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  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 ott 2021
  • Tempo di lettura: 11 min

Mi viene in mente all’improvviso che sto dirigendomi attraverso le vie, costeggiando le caverne in cui mi ero perso, in una maniera che guida il corpo soltanto attraverso un istinto fortificato dall’abitudine, nient’altro. Non c’era granché di cui stupirsi ma era come se un pesce apprendesse in una boccata d’acqua indigesta tutta la fisica insita nel suo nuoto. Avanzo letargico sul fondale di sampietrini della capitale, ignaro dell’atmosfera sovrastante, distante dalla luce che fluttua irraggiungibile di là dalla superficie e che pure discioglie qualche raggio tra questi fluidi abitati, donando la vista delle cose solitamente chiamate “terrene”. Un novero di queste cose: diaframma spiumato e grumoso di piccione morto, beh, un tempo abitava anfibiamente anche il cielo, ma eccolo qua tra noi; una specie di buccia di pneumatico smangiucchiata? Benissimo, un buon esempio; una cosa che riesce ad assomigliare a entrambe le ultime due cose, direi un ratto schiacciato fino a imparentarlo all’immondizia pelosa e oleosa da cui emerge, distinto per il suo piattume inarrivabile, da cui si getta come un dito accusatore la coda verminosa. Le robe informi si ammassano sotto i contorni di solidità rialzate, le cose alte che riempiono la linea di terra. Tegolato eburneo sulle pareti di un edificio di mura rettilinee, categoriche, affianco s’affacciano membra sporadiche d’un muraglione medievale, s’intervallano tra palazzine e cantieri. Una scritta, facciamo che mi avvicino e la leggo, diamo una lingua a questa terra. C’è scritto: “er biondo tev”, e si interrompe. Si vede anche una strisciata di spray nero che se ne parte dalla base della v, facile immaginarsi una bomboletta trascinata in corsa dalla mano di uno che deve aver sentito un’inaspettata ma validissima ragione per fuggire come meglio riusciva. Peccato, volevo proprio sapere che cosa avrebbe detto circa il biondo Tevere. Non è certo un incipit che si veda spesso sui cementi romani, pur essendo inequivocabilmente romano nell’idioma adottato. Chissà, magari un graffitaro ispirato, finalmente ha fatto calare dentro di sé il verbo che brama, che scalpita di manifestarsi, incorporare lo spirito del tempo e del luogo. E dalla mano di questo anonimo artista maledetto, dileguatosi tra chissà quali gallerie e sottopassaggi, il verbo comincia intanto a rievocare il fiume da cui questo spirito si è disperso, le sue particelle inafferrabili ma onnipresenti, respirate, amalgamate ai sudori. Avrebbe detto che la luce che filtra quaggiù, da chissà quale superficie lassù, è bionda come nel famoso epiteto del fiume? O è proprio la superficie stessa del fiume quella da cui si rifrange e piomba quaggiù, modificata, rarefatta. Quindi, quanti fiumi ci sono? Uno che potrei veder scorrere, girando per la città qui attraversabile, ammesso che esista, e un altro più su impetuoso nel corso che non si può vedere, che ha sommerso tutto in un meandro di storia dimenticato senza lasciar rovine né strascichi sul letto limaccioso? Sì, questa città deve proprio deambulare e respirare in fondo al suo stesso fiume. Così si spiegano i colori di questo mezzogiorno, così si spiega l’ossigeno poco salubre, il sapore tossico che aleggia in gola sfrigolandosi in polverina dalle nuvole schiumose come se… niente, l’ho perso. Anche questa è un’abitudine, e uno soltanto in certi momenti si rende conto del sapore. Comunque sia mi lascio dietro la scritta, perché sono un organismo che procede andando avanti, e che tanto è assuefatto dal ritorno d’una vecchia meta abitudinaria da non fermarsi nemmeno ricevendo l’intensa impressione della nuova consapevolezza di sé che questa ha generato in un istante. Getto uno sguardo laterale nella galleria dalle cui fauci le lettere colano, bavetta sotterranea. È una gola assai lunga e scura, con umidità biancheggianti ammassate in mucchietti che baluginano a tratti nella tenebra (molti liquami imbrattano i luoghi, custodendo odori e bioluminescenze). Dall’estremità opposta, quella vaga luce lontana, proviene un continuo sferragliare, terremotante nel rimbombo di veicoli attraverso il volume dell’apertura. Rabbrividisco temendo un grosso predatore.


La quasi dimestichezza con cui mi lascio trascorrere ai lati delle orecchie alcuni scenari attraversati più volte in giorni vicini, per poi ritrovarmi a un certo punto in un certo edificio come se non fosse trascorso nulla in mezzo dal mio arrivo in stazione, è tanto più sorprendente se penso a quanto è facile che io mi perda. Ingannato dagli intrichi cunicolari e variopinti nel grigiore della Termini sotterranea, i suoi sbocchi al cielo, tra infinite ombre dal passo sicuro che non s’arrestano e scompaiono tra scale mobili, e ricompaiono, e spariscono, e sotto infiniti cartelli di indicazioni ritrosi alla mia lettura -scusate, sono altri i segnali che sto cercando di leggere, ma voi state facendo sicuramente un ottimo lavoro, siete certamente facili da comprendere per tutti gli idioti tranne questo idiota qua. Che, in alternativa, si perde in una via qualsiasi, non appena debba andare da qualche altra parte che non ha mai visto. Si può scomparire tra rivoli di insignificanti viuzze rifluenti di linfe d’edera sui muriccioli, nel cortiletto scosceso e ombreggiato di un palazzone popolare che ti inghiotte, prelevandoti dal marciapiede prima che si intraveda il vicolo cieco e collocandoti la faccia su un ruvido muretto ammaccato da pallonate, impregnato di stufati e fritture olezzanti a quanto pare da tutte le finestre aperte.


Mi chiedo allora dove si possa rispuntare se ci si adegua al trasformismo costante di questo vecchio labirinto di mattoni medievali, tenendo per non perdersi i polpastrelli attaccati a grattugiarsi su quella loro patina nerastra che ne avvolge la scorza ruvida, simile a una fuliggine, un anacronismo tra i molti che proliferano da queste parti. Per la discontinuità della muratura, mezza mangiata e assorbita da varie altre solidità simbionti, forse si sparirebbe a intermittenza, per riaggregarsi sotto una grondaia mai vista, davanti a file sconosciute di edicole piene di vecchie edizioni col prezzo in lire. Una specie di teletrasporto, insomma. Ma bisogna conoscerlo, bisogna avere il movimento ammaestrato ben più di questo mio che adesso si crede autocosciente, bisogna vivere qui ogni giorno. Non dentro una casa -quelli non sono veri abitanti-, ma tra le mura spoglie. Conoscerle, saperle distinguere l’una dall’altra, fin nella più invisibile ditata, cogliere i segni olfattivi del passaggio altrui. Sotto i finestroni di un altro edificio bianco non identificato, ma che io identifico tra i paesaggi soliti (che inconsciamente mi dicono “va tutto bene finché mi vedi” così da permettermi di andare avanti senza troppa concentrazione), è gettato nel vuoto un volo di gabbiano, dorso delle ali grigio cemento, ossuto e appuntito. In un attimo è scomparso, fantasma di pareti e tessuto urbano, in un angolo in fondo, dove la strada trafficata rigetta incessantemente bestie a motore che riprendono la luce da altre gallerie. Lì è molto pericoloso e mi distanzio automaticamente.


C’è una linea invisibile e insieme nettissima, se ne percepiscono svariate così sui fondali e negli altri luoghi soggetti al rimodellamento di migrazioni invisibili -come dicevo, molte delle cose che passano si dileguano subito. Questa linea fende un’ombra magra, si forma sotto le zampe numerose d’un lembo accasciato di mura, pieno d’archi. Un altro arco s’affaccia più in là: è una zona di passaggi, ci sono i sampietrini di una parte e i sampietrini dell’altra.


Non è proprio una soglia in grado di proiettare al di fuori di questo mondo. Se si è pesci ossei sommersi da un’acqua impercettibile, figli d’un elemento o un dio che mai ci si manifesterà pienamente, non è oltrepassando un arco sormontato da intonaco colonnato, scolpito in vestali e leoncini, che ci si ritroverà in quell’ipotetica superficie, un’altra esistenza (si può chiamare come si vuole, paradiso, terra pura, valli del subconscio, giardino segreto. Credo sia un regno solare, ma nel crederlo assumo l’aspetto dei miei errori e limiti essendo così palesemente un essere ancora influenzato dal persistente meteo odierno). Però è da queste parti, passando oltre e costeggiando l’inferriata e il lungo e fosco parcheggio, che cominciano a vedersi in gran quantità quei vagabondi o le loro tracce. Loro sono tra quelli che dicevo, che meglio conoscono i movimenti tra gli angoli che quaggiù si formano tra le cose. Esistono strade orizzontali, esistono mura verticali, esistono gli interstizi tra esse e allora qualcosa popolerà multiforme l’ombra tra quegli interstizi; esistono curve di percorsi e frastagliature di aperture cavernose, tombini scarichi tunnel, fronde d’alberi, sterpi di parchi che conducono ad altri cementi e altri vegetali e altri passaggi nascosti… anche a pensarli è facile perdersi. Ma porto la netta sensazione che tutto questo sia vivo, e che per certi viventi sia possibile sincronizzare a questa vita implicita le proprie pulsazioni.


Sono vicino a una di queste tende. Non c’era, tempo fa. In effetti è passato un po’ di tempo da quando l’abitudine o il dovere o il piacere o comunque lo si chiami mi aveva condotto qui. Alcuni dei clochard hanno nel frattempo abitato in maniera diversa. Calpesto spoglie di un plaid impolverato, attorcigliato più volte su se stesso, abbandonato in brandelli tra untuosità di marciapiede come una crisalide gettata dopo notti insonni, nel cui vano tentativo di dormire la si è rigirata fino a sfaldarne la sfoglia viva. Più in là, sotto la linea d’ombra tra i pilastri del parcheggio, là oltre i musi delle macchine allineate dove non ci si avventura, sono le unghie, la pelle morta, gli escrementi, e qualche oggetto dei più svariati. Mi sembra di vedere un rasoio con le lame scrostate, affiora da un tombino, senatuspopolusqueromanus. L’urina riempie la città uniformemente, così non fanno odore le cose imbrattate di tocchi e usura in angoli sporchi, se ne sente solo il tintinnio, e un altro metallico, e un cozzo d’unghiette su un palo: una cornacchia plana posandosi proprio sulla tenda. Non ci credo, è la stessa cornacchia che proprio qua avevo incontrato l’anno scorso! Sono contento di vederla così in salute. Inconfondibile, con la testa spiumata, una gorgiera di penne nere rivoltate attorno alla base del collo. Quando giunge a becchettare i rimasugli della giornata ricorda un uccello spazzino che a ogni tramonto cala su una riva palustre indiana, tra masse sovraffollate di schiene di bestie raminghe straripanti di batteri da fauci e scabbie, in cerca di ghiottonerie tra inesauribili rifiuti. Manda una scintilla dagli occhi, biglie azzurre per un solo istante.


La tenda è montata non vicino al viale alberato ma proprio sotto l’arco principale, dove solitamente si tagliavano i capelli -infatti eccone una palla sfibrata che rotola. La tenda sembra robusta, incagliata in una specie di base lignea rialzata che assomiglia a un cassettone. È anche ricoperto d’un telo blu, che fa come da moquette.


-è vero, si sta bene.-, dice un vagabondo dai dread argentei e gli occhi blu immobili -certe volte tira vento forte ma la tenda non schioda. Certe botte fanno credere che se ne vola, e ti senti tutte le pareti, chiamiamole così, che ti sbattono addosso, parono cavalloni di mare quando si flette il tessuto. Poi lo tocchi ed è freddo, gelido, umido, e allora è spiacevole per quello, perché il vento non è che non lo senti. Ma il tetto sopra, no, mica se ne va.


-bene, ma come avete fatto a procurarvela?-, chiedo a lui, portavoce di altre tre o quattro anime, o forse immagino di chiedere, immagino di parlare una lingua comune. Addentrandomici avrò l’illusione di comprendere, respirarlo dentro i polmoni o branchie, questo organismo macrocosmico che contiene tutti gli altri. Non è romanesco, non è italiano, ma deve essere per forza entrambi, essendo questo il suo suolo. Abbiamo risvegliato un idioma dai sotterranei? A volte traiettorie di sabbioni smossi sul fondo influenzano le increspature delle correnti lassù.


-ah, ho cominciato un lavoro alla giornata. Ci concede almeno una focaccia al giorno. Non stupirti se vedi qualche crosta in giro.


-perché, non vi piacciono quelle?


Fa una risata da fumatore incallito, si sprigiona una nuvoletta bianca dai denti. Devono crearsi delle cappe notevoli là sotto, penso.


-non sappiamo nemmeno che vuol dire. No, a volte cadono, semplicemente, o ci vengono rubate. Sai, i gabbiani e i piccioni.


-ah, certo. E la cornacchia?


-quella di prima? No con quella mangiamo insieme, pure dalle mani nostre. Ci porta fortuna.


-eh sì, è brava lei.- la cornacchia gracchia, fa di nuovo quella cosa con gli occhi, e se ne vola via lasciando due penne caudali seghettate. -E insomma ora avete anche una tenda?


-sì, a forza di andare in giro ogni notte. Sono cantieri diversi, si capisce. Io vedo tutti i quartieri e le borgate, vedo tutto. Pianto una specie di trapano a terra e qualche giorno dopo ho questa casa, come se fosse una cosa logica. Non c’è tutto, ma c’è quasi tutto.


-un trapano?-, chiedo o immagino di chiedere in un istinto che si è partorito da solo, senza sapere come mai mi interessi un dettaglio del genere.


-sì, un arnese a cui faccio fare per tutta la notte un fracasso infernale. Questa città ve la squarcio! Sì, mi dicono gli altri operai e i responsabili e i geometri e compagnia, c’è bisogno di rinnovare, è così che si fa nelle grandi metropoli. Il problema è che questa città, si sa, dove la vai a trapanare escono fuori pietre, facce scolpite, soldi antichi, pure sarcofaghi. Così a forza di rinnovare te la ritrovi para para com’era mille anni fa. È così che va!


Visiono una nuova scritta su muro. Ecco perché avevo fatto quella strana domanda, intuendo il nascondiglio di un presagio. Devo aver spalancato gli occhi inavvertitamente, come mi capita in questi casi. Si udiva, nitido nell’indefinitezza di tutte le cose non ancora accadute, anche un canto, come un coro. Tra il traffico roboante di clangori e rotazioni, asfalto digrignato, le voci cantilenano ciò che è inciso nella pelle stessa della città. Il graffito recita: trapanate il presente, o in un’altra versione, trapanate Roma. E un sottotitolo, in altri punti della città dove è comparso questo slogan, marchiato in nero o in rosso di sangue, stampato su volantini stracciati di San Lorenzo, tradotto in latino o in schiuma orrenda del lungofiume, aggiunge: futuro e passato uguali, boicotta il presente. Non è chiaro che cosa significhi e che conseguenze comporti, ma proprio per questo la sua persuasione si fa più forte, è un mantra. Presenze indefinibili agitano pugni potenziali, sillabano questa esortazione e fanno risuonare il muro sonoro di casse ritornate dalla subcultura Hip Hop degli anni 90, la scena Punk Oi locale, la rabbia verbale o fisica che infrange le vetrate che scorre come sangue di una sola famiglia tra i vari gridi echeggiati nei diversi decenni. Questo è il visibile e udibile della scena e il suo eco, lo sento già, dalle mie orecchie s’è lanciato invisibile nell’atmosfera intorno a me, è andato a correre per le quattro direzioni di questi sette colli, di questo fiume sporco. Anche l’occhio vitreo del vagabondo lo coglie, anzi lo vede come può vedere una sua mano -vede forse tante cose incorporee nei suoi giri e nulla al mondo lo fa sussultare. Torna a guardarmi e mi schiocca le dita impolverate davanti alla faccia.


-ao hai capito? Io trivello la città!


-e certo che ho capito! Comunque state bene sì?- mi chiedo se sono goffo come nella lingua normale, chiamiamola così. Forse è la natura di questa nuova comunicazione a suonare strana di per sé e non ho motivo di starmene a preoccupare come nelle altre forme di interazione.


-sì sì stiamo bene, dicevo, non c’è tutto, ma ci sono sfizi. Ci beviamo birre buone allineate sul pavimento della casetta nostra, ogni tanto mi porto un arnese dai cantieri, facciamo collezione. Poi ai negozietti si possono prendere robe interessanti a pochi spicci. Mi metto pure a leggere! A un’edicoletta di quelle ho preso un Proust. Lo leggo quando ho tanto tempo.


(e questa cosa dovrebbe farmi rendere conto di essere caduto in una fossa d’assurdo? Non c’è proprio niente di strano, invece, in un vagabondo del tempo perduto)-, penso, e allora rispondo secondo le cortesie dovute in questa nostra immaginaria conversazione.


-tosto eh? Io ci ho provato una volta ma non ce l’ho fatta.


-sì, immagino.- si gratta come annoiato alla barba, reso noncurante dalla distrazione d’un altro gabbiano che disegna un sopracciglio sorvolando il suo territorio. -sì, voi che passate di qua e non ci rimanete siete in effetti di quelli che cominciano a ciancicare le focacce e non le finiscono, buttano le croste.


Guardo anch’io un po’ qua e là. Non si sono trovati una brutta zona, certo un po’ pericolosa per il traffico.


-però se devo dire…-, riprende lui spiluccandosi il naso, cosa che imito come per riflesso -è proprio brutto non avere un cesso. Passi pure che la tempesta un giorno ce la faccia veramente a rovesciarmi il tetto sopra la testa, ma questa è la cosa peggiore.


-eh, quanto ti capisco…


-perché, neanche tu hai un cesso?- sbotta come se per la prima volta qualcosa lo sorprendesse.


-no no io ce l’ho, dico solo che nella stessa situazione sarebbe anche per me la cosa peggiore in assoluto.


-però ce l’hai, vero?


-beh, sì…


-infatti.


Annuisce, dà fremiti rumorosi di narici. Non sembra particolarmente infastidito, non sembra niente. Oltre la cupola di quegli opali di pupilla la luce lì incagliata non restituisce forme, non lascia passare nel condotto comunicante con l’esterno le forme più pure del linguaggio che gli si fabbrica dentro, l’interno della testa irsuta di riflessi argentati. Per un po’ restiamo senza dir niente e a un certo punto ce ne andiamo. Passa del tempo e non ricordo più bene come ci siamo separati, tornando ognuno alla propria strada o dimora.


Evidentemente situazioni imbarazzanti di questo tipo si possono creare in qualsiasi tipo di conversazione da queste parti, sott’acqua o fuori, in una città che esiste oppure no. Anche se dovesse incorporarsi in essa “il verbo”, o un nuovo graffito che la sveli intera.


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