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Maru

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 7 feb 2023
  • Tempo di lettura: 28 min

Era come se stessero schiena contro schiena a prendersi la brezza del mare davanti alle onde nere, ma la sua vera schiena, logora vecchia tavola di muscoli ingrigiti, se ne stava sola e separata, ben infagottata dentro lo yukata blu e bianco a far pressione contro lo stipite esterno. Di là dai baffi folti e spioventi s’estendevano le reti umide permeanti l’atmosfera della sera inoltrata, tese come a voler catturare i più piccoli barlumi di bioluminescenza d’insetti numerosi, ogni tintinnare riverberato dalle alte stelle fin nelle cose più piccole del suolo. Pareva di veder occhietti di rugiada scintillare discreti in mezzo alle foglie dei cavoli, i ciuffi di riso e gli ortaggi ben pasciuti nella frescura ammonticchiata in brune striature dei campi tinti blu scuro.


-com’era, allora… hatake..?-, venne la voce da dentro, come un’eco di galleria.


Il samurai occhialuto sbuffò. Ma presto corresse con un frettoloso colpo di tosse quel suo modo di fare: ci teneva che non sembrasse uno sbuffare annoiato.


-hatake utsu ya….


-ah, già, già! E poi?-, esortò ancora la padrona di casa, affinché ricordasse, sforzasse se stesso fuori dalla sorniona e saggia inerzia di corpo e mente che lo accompagnava da molto prima che l’incedere degli anni gli mostrasse, qua e là in frammenti come altrettanti riflessi invischiati in globulari gocce di pioggia, quel che era ed era stato: guerriero a riposo che mai aveva estratto la spada, né conosciuto l’epoca degli eroi . Le pareva di cogliere, nella sua ombra, uno di quei vecchi leoni del continente che tuttavia, sempre stanco di ergersi su un pilastro a guardia di un tempio, s’arrenda accasciato sul lastricato cotto dal sole. Mentre lei, immersa nella luce che imbeveva ogni angolo interno della casa rurale, pareva muoversi e dispensare le sue parole capaci di esser felici di tutto, della memoria come del mattino che ritorna sempre uguale a se stesso, da dentro un mondo distante. Eppure in comunicazione con quella notte fresca, odorosa di rospo in attesa dei passi del samurai come a voler riappropriarsi, in nome di tutto ciò che è buio e umido, del suo corpo, secondo i programmi di un destino misterioso già scritto e ignoto alla sua mente. Reagente solo col suo corpo già inconsapevolmente proteso. Era spesso teso. Muscoli di guerrieri che non hanno mai conosciuto battaglie. Corpi di principi che hanno combattuto solo nelle fiabe.


-ci sto pensando.


-hahahah!-, rise, la padrona di casa, non perché il samurai non ricordasse gli altri versi di quel semplice hokku.


Un gutturale richiamo dell’oscurità pervasa d’acqua. La notte era acque, era uno stagno. Tutti i movimenti, conclusi non appena cominciati, non sono che le ondulazioni tracciate dalla sabbia di fondale che concilia la meditazione, che si disperde fluttuante, ricade, in pattern mai più ripetuti identici. Un gutturale gracidio nascosto là tra le piante perennemente assetate dice: vieni qui, torna qui, appartieni alla notte, ai passi che sotto di lei compi per far ritorno, senza mai trovare davvero una dimora in cui riesca a riposarti, dimenticare l’insidia che insegue da dentro e da fuori.


-hey, se hai bisogno di pensare mentre sei lì a fissare il campo posso aiutarti: potrei conciliare la tua concentrazione percuotendoti ripetutamente la fronte con una pipa in legno che ho qua nella cesta.-, gli propose per scherzo dando due colpetti giocosi sul bordo aperto di un’alta cesta di vimini a forma di giara.


Lui non vedeva il volto, non vedeva nemmeno il colore delle luminosità sparse sulle pareti lignee dai lumicini incastonati nelle lanterne, meduse di carta; non vedeva nemmeno il mobilio, tipico delle grandi tenute dei contadini arricchiti, lord della terra che esistevano da qualche parte, praticando il commercio di beni stranieri, perseguendo assurdi calcoli intrecciati impenetrabilmente nelle fronti bramose, in attesa delle navi minacciose nel porto. Immaginava tutto questo, alcune cose dettagliandole nel profondo fino a sentirne odori veri e nascosti, e altre, quelle che non poteva né voleva comprendere col loro tanfo di mondo e monete e polverose strade trafficate, contemplandole dalla soglia dell’immaginazione più superficiale e priva di curiosità. Tutto questo esisteva da qualche parte alle spalle sue e tutt’attorno, posti che non capiva se fossero connessi o separati dai campi della notte agreste col gelo buono che non faceva paura. Tutto quanto sentiva, facendogli evocare mondi ignoti, era invece il dentro, era concreta sicurezza dall’odore di delicata e quasi invisibile polvere domestica. Con la schiena rivolta allo spazio tra una stanza e l’altra, lo elaborava dentro sé per riempire i punti ciechi e assieme immaginava di sentirlo respirare, e sentirselo respirare dentro all’unisono con le sue ampie boccate d’aria refrigerante e segretamente selvaggia della notte vasta davanti a lui, e presto attorno a lui, s’avesse deciso di terminare quella visita alla vecchia amica, e da solo incamminarsi nelle strade di grilli, cinto a sinistra e a destra dalle masse boscose del nero distribuite ai lati insondabili della strada maestra. Amica inseparabile di spiriti vagabondi lasciati liberi sulla terra. Nei geta e nei cuscinetti di gatti selvatici e tanuki si raggruppa la sabbia polverosa del lungo marciare. Avrebbe rallegrato i malinconici minuti di quella camminata infreddolita e vacillante sulle caviglie fatiscenti immaginandosi nel momento promesso e distante d’un ritorno a casa, se stesso chiuso a ostrica tra pareti color bambù d’una stanza disadorna a sorreggere con una mano un lungo pennello per tracciare sulla carta i caratteri di una poesia, ispirata dal cupo soffio del vento che pervadendo un’inafferrabile oscurità esterna sembra assediare quel riquadro effimero di luce, stuoie, calore, lacrime private. Scuotendone mura e infissi, suonando la musica ritmata della sua fragilità.


-mmmh, sì. Buona idea.-, soffiò infine con aria cogitabonda il samurai dopo una lunga pausa in cui pareva essersi perso tra complicate volute d’un fumo interno alla fronte.


-ma io scherzavo!-, fece incredula la padrona di casa. Qualcosa guaì in lontananza, echeggiò, sembrava, fino al margine della valle e dei luoghi in cui gorgogliava il ruscello, senza affatto sovrastare i grilli, un minuscolo brulicare, un rorido respiro delle cose.


-aah, sì eh. Bah, si capiva.


-è inutile che scrolli le spalle a quel modo.


-che modo?


-come se con una spalla facessi finta d’averlo capito da subito e con l’altra cercassi di scacciare una mosca che non c’è.


-mph! Questa poi…


Rise, l’amica di un tempo, costatando in lui la ricorrente forma appena manifesta d’un orgoglio un po’ indolente e fiacco, procedente come una lumaca sulla foglia grinzosa delle sue guance, sulle fossette costellanti la pelle sotto le lenti quando si spargevano da un fremito accennato degli occhi. Erano gli occhi che innumerevoli volte aveva osservato, senza ch’essi se ne avvedessero, quando parevano risvegliarsi da un sonno trascinato ovunque a mo’ di scudo, e non credendo d’esser oggetto di sguardo, si sentivano liberi di luccicare, muoversi, farsi vispi e vulnerabili davanti ciò che intensamente svisceravano, infiltrandovi dita di sguardo umido, la stessa sostanza dei bagliori che scivolavano sulle grandi pupille nere come raggi deviati dalla sporgente massa di due pianeti oleosi. Contemplavano non la terra, non le convolute mappe dei pensieri, ma qualcosa che, chissà dove e come, giaceva a metà, facendosi d’una consistenza e un modo d’esserci paragonabili soltanto all’essenza di lunghi quieti respiri che precedono il sonno, ma che mai vi entrano del tutto, prolungandosi nella discesa attraverso i polmoni e le immagini affioranti che fanno preludio al sogno. Uno spazio irraggiungibile, sconosciuto, che gli apparteneva, e di cui gli altri potevano solo sentire un vago odore standogli accanto. E che l’assorbiva, rendendolo per compensazione ignaro di tante cose, almeno quanto chi da lui era diverso ignorava i paesaggi solo a lui accessibili. Ignorava l’intensità dello sguardo di lei che gli si posava addosso, che sempre l’aveva fatto da quando lo conosceva.


-hatake utsu ya, ugokanu kumo mo, naku narinu.-, proruppe, infine.


-non ti è servita la pipa!


-mmh mmh.


Si poteva ammirare un’eloquenza fatta di mugugni e una poesia fatta di spazi assenti. Per ricordare questo i due amici facevano ritorno a momenti come quello. A una casa, campi immersi nella tenebra blu, come un fondale misterioso, dove solo l’acqua è sveglia e ovunque affiora, dicendosi presente in tutte le cose. Qualcosa, ancora una volta, guaì. Il samurai vedeva pervenire fino a sé, attraverso gli ineffabili schermi tracciati a mezz’aria nel suo limbo sospeso, gli elementi che componevano quel guaito: l’aria del suono, la terra della carne di corde vocali meccanicamente sfregata, il fuoco del calore interno dove il suono, avviluppato da un flusso sanguigno e dal solido risonante deserto delle ossa, s’era generato. E l’acqua, che più discreta di tutto s’immetteva nel fiato, nell’intenzione. Qualcos’altro -un essere vivente di tutt’altro tipo- tamburellò sull’erba sottostante un piacevole crepitio, facendo scivolare dalle proprie foglie un lumacoso gruppo di gocciolone di rugiada.


-diventiamo vecchi. La tua memoria resiste. Vedi, non sei poi del tutto un vecchiaccio da buttare.


-mmh…


-dai, continua. So riconoscere dai tuoi baffi quando vuoi aggiungere qualcosa.


Il samurai per qualche motivo avvertì un brivido salirgli la schiena con zampe numerose nel sentirsi menzionare i baffi, nel sentirsi menzionato, da lei che, da qualche parte dietro di lui, doveva pur starsene a osservarlo. Non si voltò, udì invece un fruscio. Per una frazione di secondo immaginò che una scolopendra, armata di mille pugnali di veleno, percorresse rapida la verticalità dello stipite accanto a lui e s’agitasse nella luce sotto il soffitto per catturare l’insetto svolazzante che si sarebbe realmente potuto scacciare con la spalla -una cimice, ammantata degli stessi veli di polvere sparsi su ogni superficie. Altro che mosca.


-eeeeh, volevo dire, tu adesso mi vedi così… ma… beh, non è sempre facile. È brutto dimenticare, lo so anch’io.


-lo so che lo sai. Non serve che lo espliciti, solo per farmi sentire meno sola.


-no, non è questo che…-, il samurai quasi si voltò, ma fu fermato. Un dito, vibrante d’uno strano intruglio d’opprimente forza e pudore, gli sospinse lo zigomo, costringendolo a riportare lo sguardo occhialuto verso i campi imperlati di luna, stelle, puntiformi esoscheletri in brulichio sulle foglie rifulgenti di nero lucido. Ed ebbe un altro brivido, durato appena il millesimo di secondo in cui il dito era stato presente, era stato fisico, l’aveva toccato, aveva fatto sì che un’informazione gli si trasmettesse, elettrica e viva, fin dentro una qualche stanza deputata alla decodifica sensoriale che doveva aver da qualche parte. Zona viva e moribonda del cervello sorvegliata presumibilmente da spire e controspire di dragoni da guardia, cugini dei gaviali del Gange. Protettori contro la zavorra samsarica degli stimoli eccessivi.


-so anche questo. Ti conosco. Per tanti anni ti ho visto spiegare, e solo quando ti veniva chiesto, ti ho visto precisare cosa sai e cosa non sai. In quei momenti, metti da parte delle porzioncine del tuo odio per la vanità, e ti reputi interessante. Arrivi anche tu a non odiare le nostre mancanze, arrivi anche tu a credere per pochi balsamici momenti in quella cosa invisibile che succede tra due creature perse e stanche, quando senza farne mai esplicita menzione intrecciano tra loro robe simili a fili, dicendosi quello che credono di sapere e non sapere, e il modo in cui questo va a toccare altre corde, in maniera quasi molesta ma affascinante.


-mmmh…


-e ti accarezzi il mento così quando ti viene fatto notare qualcosa. Strano però. Ci sono tante cose che invece non so, e che speravo mi dicessi. Tante cose che non hai mai detto.


Soffocato un rantolio che sperava non si fosse sentito, il samurai volse con maggiore scatto il viso quasi mortificato, o forse soltanto dispiaciuto di doversi separare momentaneamente dalle sue cose, dai campi che vi facevano da sfondo notturno. Non ricevette dita fulminee né poté vedere una risata, un’ironia, un sincrono di multiformi fremiti che erano lei, che erano il suo modo di prendere le cose. Fece in tempo a vedere soltanto una cosa con gli occhi bassi verso il pavimento: un lembo, l’orlo di una lunga gonna di tweed a quadri di bruno e grigio strascicante oltre un angolo cieco dell’anticamera laterale che dava sulla porticina rivolta all’esterno, da lui occupata a mo’ di grosso e sedentario pipistrello in una nicchia. Sentì il fruscio, roboante e totale come fosse fatto d’onde sismiche, andarsene e sparire -cioè ritirarsi in una capsula, un’altra nicchia della casa, una bara odorosa di naftalina o di lumi accesi in qualche altra stanza, dove l’ombra si proietta giganteggiante per eseguire le faccende domestiche dei molti gesti operosi con rinnovato clangore, destata da un paese segreto di titani incorporei pronto a sprigionarsi da ogni superficie quando è ormai trascorsa l’ora crepuscolare degli ultimi ululati malinconici dei cani. Orlo di gonna. Averlo visto, quasi infrangendo qualcosa di proibito, era qualcosa che il samurai sentì quasi simile all’aver visto una zampa d’orso comparire inspiegabilmente sulla spalla di qualcuno in una di quelle fotografie degli stranieri con una famiglia ordinatamente disposta contro una scarna parete grigia.


-ecco… c’è un motivo se non ti ho detto certe cose. Lo sai.


(-Non è vero che non sai. Siamo sacchi ambulanti di nondetto, più che persone.-, borbottò a bassa voce.)


-mh mh?-, fu per lei il turno di mugugnare. Un eco di fracasso evitabile faceva ben immaginare che il suo starsene in piedi per la casa balzando di lato in lato avesse a che fare con il maneggiamento di tante cianfrusaglie, tante faccende oggettificate.


-ohi, Obune. Dove sei? Mi senti là?-, la chiamò. Obune non rispose. Risposero i rumori. Il samurai seppe che le mani, le squame della carnagione bruna da contadina rese splendenti dai riflessi caldi della casa, erano lì, presenti da qualche parte in un angolo cieco. Finché la sua coscienza fosse stata raggiunta da quei rumori, simili al battito cardiaco d’una madre che canta una ninna al feto, allora…..


-ah, Obune. Non è mai stato facile… mmh, senti, dov’è la pipa?


La risposta muta di Obune in una stanza cieca sembrò fargli cenno con un dito invisibile di controllare dietro sé. La cesta a forma di giara appena dietro la porta gli porgeva bell’e pronta la pipa, in cima a una pila di panni ammonticchiati fino all’orlo in forme di frattaglie di pesci esposte al mercato. Nel fornelletto si contorcevano pochi sfilacciati rimasugli di materia vegetale carbonizzata, il cui microscopico polline aveva ormai preso dimora in quella rotonda spelonca di cenere. Afferrò frettolosamente la pipa , riuscendo a evitare di guardare dietro, dove c’era lo spazio senza identità tra una stanza e l’altra, rimasto vuoto, testimone della sparizione di lei in un altrove che pareva perdere progressivamente continuità con tutto il resto, a ogni attutimento di rumore.


-mmmmh, sì. Buona.- sbuffò piano il samurai dando la prima boccata di pipa e rivolgendosi al brilluccicare agrodolce della vegetazione notturna. -dicevo… non è mai stato facile. Che ne sai, tu, delle paure che può avere un samurai.


Silenzio.


-o forse lo sai… sì, lo sai. Scusami.


Tossì. Si fece un problema d’aver parlato troppo a bassa voce. Ma forse l’aveva fatto apposta, forse l’abitudine gli aveva intessuto in un certo modo le corde dentro la gola, quel punto in cui sembrava che ognuno portasse una diversa gemma, un diverso coleottero iridescente incastonato nella cassa di risonanza di un cordofono personale. Se così stavano le cose, il suo allora era un vecchio shamisen suonato da una cantrice cieca divenuta incapace di raccontare perfino la sua cecità, suona soltanto i miagolii affranti del gatto che era stato in una precedente esistenza.


-…sì, lo sai. Sono io che…bah, lo hai detto. Fingo di sapere. Non che lo faccia apposta, capita così. A te non interessa affatto, vero? ………però sai. Sai immaginare che un uomo d’armi noioso, che dorme camminando, s’aspetta a ogni angolo qualcosa, d’incredibilmente sciocco e improbabile e infantile come un balzo di tigre che irrompa ferocemente in una storia da bambini, in un sermone moralista, in una foresta di storie misteriose del continente, in un ricordo d’altra vita. Qualcosa di sciocco come la dichiarazione di guerra di un feudo nemico, una freccia scoccata verso le gambe, per impedire per sempre il ritorno a casa, il sollievo della camminata che è un patto tra sé e la luna e la strada maestra.. di sciocco come l’esistenza d’un nemico. Sì, lo so che è sciocco, ma… tu sai che non è evitabile. Che siamo stupidi, che siamo.. ohi, ci sei?


Silenzio. Il samurai occhialuto aveva parlato a bassissima voce, da solo. Il suo profilo si stagliò netto lateralmente, una guancia rivolta verso l’interno soggetta ai mutevoli capricci di penombra e luce. Tornò alla notte, la notte fresca con cui doveva fare amicizia, unica a cui potesse rivelare le cose vorticanti nel nucleo dei silenzi tra i suoi respiri.


-certo che ci sei. Lo sai. Anche della mia paura. No, non la paura di te. Né di quello che potrei dire, cioè di quello che penso e che provo. Solo… sai, un guerriero, ehm, un soldato per sempre a riposo, con la muscolatura tutta ribollente del rischio che non è mai arrivato… s’attende sempre una vendetta per la vita condotta in relativa pace. Certo, s’è vista morire gente, tu ricordi. Abbiamo visto cose sparire, altre mutare. Ma delle stesse cose avrebbe avuto esperienza un vecchio artigiano, senza alcuna fretta del mondo, nato vecchio e morto vecchio nella sua casa, ascoltando le canne stormenti del giardino. E quindi uno che invece si sarebbe dovuto attendere la spada e la freccia, e non le ha viste mai arrivare, è convinto che quando alla fine inaspettatamente arrivano… bah, no, niente. Sono giustificazioni, queste. La verità è che non c’è un motivo. Per quella paura. Per esempio quella che dopo averti parlato, o dopo aver confessato certe cose a chiunque abbia un corpo e una mente, arrivi qualcosa, uhm, qualcosa di brutto. E mi rubi gli organi interni, facendomi sentire in bocca un sapore di sbagliato. Oppure, chissà, potrebbe farti del male. Tante cose succedono… ecco. Tutto qua.


La più lunga spiegazione della sua vita echeggiò sterile nell’aria che ricordava l’autunno. Le note dei grilli suonavano fin dentro la casa e varcandone l’uscio s’attutivano, anche loro. Rivelando così che ogni altra cosa s’era già attutita, e che nessuno, in nessuna stanza cieca, stava muovendo mani e oggetti in faccende serali non viste.


-Obune…?


Il silenzio rispose freddo, congelato nell’atteggiamento di monolitico blocco d’una porta costellata di sguardi. Il samurai si voltò interamente. Vide il vuoto nello spazio liminale. Vide il vuoto sulle assi del pavimento che erano state sfrusciate dalla gonna scomparsa, vide dei gradini, delle porte, delle scatole e ceste, degli oggetti d’arredamento su mobiletti insoliti decorati di tessuti con disegni floreali gialli e marroni. Vide che Obune, nessuna parte di Obune, era più presente in nulla di tutto questo.


Uscì fuori.


Non aveva guardato, non si era affacciato. Fatto qualche passo tra le strette pareti come a farsi inglobare dal corridoio, che per tutto quel tempo era stato dietro la sua schiena a risucchiarsi in un fondo scuro tutta la massa di ombre scacciate dai lumi, era giunto alla soglia di una stanza, dalla quale tappeti di luce gialla filtravano vivi e traballanti del calore invitante di un focolare, di una solitaria finestra che nella distanza impenetrabile dei passi nelle tenebre accenda un rettangolo di chiarore nel cuore di una notte buia. Era l’ultimo posto in cui fosse entrata. Era il posto dal quale era stata come prelevata, fatta evaporare dalle azioni di una forza o insieme di forze che non aveva nome né forma. Ma lui non era entrato. Non lì dove poteva esistere l’aura dolorosa emanata da un cadavere che non c’era, dalla sua assenza. Sembrava una scena di quando era piccolo: i passi di bambino si dirigevano al culmine ultimo, il margine invalicabile dove un’esplorazione smetteva d’esser gioco, quasi volendo fargli inalare come un segreto prezioso nei polmoni l’aria che sferzava sul ciglio vacillante prima del pericolo, del tabù. Ma poi sempre all’ultimo i passi si voltavano, riconducendolo in stanze note e sicure dove, con lui, rimaneva soltanto la fantasticheria sprigionata in interminabili ghirlande di sogno da quella singola ineffabile sensazione, quell’ultimo respiro antecedente la scoperta e la vertigine, sacrificate in cambio dell’incolumità.


Uscì fuori, e incolume si allontanò dalla porta rimasta aperta, della casa rimasta vuota.


Nemmeno entrando si era sfilato i geta, sapendo anche, per una qualche premonizione infossata a fondo dentro sé e per metà riingoiata, che uscendo non si sarebbe curato di guardare, accertarsi che tutto fosse in ordine nemmeno qualora fosse accaduto qualcosa, nemmeno se per qualunque ragione la padrona di casa o una qualche divinità tutelare -insomma coloro cui spettava il compito di interessarsi di quell’ordine non appartenente a lui- avessero avuto un impedimento imprevedibile. Il samurai aveva lasciato la casa, rimasta vuota, con le stanze accese, le finestre accese, le porte aperte, ormai tana per briganti e tassi, fantasmi e streghe in vagabondaggio per la campagna. Ma no, niente sarebbe entrato, a parte il vuoto che faceva uscire le cose, esiliandole per prendervi il posto. Questa era un’altra impressione, già nata in lui, forse prima di lui, ancor più schiacciata delle altre, relegata dove non riusciva più a esplorarsi. Chiuso fuori, per timore, dalla soglia di se stesso. La casa, così illuminata e d’apparenza serena, sarebbe rimasta come un faro per i viaggiatori che sempre ne contemplano con nostalgia gli occhi splendenti in un mare sconfinato di terra color del cosmo. Ma avvicinandosi, avrebbero sentito che qualcosa non andava. Che non c’era un sogno di vite placide altrui in quella costruzione casualmente capitata nel paesaggio di sfondo alla strada come nel fondale di una bella stampa. Che c’era un nulla a sangue freddo là dove qualcosa era stato rubato. Turbato da queste riflessioni, il samurai lasciava le porte aperte come lasciasse un guscio vuoto, ignorando il prurito di mortificazione che gli saliva in due tremuli tubicini paralleli ai lati del collo. Lei gli avrebbe detto, per schernirlo, per mostrargli con tenerezza uno specchio impacciato e pieno di difetti: “sciatto e anche altezzoso, cosa fai, lasci perdere? Lasci aperta la porta dietro te quando te ne vai?”, ma oh, quanto erano più complicate le cose, così tanto più contorte di quanto gliele presentasse lei, credendo d’aiutarlo, medicargli l’anima con la semplificazione (Eh, amica mia, mai avresti capito la difficoltà nella vita di quel bambino che ha camminato sempre sul margine e sempre è ritornato indietro.).


Era uscito fuori nel profumo dell’erba sveglia, nel fogliame che faceva rumore respirando. La risaia gracidava. Percorse la terra nuda che formava una specie di cortiletto separatore, e diventava il sentiero, infiltrato nel suolo fradicio. Guaì qualcosa, un’ultima volta, in lontananza. Poi tacque. No, nulla avrebbe visto farglisi vicino con passi felpati e circospetti in quel viaggio di ritorno, nessun placido incontro vivente che lo salutasse con il fare di una parola stagionale in una poesia. Non sarebbe stato un ordinario, rassicurante ritorno. E se si fosse avvicinato un qualcosa -e sapeva che l’avrebbe fatto- sarebbe stato d’altra specie. D’altre parole che non fossero poesia.


(Ah, amica mia. Con chi sta arrivando non posso mica sperare di cavarmela citando uno hokku. Non credo si lascino impressionare. Da nulla che abbia in me.)


Non dovette allontanarsi molto prima che apparissero due colonne. Due alti pilastri vivi, ritti ai due lati del sentiero, in attesa che si fermasse davanti alla linea sulla quale sostavano prima che l’attraversasse. Come a materializzare una scena fantasma speculare alle strutture che, in piedi allo stesso modo, sorreggevano l’intera casa da dentro le sue viscere e ossature. Erano agenti degli stessi elementi che rendevano ferma la dimora: sembravano fuoriusciti da qualcosa che proveniva, al tempo stesso, dalle giungle buie di demoni talvolta ammirate nelle illustrazioni dei rotoli impregnati d’incenso nella penombra della stanza per la preghiera di un lugubre tempio rurale, e da un’energia oscura che, passando attraverso gli interstizi nei muri difensivi, vi cola dentro come nero inchiostro e lì rimane imprigionata a cristallizzare e rinforzare la muratura dall’interno. Provenivano dalla tenebra incrollabile e rigida dentro i muri. Eppure assomigliavano anche a quei diavoli, avversari nei sutra, con le pelli nere e verdi delle passioni selvatiche. Vedendoli ricordò che il mondo, tutto quanto conosceva e poteva esser compreso nei limiti della mente che è un arcipelago tanto piccolo nel mare, era cinto da alte incombenti mura. Ombre più solide di qualsiasi incubo s’ergevano circondando il visibile, lo chiudevano, lo proteggevano. Qualcuno diceva che gli invasori stessero per allargare ulteriormente una breccia aperta in un tempo recente già volatilizzato tra le brume incerte di una nuova era -presto anche quei luoghi di campagne e foreste remote se ne sarebbero resi conto. Ma lui ne era convinto: per quanto perforate, quelle mura continuavano a ergersi. Marciando a lungo tra le montagne o verso i mari le si sarebbe incontrate, viste apparire all’orizzonte come le insegne di un famoso posto di blocco, una stazione termale prosciugata senza spiegazione. Lui sentiva i muri continuare a esistere e le sue sentinelle continuare a cercarlo -erano lì, perché sapevano questo di lui, ne conoscevano l’ansia-, e dai suoi torrioni sgretolarsi inesauribile una cheratina marmorea e greve che era del muro intero la sostanza più essenziale, scheletro e carne e pensiero d’un anello che stringeva, per domarli, tutti quelli che al suo interno si muovevano, rischiando a ogni mossa eccessiva di risvegliare il malloppo sciaguattante di viscere che si portavano dentro. I muri del mondo conosciuto, che mai sarebbe cambiato, facevano cadere ininterrotta una pioggia di silenzio marziale sugli abitanti. I muri suturavano chirurgicamente con lo sguardo e la sola solenne presenza, la sola aritmetica rigorosa del loro tenersi in piedi, tutti quegli squarci che s’erano aperti nei contenitori di pelle dei nervosi suoi abitanti, per sempre sigillando nel buio personale di ciascuno quelle cose fuggevoli e informi da non far mai traboccare, come liquido in un orcio tenuto sulla testa per un gioco d’equilibrio o per una cerimonia rituale.


(Per questo ti hanno presa. Prima. Mi vogliono solo. Porto la spada, ma sanno che non la sfodero. Volevano mettermi nei guai, amica, nei pericoli che porto scritti nella casta. E tu avresti cavato da dentro te qualcosa con cui impressionarli. E impressionarsi è la cosa che più temono. E io li capisco. E io non ti ho mai detto abbastanza di ciò che t’avrei dovuto dire, così da ridicolizzandomi, mettermi sporco e umido e pigolante nelle tue mani come un implume inadatto a vivere che s’affanna, chiede, e muore, venendo eternamente ricordato per quanto dannatamente gridava quei suoi acutissimi stridii perforatori di timpani, di pazienze altrui.)


-mmh. Non serve. Vengo con voi.-, borbottò cercando di usare un tono indifferente, uscito più innaturale di quanto sperasse.


I due alti orchi all’unisono sfoggiarono dei larghissimi sorrisi che facevano ballonzolare ai lati delle labbra quasi inesistenti i cinghialeschi canini inferiori, profondamente soddisfatti.


-bene. Andiamo.


Si incamminarono sul sentiero. In realtà non era che ci fosse molto di diverso da una tranquilla notte qualunque. Il samurai camminava, stessa strada di sempre. I due camminavano, paralleli, qualche passo avanti a lui, ombre l’uno dell’altro. Soltanto, le cose tacevano, e una vibrazione scontata, solitamente inosservata come il flusso del proprio fiato e sangue, si gonfiava tanto più forte nell’improvviso ricordo quanto assordante era la sua assenza.


(Ma adesso l’ho capito. Nessuno dovrebbe disprezzare quell’esserino. E nemmeno amareggiarsi per il suo ricordo ingrato, l’onta delle sue grida bisognose. Perché tu me l’avresti fatto capire: c’era qualcosa di prezioso in quei momenti, prima di morire, quando stando sul palmo che l’ha raccolto ha sentito a contatto col torace umido il calore di una matrice, un uovo, una cova. C’era qualcosa di sereno nei momenti accuditi prima della morte.)


Riconobbe presto il castagno solitario che sorvegliava un lato della strada, lanciata lontano fino alle nuvolose e indistinguibili masse delle prime montagne. Ebbe l’impressione che l’eco dell’eco d’un riverbero luminescente, forse d’una lucciola superstite allo svuotamento d’ogni cosa ancora volteggiante su un prato scuro, facesse vibrare come una bandiera metallica l’emblema malvarosato timbrato a distintivo aureo sulle schiene dei due agenti che lo stavano scortando. Guizzava talvolta più avanti senza spingersi oltre la linea rigorosa del loro avanzare, retrocedendo simile a un girino disorientato quando il nuoto atrofizzato comincia a sconfinare verso le acque più profonde. I grugni ferini scavavano dritti la sostanza della notte, facendo baluginare lateralmente, in risposta a quel fenomeno ottico, soltanto le bianche circonferenze degli occhi. A differenza d’ogni diavolo appartenente alla stirpe d’orchi, rakshasa e guardiani, che in qualche modo ricordava la loro, non avevano sopracciglia arcuate, irregolarità del volto per disegnare roventi emozioni. Occhi vacui da daruma senza desideri foravano i volti di oscurità inerte, dove solo le zanne ricordavano i normali orchi o i nerboruti demoni guardiani, la cui forza espressiva era scomparsa per confluire tutta, deformandosi nel processo, dentro i parossistici sorrisi che s’aprivano cordiali alle parole del prigioniero, sospettato, colpevole, ostaggio -che cos’era esattamente?


-posso chiedere di cosa sono accusato?


Uno dei due ufficiali ghignò. Il ghigno parlava con tono cortese che sembrava appartenere a qualcosa di separato dall’essere che lo produceva.


-non serve un’accusa, in questi casi.


-questi casi, eh…-, disse tra sé il samurai, pensando al caso suo. Chi avrebbe mai potuto dire cosa fosse stato, “il suo caso”? Chi avrebbe potuto mai tradurre in linguaggio un’esistenza tanto ciofeca? Insultandosi il samurai riusciva a far passi muscolari e cinici nel riserbo, così da affrontare qualunque cosa quella marcia andasse a significare, verso qualunque svolta del “suo caso” lo stesse conducendo.


-ma se ci tieni-, continuò lo stesso agente -possiamo inventare una storia che la possa sostituire, anzi essere migliore.


-…va bene.


-sì, uno come te, per esempio, potrebbe comportarsi come un animale selvatico, un lupo fuor di controllo. E verresti così accusato di tsujigiri: per la turbolenza che ribolle nel tuo animo, segretamente desiderosa di sprigionarsi in parole appassionate o ridicole inconcludenti espressioni, che era tua responsabilità governare, hai finito per impazzire, calare su innocenti passanti la spada fino ad allora dormiente nel fodero. Va bene come accusa? Certo che va bene: ti appartiene.


Camminarono in silenzio per qualche passo, lasciandosi dietro il castagno. Avrebbe avuto modo di voltarsi a guardarlo? A volte, su quella strada, gli capitava d’essersi voltato, udendo i passetti di qualche animale a nuoto in onde di grilli.


-butta la pipa.-, gli disse d’un tratto l’altro agente, con una voce rauca molto meno cordiale.


-eh?


-la pipa. Non ti appartiene. Non puoi portarti niente dalla casa. Puoi portare solo ciò che ti appartiene.


Il demone sembrava aver fatto uno sforzo comunicativo impareggiabile nell’aver dato quelle poche indicazioni. Dunque è così, pensò il samurai, prontamente trovando una logica nella cosa. Trasse dal foro fischiante sotto i baffi la pipa di cui s’era abituato al sapore, fino a cancellarlo dalla sua coscienza. La soppesò sul palmo, guardandola un’ultima volta. Sapeva che sarebbe tornata alla sua coscienza, scalpitante in protesta, dal momento in cui avesse smesso d’espirare il fumo con l’automatismo di una normale respirazione. Sapeva un sacco di cose, quando doveva raccontare a qualcuno, se stesso o altri, la menzogna che sapesse qualcosa. Mah, forse si sbagliava su tutto. Forse c’era perfino misericordia a quel mondo, forse quello era un modo implicito di concedergli, attraverso la pipa, di dare un ultimo saluto che non era riuscito a dare alla sua proprietaria (O non ho voluto, o avuto paura.).


Gettala via, gli aveva detto. I mostri si fermarono in un istante ch’era impossibile distinguere tra esattamente contemporaneo all’arresto dei suoi passi o inquietantemente anticipatorio. Non curandosene girò il corpo di lato, in un’infrazione temporaneamente concessa nel dovere di marciar dritti. Lanciò la pipa che descrisse una parabola sopra le zolle erbose dei fossati ai lati del sentiero, soglie di distese interminabili di risaie alle pendici delle alture. Una pipa si tuffa. Il rumore dell’acqua.


-ecco fatto.-, fece il samurai battendosi immaginaria polvere dalle mani.


Si limitarono ad annuire impercettibilmente e tacendo ripresero a camminare nella direzione programmata.


Dopo pochi passi sembrò che quel castagno e tutto quanto l’aveva sempre circondato, e che adesso tornava a visitarlo con la rarefazione di un sogno dissipato dall’albeggiare sulle palpebre chiuse, fluttuasse su un’isola lontana, un continente che avevano lasciato in un tempo remotissimo, eppure così vicino -fisicamente vicino: sarebbe bastato voltarsi, sarebbe bastato incarnare coi passi un rovesciamento di quella cosa grossa e incontrovertibile e scura e sinistra cui si sarebbe voluto dare un nome come “destino”, o “karma”, o “legge”, o “ricompensa”. Sì, nella sua casta, quindi nel suo sangue e insomma anche in una piccola percentuale del suo destino, c’erano state esperienze di un’era che aveva il nome di “tutto si rovescia”, evocate in canti d’afflizione spettrale nelle cronache storiche, deliri danzanti della terra umana e le sue follie, la sua fame, i suoi incendi. Da altre brume di sogno gli si affacciavano quelle immagini libresche, le fiamme nere da cui emergevano disgraziati sotto piogge mortali, fuoricasta che imbracciano la spada e in sella a un cavallo conquistano terre di generali caduti in rovina, e uomini e scimmie che tenendosi per mano celebrano il rogo d’ogni ordine. Ma erano davvero esistiti quei tempi? Le teste lucide di corvi e avvoltoi, scarmigliate nel fuoriuscire da crepitanti carcasse e ricoperte d’un tuorlo rossonero di morte, gli dicevano, con gli occhi tondi e i riflessi sui becchi aguzzi rivolti al suo invisibile sguardo da qualche parte fluttuante sul campo di battaglia cosparso di corpi: sì, è successo. Esisteva dunque dentro di lui la possibilità di questa follia, questa capacità di invertire un percorso avviato già verso la conclusione, di cambiare i caratteri dei proclami già trascritti. Ma era spaventoso. Erano impulsi che producevano deserti di cenere e ossa. Il samurai aveva vergogna di sé nell’ammetterlo, proprio in quel momento, ma non sentiva provenirgli alcun aiuto dalle consapevolezze raggiunte nel corso di frequenti meditazioni sedute sotto i tronchi d’albero, in cui aveva creduto di sollevarsi nella brezza e afferrare, con quiete brulicanti dita vaporose che gli vibravano nelle narici e nel fiato, tutte le prove dell’effimero, che bagnava in egual pioggia tutto il bello e il brutto, tutta la vita e anche la morte -sì, non era solo la vita a soccombere e sgretolarsi in inutile polvere, anche la morte, anche quei cadaveri, avrebbero smesso d’esser decomposizione, devastazione, segno del disastro commesso. Ma non ce la faceva. Se si fosse voltato, ancora una volta, avrebbe ucciso mille prati rigogliosi, sparso simili deserti a ogni suo passo, e perfino ammalato il cuore di una persona cara, fatta sparire da forze misteriose. Disse addio al castagno e la casa del suo orizzonte stampato nel buio vicino, alle pendici di un declivio boscoso, sorvegliante le risaie quasi brillanti anche nella notte. Addio ai grilli e le lucciole e i guati selvatici di qualche animale metamorfo che, straziato da una malinconia irrisolvibile di cui ha perso ogni consapevolezza, si reinventa trasformista, e comincia una nuova esistenza sotto spoglie ingannevoli.


Addio a una casa che era esistita lungo il sentiero percorso sino ad allora, con quello che c’era dentro, e ciò che lui aveva sempre immaginato ci fosse dentro. Identità tra una dimora e la sua abitante. La chiave della porta come la chiave dell’animo. C’era mai davvero entrato? Non aveva forse sbagliato qualcosa, con lei e con tutti? Non avrebbe avuto modo di vedere niente più, dalle radici dell’albero sino all’uscio, perché lo spazio vicino diventava una cosa sola col tempo lontano, spazio e tempo si fondevano in qualcosa che nessuno aveva mai visto. Sto forse morendo?, pensò, quando fu interamente scosso dal passaggio e la scomparsa d’un brivido gelido nel cervello simile a un latte bevuto direttamente da un seno nero del cosmo più profondo, il cui maggior nutriente era l’idea che nessun vivo avesse mai pensato una cosa del genere. Spaziotempo irreversibile, già dato, questa era la bodhi di cui avevano parlato alcuni. E il tempo s’allungava, a dismisura separava. Dov’era lui? A seguire due autorità oscure. Erano giunti a poca distanza da una curva, ampia e aperta verso i campi che salivano quasi avessero l’intento di assomigliare alle montagne lontane, facendo loro da preludio. La luna colava un alone perlaceo sulla strada che così biancheggiava, che così serpeggiava attorno a loro, all’erba, ai confini di tutto quel mondo al centro delle sue spire.


Seppe che qualcosa gli sarebbe accaduto, nel buio oltre la soglia ultima della luce lunare innaturalmente concentrata in quel punto, troppo geometrico sul suolo, segnato in linea troppo perfetta. S’arrivava da un’altra parte, in uno spaziotempo diverso. I suoi battiti, il suo affanno, tutto l’affanno ch’era stato da sempre, si concentravano negli ultimi passi di quel transitorio specchio d’ombra attraversato nel rimpianto di lei, la casa, l’albero, gli occhietti gialli degli animali notturni, i suoni acquosi che avrebbe voluto continuassero a seguirlo, almeno per accarezzarlo e sfiorargli le palpebre calanti in un posto dove non sapeva se ci fossero alleati.


-aspettate. Ancora un po’. Non sono pronto. Solo un po’ di tempo.


Uno dopo l’altro, senza smettere di avanzare -ma ebbe l’impressione che impercettibilmente rallentassero- i due ufficiali si voltarono, torcendo d’un giro completo la testa verso di lui. Un puntolino sbiadito, quasi invisibile, apparve nel fondo degli occhi bianchi.


-il tempo è un punto.-, disse il primo. E sorrise, questa volta a bocca chiusa.


Il samurai tremò. C’è qualcosa di peggio in questo sorriso che in quello zannuto.


- there’s nowhere you can be that isn’t where you’re meant to be.-, disse il secondo, dapprima non sorridendo. Poi, come correggendosi frettolosamente, lo ripeté con zanne sfoderate prima di tornare a guardare avanti.


Il samurai s’offese quasi, esibendo così l’ultimo canto d’una sciocca e umanissima indignazione, prima di giungere in territori meno umani. Cos’era quella roba, lingua olandese? Lei probabilmente l’avrebbe saputa parlare, e rispondere, in tanti modi avrebbe saputo rispondere a quelli là.


Rispondevano, come spesso aveva lasciato facessero al posto suo, i geta, a volte in rintocchi dall’aria cocciuta, a volte strascicati quando sotto le suole di legno incontravano irriconoscibili frammenti di varie macerie, foglie diseredate dal mondo delle forme, detriti fruscianti. Lo specchio d’ombra si esauriva, sotto la sagoma di se stesso avanzante, gli occhi alle caviglie infreddolite biancheggianti fuori dallo yukata, per evitare di dire uno squallido addio al mondo. Si rifiutò di contare quei passi. Ogni sottrazione un abisso di terrore. Mai avrebbe pensato che i numeri sarebbero stati l’esercito nemico finale, gli espugnatori della sua fortezza.


-ci siamo allora, eh.-, disse senza accorgersene, quasi afono come qualcuno che stia per salire su un macchinario volante.


-eh.-, gli sembrò rispondesse uno di quelli.


-stiamo per girare, eh.


-eh.-, dissero, e stavolta capì che non l’avevano detto.


-mh?-, esclamò alzando la testa. Vide, nella notte scura, i corpi e le loro sagome accendersi di colore, e impercettibilmente ribollire nei più piccoli pigmenti, trasformandosi in macchie d’inchiostro variopinto investite da una secchiata d’acqua. Il mondo diventava pittura gettata in una pentola di caos, e il samurai capì che fino a quel momento, sin da quando aveva lasciato la casa, e ancor prima, aveva accudito dentro sé un elusivo, quasi del tutto inosservato e nondimeno profondissimo sonno.


-aaah, Obune. È stata quella pipa… la roba che era già nel fornelletto, vero?


Il sonno dentro di lui si comportò come il mondo attorno, e seguendo specularmente le stesse suadenti linee liquide che nella notte traballavano, salì verticalmente dalle punte delle dita dei piedi fino al più sommitale capello dell’acconciatura chonmage. I due ufficiali si voltavano a guardarlo, ripetendo degli “eh?”, “eh?” mai pronunciati. Dovettero sorprendersi in qualche zona recondita delle loro facce impassibili, nel vedere l’uomo barcollante che rideva: dal suo punto di vista, s’erano trasformati in facce stupide di ruminanti curiosi, intenti a fissarlo e sporgere le froge frementi sulla punta dei musi lunghi. E dietro avevano i campi illuminati a giorno, e fiori stilizzati che avevano raggiunto la bodhi dei colori, e il sole tondo e triangolare, e un cielo che non era stato finito di colorare… prima che potesse assaporare il dolore della propria coscienza nel momento in cui fosse stato sul punto di metter piede oltre la soglia dello specchio oscuro, dove incominciava la curva, fu protetto dal sonno. Continuando a camminare, si era addormentato.


Aprì gli occhi su un pomeriggio caldo e torpido.


Era un tempo diverso quello che vedeva, un tempo mai visto. E lo spazio poteva esser lo stesso, poteva esser famigliare, come anche dall’altra parte di un mondo che si scopre improvvisamente vasto e complicato, spalmato come un disomogeneo atollo su una palla assurda di pianeta d’oceano -che importanza poteva avere? Quello era un luogo che soltanto in quel mondo la gente poteva calpestare, raggiungere a piedi. Incamminarsi sulle sue vie del ritorno, perdercisi. Incontrare strane ombre. Eppure sembrava che anche lui fosse un uomo di quel pianeta… era però ancora un ragazzo. Riconosceva se stesso, i suoi lineamenti di allora. Uno yukata uguale. Si vedeva da fuori -dov’era il suo corpo?- come accade in certi sogni, in certe impressioni d’altre vite, era la carpa santa che si vede pescata, nella scena di là da uno schermo acqueo. Sotto le onde trasparenti, lui ragazzo, Obune ragazza, seduti su un engawa.


Su un muricciolo antistante la stretta strisciolina di prato attorno alle fondamenta lignee, in effetti simili alla dimora rurale di Obune, l’edera s’arrampica fino a toccare le zampe di gatti intenti a passeggiare tenendosi in equilibrio, balzare in su e in giù, o riposarsi come fa il più grasso di loro, immobile acciambellato, a prendersi da lassù tutto il sole come un ramarro. Gatti dalle code eccezionalmente lunghe, che sembrano volerli salutare. Sia lui che Obune non si sorprendono, sembrano abituati, non si stupiscono della strada ricoperta da una granula grigiobluastra sinusoidale sulla salitella adornata di siepi e cancelli. Cosa fanno, lui e Obune? Stanno in silenzio, sono come gli innumerevoli, vertiginosi fili sospesi nel cielo tutt’attorno, sopra le case, estesi a dismisura tra un palo di legno e l’altro fino a toccare distantissimi gli edifici che sembrano bastioni di metallo roventi alle pendici della collina. Loro due sono come i fili, qualcosa li flette -i corvi si alzano in volo all’improvviso, causando lo sbalzo- e poi ritornano quieti e immobili, sospesi nelle ore.


Sono come erano stati nei pomeriggi trascorsi, tutti quei momenti uguali, di silenzi lunghi nella reciproca consapevolezza di non aver desideri forti. Solo una casa, un engawa su cui sedersi. Cose non dette. Obune gli ha prestato un libro, foderato alla maniera estera. Riesce però a leggere i caratteri, riconoscendo perfino, stampato sul dorso, il nome di un famoso scienziato dell’era della capitale imperiale -o forse non si scriveva così il nome Abe, ma a ogni modo, quel mondo stravagante pare in certi punti trascurare il suo camuffamento, e rivelarsi somigliante a quello da cui la coscienza è giunta a far da spettatrice.


Immersa tra le vibrazioni omnipervasive del famigliare frastuono di cicale distanti, nascoste forse in quel groviglio misto d’alberi e fili, Obune siede in una delle sue pose scostumate. Una gamba distesa completamente sul bordo dell’engawa, mentre un gomito si ripiega, con l’atteggiamento di un airone che si pulisce le piume, sulla punta dell’altro ginocchio, rivolto alla penombra dentro la stanza. Di fianco a lei un disco nero lucido gira senza sosta a velocità costante, cospargendo nell’aria di cicale una musica di un Magico Giro del Mistero.


-…in realtà….


-mh?-, dice lei, come ridestandosi da un sogno. Sognava campagne incontaminate di racconti nonneschi, nel cui tramonto cominciavano ad accendersi lucciole ed occhi di tanuki.

-scusa…-, arrossisce lui. Il samurai dall’altra parte dello schermo d’acqua, nel nonmondo oltre le increspature, arrossisce vedendosi arrossire, chiedendosi cosa mai stia accadendo là.


-no, macché scusa. È strano che inizi una conversazione così.


Ignora quel commento e dice qualcosa di strano.


-..tu sai. Soltanto i libri, la musica… queste cose. Solo queste mi hanno curato. Per il resto, è difficile.


-mmh…


-ci sono blocchi, nel ricevere altri tipi di cura. Tu capisci, no?


-mah. Sarà.


Tacciono entrambi. Il disco gira lucido e nero nel vuoto del silenzio che per qualche inspiegabile ragione aveva compresso in una zona ariosa cingente i suoi contorni, dove invisibile continua a tessersi -quel silenzio dopo la fine, interrotto da fumosi sussulti, è stato inciso assieme alle note, intenzione degli artisti. Una puntina fluttua senza toccar nulla oltre il margine estremo. Forse anche la loro isola galleggia oltre i confini dell’oceano sferico, estromessi dal pianeta, esiliati nello spaziotempo oltre la soglia di un sole già esploso.


-vado a prenderti quegli altri libri, se vuoi. Poeti, sovversivi, romantici, pazzi, poveracci… approfittane per leggerli intanto che l’università è chiusa.


Annuisce, apparentemente un po’ in soggezione nel mantenere lo sguardo barricato nelle lenti sulle pagine sfogliate senza leggerle. In un angolo di carta stampata, recante strane illustrazioni d’un uomo dentro una scatola, qualcuno aveva tracciato slogan incomprensibili, incitanti una lotta sconosciuta. C’è dunque chi lottava ostinandosi a brandire la spada anche là.


Obune s’era alzata, a piedi scalzi dirigendosi nell’oscurità morbida e sonnacchiosa della stanza spalancata in cui spirava l’aria del pomeriggio. Anche lui s’era voltato, cercando di non far rumore, di non farsi sentire nell’atto di guardare. Vide la sua schiena e i quadri bruni e grigi della gonna di tweed, una di quelle che indossava spesso, immergersi in una calda indistinzione. E gli parve che la penombra dov’era sparita s’amalgamasse agli occhiali.

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