・=me?
- Milky
- 3 ott 2022
- Tempo di lettura: 12 min
・Si svegliò secernendo dagli occhi una poltiglia giallastra che si sgretolava in piccolissime biglie umide, si infilavano sotto le unghie. Si svegliò da un sogno in cui immagini di un ricordo erano diventate aria, colore, tutto; ma non era certo che fosse un ricordo vero. Una lunga barca di legno, col muso che sembrava quasi dormire fendendo la nebbia cosparsa sul sistema fluviale, in mezzo alle alte spighe. Approdarono sul verde scuro del crepuscolo eterno quando per primi tutti quanti, nucleo di poche decine, cominciarono ad abitare lì.
・Corse su per il pendio lontano dalle cose che era costretto a vedere. Corse per vedere dall’alto, credendo d’allontanarsene.
・Il capogruppo stava seduto sui ceppi, a srotolare con evidente soddisfazione le verminosità del cervello dal cranio del maialetto selvatico. Tutt’intorno la gente, scura, muta, metallica di criniere taglienti, diventava mani. Le mani erano loro, loro erano le mani, e s’avventavano sui bulbi oculari, sulla pelle, sulle sfoglie di grasso luccicante là sotto. Distante 10, 20 metri -non era bravo con le distanze, sapeva solo correrci dentro- se ne stava fermo in piedi a osservare fissamente il capo villaggio, scavando con più convinzione e più sdegno le occhiaie scure e venose sotto le orbite. Il capo tagliò un ghigno di denti piccoli ed eccessivamente numerosi nella pappagorgia, e con lo scintillio cui si aggiungeva quello degli sguscianti bianchi degli occhi gli disse: sono contento che mi guardi in quel modo, e che non puoi fare proprio niente.
・Corse su per il pendio, lontano dalla giornata che si ripeteva al solo scopo di confonderlo. Ai fianchi dei sentieri, sull’erbetta alta -ma più bassa delle alte spighe, le sole cose tanto tanto alte dopo la foresta e il pendio- stavano accasciati i corpi delle piccole antilopi, o caprioli li chiamavano alcuni. Una singola striscia sottile di sangue, rosso scuro, a volte quasi bluastro, adornava i colli gialli arcuati, discendendo verso le spalle esposte. Corse su per il pendio, sapendo l’erba piena di loro.
・Al solo scopo di confonderlo. Se esisteva il tempo, qualcosa di tanto assurdo, perché erano nati con gambe, muscoli, ossa dentro le ginocchia?
・Per lanciarle con violenza contro le cortecce, i sassi. E le cortecce delle altre persone quando vogliono ciò che è tuo, nostro-, disse, in un incubo fresco e rassicurante e materno come ombre di boscaglia fitta, la voce di un capogruppo deformato, trasmutato nel fisico e nella personalità in un fantasma di neri e saggi babbuini, abbeverati a un fiume diverso, di fango saggio inaccessibile ad altre creature. Creature intelligenti, o immensamente brutali?
・Lì, nel sangue delle antilopi, doveva esserci da qualche parte un buco, un foro. Qualcosa che era stato lanciato, iniettato per annientare.
・Con i primi gruppi boschivi degli alberi che gli si avvicinavano, premurosamente stendendogli sul dorso il velo d’ombra della notte giunta in anticipo lassù, rivolgeva le spalle a un incrociarsi a mezzaria di suoni lontani. Ancora una voce rauca. Era vestita kaki, era corpulenta sotto le vesti, era forte, forte, forte. Schiacciava.
・Poi un’altra voce, incantevole. Piena sui fianchi, agile nel fruscio di capelli. Ruvida e morbida. Ma odiava quel suo incanto. Ricordava che una volta, quando dormivano tutti per terra e c’erano poche capanne, lei gli si era strusciata contro, “per scherzo”. Facendogli sentire calore e peli, e tutto sembrava respiro, tutto parte del suo respiro, mentre l’aria dentro le pareti chiuse di fango compatto diventava una sola asfissiante anidride del sonno totale. In cui i suoi occhi soltanto s’aprivano sbarrati, bianchi, sudati d’eccitazione e un terrore unico di quel momento, che non avrebbe ritrovato.
・Un pranzo sotto il sole e le vespe di altri giorni, lei che lo guarda e ride, perché è un ragazzino buffo. Lui finge d’essere offeso e corre frettoloso verso la boscaglia, lei ride, altri ridono, ma sanno che sarà anche una seccatura: qualcuno più tardi dovrà andare dentro i cespugli a far finta di essere preoccupato. Lui fa finta, ma c’è qualcosa di strano. Di vero in quell’odio sinistro. Perché lei ha riso? Perché giocava con le cose strane del corpo?
・La amava e la odiava. La voce volava. Una mosca azzurra descrisse una parabola, nel miraggio traballante d’aria davanti a lui. Si chiese se appiattendo con la mano gigantesca e dorata di un gigante illuminato l’altura, potesse apparire dall’altra parte, in quel pezzo di cielo sempre coperto, il tramonto. E invece stando sempre al riparo vedevano un unico colore nel cielo, un cobalto lacrimoso, nel cielo ostruito. Senza sfumature di fuoco.
・Cobalto lacrimoso. Avrebbe voluto il suo stesso nome. Ma era un cielo di false promesse di pace: sulla terra, le lance facevano schizzare il sangue e facevano un rumore di diamante scalfito su ossa scalfite. C’era una danza, a volte, dei cacciatori, dei viventi. Corse su per il pendio con le gambe ramate, ogni giorno più lunghe, al pegno di dolori femorali acuti e insonni.
・Corse su per il pendio, ragnatele e foglie nei capelli. Un pezzo di boscaglia si avvicinava. Mise il ventre caldo sull’erba fredda. Stando così si voltò, vedeva il mondo che fingeva d’aver abbandonato, la gente piccola. Formiche. Sarebbero potuti entrargli nel naso, quel capogruppo, con le sue leggi e le sue anarchie, e lei, con la voce che aveva avuto quando sotto vespe e afrori di fichi spaccati gli aveva detto che era troppo grande per lui, contraddicendosi, infondendo nel mondo una leggerezza di comportamento e indulgenza autodiretta che gli sembrava catastrofica. Da solo avrebbe strappato il bulbo vivo, innocente, di un fiore rosa e rosso, cresciuto solitario nei capelli d’erba lunga di quel posto segreto, scoperto solo dai ronzii e da lui che fuggiva dovunque ci fosse un sotto, un’ombra buia ma non troppo.
・Una volta -ma non sapeva se fosse un ricordo o un sogno- si era trovato in un boschetto scuro, dove felci e ventagli di foglie flabellate crescevano più alte degli arbusti. E si era trovato circondato da un branco di buddha selvatici, le ossa possenti a tirare sotto la pelle, gli occhi per metà dormienti in un’osservazione di lui lì, in piedi, nudo, capelli di stoppa nera ricadenti sulle spalle. Buddha: della famiglia delle scimmie, genere “oro”. Erano usciti dalla vegetazione. Lo osservavano a lungo, in silenzio.
…
・Quasi sulla cima. Ventre sull’erba, gli steli fradici, i bruchi freddi, brulicavano su una sottilissima membrana che palpitando separava tutto il gelo del suolo rorido dalle vene, calde, raffreddate. I suoi occhi erano come strumenti per osservare dalla distanza, in quei momenti. Grido dei falchi lontani nel cielo che voleva avere per nome. Vide lui e lei, a rotolare nel campo infossato, quello che in certi momenti dell’anno si riempiva d’acquitrini. Non avevano paura di bagnarsi o insudiciarsi, no, avevano sprezzo di tutto.
・Ah, e queste sono gran piume di fagiano, a indicare che è vicino a noi!-, gorgogliò ad alto volume la gola di quello nell’orecchio di lei, mentre si rotolavano, giocavano. Era la prima volta che vedeva anche lei fare così. Dopo altre, prede. Un vestito celeste chiaro, di quelli che non si vedevano mai da quando erano scappati in quel villaggio verde laggiù, nascondeva il bel suo esoscheletro di pelle leggermente ruvida, pori bruni e miele. Un regalo vanitoso. Disse a se stesso che quello là l’aveva rovinata.
・Eppure non poteva non stimarlo segretamente, una parte schifosa di sé, un fegato anormale come luna di marciume nero sgusciata fuori dai crateri della luna di latte cosmico, a costituire un’ombra e uno specchio. Stimarlo quando l’aveva visto, giovane, appena pochi anni prima, prima che invecchiasse di colpo. E lui era sempre un ragazzo che non stava imparando altro che la corsa.
・Una volta gli avevano dato un compito: arrivare fino al fiume dove un giavellotto era stato perso. Era molto lontano, addirittura sparivano le canne. Il terreno salendo diventava tumori di rocce scivolose. Solo lui correndo poteva arrivare laggiù e tornare in tempo, prima della notte. Era piccolo, era meno che un ragazzo. Trovò il giavellotto infilzato nel pelame grigio e nero di un mammifero di medie dimensioni, forse un tasso, così appeso agonizzante al ramo di un albero morto e spoglio, le radici abbarbicate a una sporgenza. Era meno che un ragazzo e ancora non aveva la testa invasa di vermi impalpabili, di fuoco e acido, quando vedeva cose del genere. Quindi si era limitato a estrarre, impassibilmente, il giavellotto dal legno trapassato, dalla carne divelta, e vide il corpo afflosciarsi e rimanere sospeso, col ventre accasciato sul ramo e un buco rosa che sempre più flebilmente respirava dal dorso, sputando a intermittenza brandelli. Poi si voltò e tornò verso il villaggio pensando d’aver visto qualcosa di particolare.
・Nella disperazione, nelle direzioni contraddittorie delle estremità del suo corpo le cui pulsazioni e dolorose crescite si redistribuivano ogni giorno, non capiva se amasse o se odiasse il formicolio, e quello strato di terra sabbiosa e capelli e forfora che infilandoglisi sotto le unghie gli ricordava di quando, piccolissimo, giocava nei campi, si cospargeva del loro odore e credeva d’essere felice.
・Strisciarono insieme. Lui li osservava. Osservami, osservami pure, avrebbe detto il capogruppo. Sarebbe stato contento di essere osservato con odio mentre assieme a lei arrancava, e ridevano sottovoce un attimo prima di colpire con una pietra il fagiano che becchettava su un rialzo di terra, tra spighe e un blocco di torba.
・Non avrebbe ricordato in seguito se avesse distolto gli occhi o se la scena del variopinto collo, vivo un istante e spezzato in un altro, fosse stata inventata dai suoi incubi autoindotti.
・Facevano schifo. Lunghi distesi sull’incantevole campo di fili verdi e blu che diventava torbiera.
・Quei tristissimi occhi di pelle rugosa viola, chiusi per sempre. Dietro le palpebre chiuse, imprigionata l’ultima delusa volontà: non chiudersi. Quell’uccello diventava fango schifoso. E lui, ragazzo, voleva gridare, fino a far sanguinare i cieli. Che di nascosto gli davano ragione, e di nascosto gli davano ragione anche creature, scimmie sagge nascoste nel folto attorno a tutte le cose, dentro tutte le cose.
・Sembrava a volte, spessissimo anzi, che al mondo non ci fosse nessuno capace di urlare così, così giustamente.
・Giovane, barbuto, appena qualche anno prima. Alto e bello era stato il capo, la barba folta d’oro sotto certi soli, di certi pomeriggi rari più sopportabili degli altri. Quando anche il sudore era fragranza, e in ciascuna vespa sollevata dal sottosuolo per volare e banchettare con avanzi putrescenti pulsava un piccolo inestimabile cuore, giallo e nero. E dei sorrisi si trasmetteva altro, che non fosse il semicerchio grottesco di zanne scoperte. Imitazione di teschio stecchito.
・Non poteva non ammirarlo quando era così e maneggiava gli arnesi, dando l’aria di sapere d’ognuno l’anima e la storia, il funzionamento, un’intera scienza d’astri contenuta nelle cose manuali, impugnate con ingegno. Lui invece, affidandosi alle gambe, di cui non sapeva nessun funzionamento, nessuna anima, si sarebbe allontanato attraverso le prime ombre nella notte, per cercare un riposo momentaneo tra occhi di gatti selvatici e trilli di insetti velenosi. Avrebbe evitato il più possibile la gente seduta a cena quella sera, e la scena degli umani che diventano mani, unte di grasso, e poi denti, e poi ghiandole per assorbire sangue e altri fluidi.
・I corpi delle antilopi, forse, non deperivano. O forse non li riducevano in quel modo e lasciavano là per potersene nutrire, ma per altri scopi, e sottoponendoli ad altri processi, allevando il tempo. Arroganza: caccia, allevamento, fermentazione, legislazione del bosco sotto il colle, da non oltrepassare. Quei corpi morti, forse, li facevano seccare, pelle utile. Non avrebbe saputo, da tempo si nutriva da solo. Aveva scoperto un buco in cui scavare il nettare, e un altro per un miele di mosche gravide di furia. Anche lui faceva arroganza nelle loro tane di sterco, ma la pagava: cedendo ai pungiglioni brandelli dell’inguine. Lo copriva con un panno quando non era solo. Da solo aveva dimenticato, sforzandosi, cosa facevano laggiù. Ma i corpi dei piccoli erbivori, accasciati su un fianco in tutti i crateri dove l’erba alta appariva schiacciata, continuavano a disseminare il cammino mentre si inoltrava verso un tronco caduto che conosceva, dove andava a succhiare acqua da rugose guglie di corteccia. Ogni passo un dilemma di stelle e animali.
・Dilemma. Se associare se stessi alle stelle, le costellazioni, o agli animali che costellano il suolo. Rubando loro ogni cosa, gli umani li amavano. Ma se al villaggio si amavano così, allora era meglio non… eppure, quell’idea non era male: non gli sarebbe dispiaciuto se i nomi, anzi, l’interezza delle identità, fosse consistita in una stella, in una bestia, o anche un minerale, o anche un fenomeno del cielo, o un organo. Quale di queste cose? Un dilemma.
・Sei le gambe di un falco di terra, usi sempre meno le ali e ti evolvi per razzolare. Ma hai un vago ricordo del cielo, o di una palude dove pescavi. Senza uccidere i pesci. O uccidendoli brutalmente: perché quand’eri meno di un ragazzo, nulla aveva un cuore: il mondo in cui eri nato ti aveva detto così. E ogni frantumazione e ogni orrenda brutalità suscitava in te solo curiosità, solo immagini che avresti custodito nel fondo delle orbite oculari in un’ombra personale e protettiva, per proiettarle quando lo volessi sopra ogni cosa, brutta o bella, a farti un’idea del mondo. Le immagini poi si sarebbero riempite di larve: bianche nuvole flaccide nella linfa stillante dal corpo schiacciato di un bruco. E tanto più crescevi e odiavi quelle scene, tanto più le amavi al tempo stesso, gridando inascoltato: la vita è un cactus che eiacula orribile primavera, che muore poi perché puzza troppo, e continua a puzzare, sempre più, perché il tanfo è solo eccesso d’odore, è solo esagerazione. La vita è esagerazione.
・Quelli che partecipavano alla vita esageravano. L’avevano spinto, a una festa -qualcuno festeggiava la propria nascita o la propria morte- dove acini fermentavano in crani aperti di maiali, collocati su taglieri di pietra color avorio. L’avevano spinto verso una bambina e avevano riso. Lei era arrossita. Lui non la odiava ma non disse niente. Mentre la guardava da sotto sopracciglia incrinate, doloranti per lo sforzo del broncio costante. Nella sua faccia non c’era niente, lei lo vedeva, lo sentiva. Le svaniva il rossore. Era fuggito mostrando sdegno e arroganza ai ridenti, sdegnosi e arroganti. Non voleva, e non capiva perché dovesse volere. Era obbediente solo quando gli chiedevano le gambe, era il primo a presentarsi a un appuntamento anche quando si perdeva per strada, e perdeva tempo, e lo recuperava.
・Il tempo lo guardava con strumenti d’osservazione distante dalla cima della collina. Lui sapeva d’essere osservato, ma non gli diceva niente. Prima di dormire certe volte pregava al tempo: ciclopica massa scura e informe ai bordi più estremi del colle e del cielo, violacea, nera, nebbia.
・Le stelle erano punti nel cielo. Identità spente in lontananza.
…
・Mise la polvere urticante, vomito di una pianta letale, sulle gobbe viscide delle corde fermentanti che emergevano dalla bordaglia nel catino di legno. Si sarebbero dette anguille: intestini senzienti. Serpi cieche. Al contatto, i primi granelli di polvere emanarono un fumo effervescente, uno sfrigolio riassorbito presto dalla pelle blu scuro. Gli altri granelli sparirono immediatamente.
・Ci si era ficcato, peggio di un topo. Il silenzio di un pomeriggio e le capanne vuote. Tutti erano altrove, a fingersi morti sotto il sole altrove, a fingersi poi risorti e più vivi che mai. Non dormiva di pomeriggio: momento troppo vulnerabile al formicolio nella testa, e all’odio per i più forti. Nella capanna di lei, l’afrore nauseante l’aveva subito condotto al catino. Estrasse la manciata di polvere dal panno, scaldata, contatto diretto con i genitali screziati. Non aveva altre tasche in cui riporre e conservare i tesori trovati nei campi e nei boschi.
・Cosa aveva fatto? Non lo sapeva. Il cuore sprigionava arti e tentacoli, arrancando in una risalita di tarantola, s’arrampicava dentro l’esofago, gonfiandosi di fiatone a ogni battito sempre più ravvicinato. Era raccapricciante, questa cosa dentro di lui, che in cambio provava verso di lui un raccapriccio maggiore. Perché il cuore era nato prima di lui, quando lui era solo una membrana di girino affamata, dentro l’embrione, avvolta attorno a quel centro. Era stato poi lui, crescendo, a marcire. E non quel cuore che si arrampicava trasportando fiatone.
・Vomitò una secchiata d’acido bianco sull’erba fresca che per lui aveva solo amore. La tradì, e disse lacrimando: “scusa”. L’unica cosa che lo amasse. Cosa aveva fatto? Stava fuggendo dal villaggio, perfezionando la conoscenza dei percorsi segreti che solo lui aveva scoperto con la sua arte.
・I buddha, un tempo, erano apparsi, un branco, in cerchio attorno a lui. Animali rari della foresta, dormono sempre e sempre sono svegli. Ma non si vedevano più in giro. Era stato tanto tempo fa. E non aveva mai capito se ammonissero o perdonassero. E mai più avrebbe potuto: si erano forse estinti, o erano diventati sempre più rari e capaci di fuggire, elusivi, nelle ombre, dentro i rami.
・A ogni passo, lontano dal villaggio, verso un fiume che sperava di ricordare del tutto -da cui erano giunti, sul quale da qualche parte una lunga sonnacchiosa barca doveva pacificamente dondolare sulla corrente morbida e gorgogliante-, a ogni ricordo affiorato e ogni graffio sulle caviglie scalze, a ogni respiro. Si rendeva conto, il fiatone echeggiava, si rendeva conto che aveva fatto una cosa orribile. Non avrebbe mai saputo quanto orribile. Per la prima volta era stato lui a cancellare le conseguenze delle azioni.
・Si scavò un buco nell’inaccessibilità della foresta, sotto le fronde di un salice. E dunque al fiume, perché i salici piangevano solo sulle rive. E dunque volle diventare un albero, volle seppellire radici, gambe ferme, genitali lacerati dalle mosche. Volle che i capelli crescessero, ancora, ancora, fino a diventare lunghi rami di foglie color smeraldo e color acqua di zolfo. Ma non sapeva se fosse un ricordo del presente, da cui cercava di distrarsi, o se fosse proprio quello che era riuscito a fare nei giorni in cui nessuno seppe più nulla di lui.
・Le cicale e le locuste esistevano, non c’era dubbio, ancora lottavano per esistere, in eserciti dell’erba. Sembrava che l’erba cantasse. E sui suoi steli, in gioco, piedi danzanti di bambini lontani, nei pressi di una cena dentro fumi serotini, nei pressi di un villaggio che diventava cimitero.
・Nel cielo rivoli di sangue, da colli lunghi d’erbivori, e giavellotti scagliati, da giganti alti. Nel suolo, stelle cadute, speranzose di conoscere quel mondo di condanna ad amare, odiare, qualcuno, qualcosa.
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