24 occhi
- Milky
- 25 mar 2022
- Tempo di lettura: 17 min
(Non dovresti aver paura, conosci già questo posto. Non dovresti aver paura, perché lo hai già rivisto nel tuo sogno, e di quel sogno hai scritto. Scrivendolo, lo hai visto prender forma davanti a te: hai visto il ghiaccio arrampicarsi sulle dita del ramo, l’hai visto crepitare e nel fascino del suo volto rifulgente, nella sua orgia di misteriosi riflessi, si è fatto meno doloroso il dolore che causa. Sei già stato qui, hai fatto le riflessioni che andavano fatte. Sei grande, conosci la morte di tutte le cose e i rischi dell’avvicinarsi a essa. E allora perché piangi? Perché hai paura e hai un cuore piccolo? Ti vedo quando vai, nell’asfalto che attraversa tutto il cimitero, tombe alla sinistra e tombe alla destra. Alcune sembrano città. C’è un conglomerato che sembra un tempio, un enorme tempio del pomeriggio, d’argilla marrone, scimmie silenziose che non si vedono stanno a prendere il sole sulle loro pareti bucate come arnie di sabbia. Ogni buco un volto, una fotografia, qualcosa che fa da emissario di una forma disintegrata. Ti vedo andare in tutto questo, sento il suono che senti quando i rami della vegetazione ti soffiano accanto, e ti volti di scatto, qualche volta, e qualche altra volta non senti invece niente, immerso in una musica che suoni per te stesso nelle stanze private. Perché piangi, perché hai paura?)
Questo diceva una voce, simile a gesso bianco. Colava nel nero semitrasparente d’una tavola mentale che mi portavo dietro, lasciavo che sulla sua superficie comparissero, una dopo l’altra, cose sentite, cose solo immaginate, voci, voci a non finire. Troppo tempo avevo passato ascoltando sempre più voci, vicine a me, dentro di me come intruse.
Questo diceva una voce. Si silenziò, per un po’, come tutte le altre.
Non avrei dovuto piangere, o sentirmi in quel modo. Mah, c’è anche chi pensa così. E anche tra tutti i morti del cimitero ce n’era qualcuno che avrebbe pensato così. Gente di epoche spietate, tutte le epoche prima di me, e spietati gli umani loro figli. Ma dentro le scatole, con i corpi sbriciolati, i corpi neri, con l’irriconoscibilità e l’anonimato eterno, stanno anche tutti i difetti, le contraddizioni, le debolezze, le nefandezze. Nel miscuglio generale dei cumuli inerti di roba, sembrano tanto più dolci, tanti piccoli batuffoli d’esasperante limitatezza che si ha voglia di carezzare con una mano, invece di stracciarli come si vorrebbe fare di solito. Ma questi morti, così scomposti dietro i falsi specchi e le linee opache e bianconere dei loro volti incastonate nelle lapidi, non si fanno capire: da una parte rigettano, esiliano il corpo che va per le loro città respirando senza vergogna, a ogni respiro si sdegnano; da un’altra parte, sono indifferenti; e da un’altra parte ancora, attraggono: questo corpo lo vogliono prendere con sé.
E io, dice la voce, dovrei conoscere già il rischio di avvicinarmi alla morte di tutte le cose. Conosco il mito della caduta, quella che dilaniava allo stesso modo il prode re e la fanciulla in amore, il primo lutto che trascinò nell’abisso il primo qualcuno, mostrando alle storie del mondo la possibilità del precipizio. E mostrarono ciò che accade a uno di questi corpi vivi, sempre tesi sull’impercettibile flebile velo sospeso sul contrario di tutto quanto conoscono, ciò che accade a corpi così, e così fragili, quando si sgretolano e si avvicinano al loro unico destino. E accasciandosi, con gli sguardi rivolti vacuamente ai palmi inerti delle mani ormai vuote, per sempre separate da scapole che non più possono accarezzare, sembrano rimpicciolirsi nella propria ombra. Mentre i raggi solari s’inclinano prima di sparire passando per gli spiragli aperti dell’ampia sala del palazzo, della stretta soffitta della fattoria. La polvere, lieve nelle sue danze aeree, accarezza coloro che si macerano, si guardano le dita dentro le mani, per ore, indifferenti ai raggi, al crepuscolo, al buio che li avvolge, che come una foresta notturna si riempie di sguardi -quelli che passano e rimangono in apprensione, impotenti, in una nicchia del vicino corridoio, e vedono per la prima volta dalla distanza che nell’informe essere chiamato “il prossimo tuo” può esistere una caduta, e ne temono il contagio. In questo male, vedono, i comportamenti sempre più assomigliano a ciò che riempie le fosse: si scompongono su se stessi, cadono, si sfaldano in mille residui di ragnatele abbandonate, capitombolano in chicchi d’impatto attutito come il terriccio, scoloriscono similmente ai gusci delle ossa, e infine possono sparpagliarsi in uno scatto scoordinato di minuscole larve. Nemmeno in queste antiche storie, i saggi e i dottori, e quelli che erano stati interrogati, condotti presso il luogo dei doloranti, avevano saputo dire, formulare: si conobbe la raggelante mutezza della scienza e della fede. Non seppero dire se quelle larve, allontanatesi tra i flutti umidi e granulosi degli oceani di sottosuolo, sarebbero un giorno fuoriuscite coi cervelli bianchi palpitanti da piccoli fori del suolo piovano, per arrancare sulla rugiada, evolversi nel percorso, infine far sgusciare dai carnosi dorsi scintillanti ali di smeraldino lepidottero. E chi sognava d’averle viste far questo, rimaneva con un dubbio, un dubbio che indugia simile a un ultimo bagliore del tramonto, contorniato da cerchi volanti di lontani falchi. Il dubbio dirigeva lo sguardo, in un vago nulla al di sopra degli occhi, in un punto indefinito dell’aria che sembra caricarsi d’inspiegabile energia: e gli occhi si chiedevano: e dove sono volate, quelle cose che un tempo erano larve?
Dove vanno gli ultimi pensieri di quelli consumati dal lutto?
Sapevo tutto questo, sapevo l’assenza di risposte. Sapere non è vivere. Queste parole cigolarono in graffi sulla lavagna vitrea.
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Chiamano a sé: mi ero avvicinato a una lapide parietale, una lastra di una lunga fila di caduti posta a dentatura di un costone di bassa roccia ramata -nello sforzo del mostrarsi ancora con un nome, pur nella morte, ripercorrevano a bracciate i picchi scalati nelle loro guerre di montagna. Così le steli commemorative si mantenevano salde alla ruvidità della roccia parente degli impervi crepacci della battaglia, per il volere dei comandanti che avevano progettato il cimitero in modo che il gioco della gloria sopravvivesse a tutti i suoi giocatori, i suoi sconfitti. Frasi elogiavano il compimento del volere, incise e metallizzate. Artigli d’aquile di ferro incastonavano gli ovali vitrei con i volti di quelli rimasti dispersi, a significare che quella vera sembianza non era mai stata lì, e se qualcosa l’aveva mai custodita, erano grinfie d’uccelli, di custodi e guardiani che dal volo osservano la landa e la sua desolazione e la desolazione delle cose che vi si perdono; membra custodite da artigli di divinità della montagna e del mare. Mandai un saluto, a coloro che hanno fatto la guerra che odio, agli uccelli lì rappresentati, all’inevitabile strazio che a loro volta rappresentano e che odio. Una voce si sporge accanto a me -per costituzione la direi dell’altezza d’un bambino, velenosa e pungente come un’ignota specie di quel cardo selvatico che si vede dipinto, con violacei riflessi di minaccia, nella scena di Caino lì esposta sopra le tombe porticate, che torno sempre a guardare, sedotto dal destino selvaggio lì racchiuso. Sento la possibilità del contatto spinoso, tossine selvatiche dentro le sillabe. Sento che è questo il suo aspetto di folletto ma non mi volto a vederlo, anzi voglio scacciarlo. Faccio in tempo a sentirlo, ma il mio sguardo rimane alle lapidi, senza vederle.
“odio? Perché sei pieno d’odio? Odi la morte, odi la vita? Odi il dolore, come uno schifoso mangiatore, respiratore, camminatore? Non ti vergogni di esser queste cose in questo luogo? E provare odio! Non devi provare odio, ingrato, per le cose del mondo così come sono, che non puoi cambiarle!”
Poteva anche andarsene, gettarsi da un precipizio, per quanto mi riguardava: se avessi amato, invece che odiare, sarei stato ugualmente attaccato, qui tra le tombe. Mi avrebbe criticato comunque, e allora questo è solo un posto in cui non dovrei stare. Ho l’impressione che qualcosa sibili, forse un risucchio, un fischio esultante dalla sua bocca che non voglio immaginare. Nel mio rifiuto di sottomettermi al suo inganno ha colto una prova d’una mia pulsione di morte -si tratta d’un tipo di essere ossessionato dalle prove, dalle contraddizioni dei vivi. Cerco di ignorare, cerco di tornare a vedere ciò che effettivamente ho davanti. Lascio che il molle e trascurato connubio dei sensi torni a riempire la percezione visiva di alcune sagome, colori. Ecco che vedo, leggo, con attenzione: porte di dimore di morti, del posto loro, in cui non dovrei stare.
Ma alcuni di loro mi vogliono a loro: chiamano a sé: mi ero avvicinato a una lapide, di quelle parietali, a una in particolare. Mi chiamava, perché era il 24/03, e lui era morto il 24/03. E aveva 24 anni, nel ‘43. Ma era nato nel ‘19, oppure nel ‘18, come me che sono del ‘97? Eri come me un dicembrino, scuro di pelle, mezzosangue di meridione e arretratezza, lunghi silenzi e sudori, melanconico collerico? Non mi sto identificando, non c’è pericolo, siamo diversi -tu morto, io vivo, io morto di spirito, tu di corpo, io in camicia, tu in divisa, io ho sempre freddo ma cerco il calore, tu conosci solo il freddo. Ma devo sapere. Devo sapere se mi hai chiamato davvero, o se è stato un barbaglio, in questo luogo d’inganni della luce, lungo le superfici della vegetazione, lungo le strisce d’appiccicosa polvere stratificata sui petali delle poche rose di plastica e cartaccia bianca che adornano queste tombe d’una guerra scomparsa pure dai ricordi. Una mano passò un giorno a deporle tutte qui, per un’ultima volta, perché non sarebbero deperite, e nessuno avrebbe dovuto sostituirle. Custodi della memoria più ultima di tutte, nessuno sarebbe giunto a porgere nuovi fiori, imperituri oppure irrimediabilmente caduchi, a volte coi petali esterni svogliatamente becchettati da una cornacchia.
E così ce li siamo sistemati questi morti della grande guerra! Una finta rosa bianca a ciascuno, ben infilzata nel gancio di rame appeso. Nemmeno il vento le stacca dal buchetto.
I baffi del volto suo mi scrutano, fanno un cenno ai miei, che sono solo uno dei tanti possibili vivi -intrusi!- in questa terra di questo giorno. Nella città, sconfinata, abitano e abiteranno altri ventiquattrenni, altri morti il 24/3, accalcati su una roccia, dentro un dente d’avorio bianco. State bene nei vostri nuovi grembi? E il dolore di quei vostri cari ormai scomparsi, dimenticati come voi e più di voi, riuscì a compiere la metamorfosi? Le larve del dolore con le carni fatte d’avorio, schiuse in questa materia a immagine delle vostre lapidi, riuscirono poi a sgusciare ali d’avorio, ali elefantiache che le portassero a fluttuare sui venti, verso un rimedio che forse giace al di là del sole e che nessuno ha mai visto?
Vorrei che qui comparisse la madre della bambina, morta prima di compiere quattro anni, di cui ho letto il nome sulla tomba nelle stesse letterine che erano state attaccate alla porta della sua camera. Trafiggendomi dalla distanza con brividi strani. Letterine sottoforma di clown contorsionisti, amici del sonno, unità minime d’un linguaggio di sogni in pochi colori, codice d’un mondo segreto d’infanzia.
Vorrei che qui comparisse la madre che ha raccolto i frammenti di quel linguaggio e li ha riposizionati qui, a formare il nome sotto il sole, sotto le ombre passanti di cornacchie e parrocchetti: V______, tu sei qui, tu dormi qui, e possano piangerti quelli che a ventiepassaanni non sanno ancora affrontare il mondo, vedendoti qui, senza averti mai vista né sentita. Possano illudersi di sentire un’imitazione lontana di qualcosa che solo lontanamente ricorda quello che ho avuto nel petto, nel ventre depredato da una mano di ghiaccio nero inconoscibile per tutti gli altri. E possano, passata quest’illusione, rimpicciolirsi nel rimorso per averlo pensato, come una nuova specie di deboli alghe di terra che si intirizziscono sotto il veloce passaggio di un’improvvisa pioggia gelida. E possa io perdonarli mentre ascolto le gocce picchiettare su ogni singolo tondo di ghiaia bianca, ogni singolo uovo da cui non si schiuderà alcuna nascita, senza ch’io batta le palpebre, senza che l’umidità mi turbi quando penetra attraverso i capelli appiccicati al volto e cerca d’insinuarsi attraverso la pelle e il cranio e l’anima, illusa di portarmi dolore o minaccia di malattia.
Vorrei che qui comparisse la madre che così dice, in un silenzio che ascolto sottoforma di lontano bisbiglio nascosto tra mausolei e fronde, e mi perdonasse, e mi spiegasse una volta per tutte se quel rimedio che giace al di là del sole -dove forse saranno andati i dolori sprigionati dalla caduta del giovane morto oggi?- esiste, se è mai esistito o mai esisterà, se da qualche parte se ne vanno queste larve trasformate, a incontrare la loro ultima scena. Scena di falene, scena di dita che raggiungono l’immenso anelato in vita dentro i lumi, dita che toccano la sorgente di tutta la luce. No, non può esistere. Sono io a dirmelo e rifiutarlo: vorrebbe dire, allora, che una volta che quei dolori trovano la liberazione, tutti quelli rimasti indietro e che ne erano stati l’origine si cancellano, dimenticati per sempre, e che…………?
Vorrebbe dire che dobbiamo vivere.
Si squarcia, debole -eppure lo sento, come se fosse intenso e vicino nei suoi giorni di gloria-, un terremoto sotterraneo, in quella parte di tombe simili ad arnie che formano il tempio solare, dove siedono le scimmie di invisibile bagliore, a osservare il trascorrere delle stagioni subcontinentali. Si apre la terra, alla rivelazione inaccettabile: dovete vivere. Dovete andarvene per sempre, voi vivi, da questi posti, e dovete lasciare che a custodire il tempio ci rimangano solo quegli esseri che hanno il dharma di proteggerlo (scimmie dell’India, rapaci delle Alpi, fiori della plastica e della carta stracciate e abbandonate a galleggiare nel cosmo…). Non è posto per voi, non è posto per farvi chiamare dagli abitanti della città.
Non devo restare, mi dice il piccolo terremoto, il presagio dei millenni antichi in una terra di padri di padri di padri morti, convinti che non sarebbero morti, ficcandosi nel grembo androgino d’un padre celeste. E invece. E invece non c’è strada verso i mondi di là dal sole nemmeno per il dolore, così piccolo, che proviamo noi, così piccoli. Assomigliamo alle rose false del nostro tempo, eccoci qua. Sfrego un polpastrello sulla corolla che sfiora il mento pizzettato di un ufficiale ventiduenne, morto in Libia. Ritrovo i solchi nelle impronte digitali impollinati di decaduta maceria, polvere marroncina e giallastra, nidi di microscopici ragni. Sfrego di nuovo, e la sporcizia accumulata cade, mi sfugge.
.
Volto ancora, verso il volto che chiama. Perché chiami se non devo restare qui? Mi sto avvicinando, mi sto avvicinando a voi. I miei atteggiamenti si fanno simili alle cose che riempiono le vostre dimore. I miei atteggiamenti si scompongono, e vanno a rintanarsi, tra tempeste di sibili di bisce, nel buco umido nuovo che si scava da solo per loro, come vivo, e subito morto. Per sempre recluso, niente luce. Un’ombra d’un mio simile, senza morti intorno, ma col cuore pieno della realtà dei morti, di cui ha appreso quando non era pronto, un’ombra di uno così si proietta vaga in una scena che immagino: è inginocchiato, inerte, su un pavimento, un salone d’un palazzo reale o la soffitta di una fattoria, e non gli importa della luce che cala, del bellissimo tramonto che lo sfiora, perché non vede più niente, e si sta affossando, si sta rimpicciolendo, si contrae su se stesso e culminerà in un fondo, che ancora non ha visto, che è dentro di sé e sotto di sé, ma in cui certamente finirà…
Questi numeri 24, ma insomma! Mi deride il volto, schernisce anche la figura mia, un vivo a caso di quelli che passano e si accorgono del numero e interpretano i segni, schernisce la figura magra del mondo che verrà -loro chiamavano così il mondo di oggi, nel mondo loro virile, rimasto grigio opaco o marroncino dietro un minuscolo, fragilissimo vetro, per sempre immobile. Basterebbe un tocco per infrangere il loro mondo di bugie, bastano parole per infrangere il mio. Avrebbero schernito la mia debolezza, il mio pianto per loro. L’unico pianto per loro che avrebbero accettato era quello della patria, ma le patrie non hanno lacrime, non hanno dolore. Solo il silenzio li ha accolti quando i loro corpi, o i loro semplici ricordi portati a sostituto d’ossa ingoiate nell’ignoto destino dello smarrimento, furono trasportati qui. Un silenzio meno silenzio, che pur piagnucola flebilmente, patetico, viene a fargli visita oggi. Non sarei stato in grado di far niente. Non sarei morto “compiendo il mio dovere”, come hanno scritto di ognuno di voi. E voi non dovreste avere la sfortuna di venir pianti proprio da uno così, che odia il nome del destino che avete avuto, del dovere che avete fatto. Vorrei poter colpire ogni singolo vetro di questi, e infondere in ogni colpo l’insensatezza che sento. I frammenti sbriciolarli nelle mani fino a farle sanguinare, l’unico che verso.
La voce di folletto, lacerante per le carni che si apprestano ad attraversare in solitudine la piana impervia in cui cresce, mi ammonisce, mostra la mia pulsione di dolore, quello che mi fa dolere. Crede di potermi affliggere mostrando l’ipocrisia. Vorrei potergli rispondere senza turbamento, con lo stesso volto di quel sussurro di madre che ho udito. Avevo immaginato un volto ormai sereno, impossibilitato a provare qualcosa di peggio, dilaniato però internamente da una forza incessante che non si può percepire.
Il giovane ventiquattrenne lo immagino a sbuffare una mezza risata, con una certa irritazione, per quell’incerto istante in cui ho forse creduto di poter essere simile a lui. Che importa se siamo dicembrini, se siamo 24, se oggi è 24. Tu non dovresti essere qui, dice. Ma già che ci sei, vieni un po’, vieni un po’… ascolto il richiamo e forse sto già entrando in quel mondo dove non c’è rimedio, lasciarsi sopraffare, non avercela fatta, debolezza.
Ma sto già raccogliendo impressioni, mi fanno tornare indietro. I sussurri di cose nascoste tra i rami dei cipressi, mi sembra che parlino. I bagliori attraverso i quali sono già passato, e le ombre che rinfrescano, che portano balsamo alle orecchie sempre accaldate per la vergogna di stare al mondo. E gli uccelli, bellissimi uccelli, il grido del parrocchetto lassù, è vivo, e non lo è in modo sgradevole, sebbene io sappia. Il gabbiano col petto gonfio di prepotenza, le cornacchie sagge anziane con barbe d’inchiostro, i merli col manto bagnato d’ombra. E un’altra delle città del cimitero, una scena di perfetta geometria: quell’edificio di tombe sembra un grande palazzo che se ne sta in fondo al suo giardino, cipressi e pini disposti simmetricamente ai suoi lati, e al centro della linea orizzontale, e al centro anche del giardino, una vasca, con un rubinetto: un signore, uno dei vivi, corpulento in maglietta blu, viene a riempire una tanica, proprio al centro. Osservo come se fossi interessato all’immagine e alla sua fotografia, come se non volessi rammaricarmi fino alla fine dei giorni del fatto che me la dimenticherò, come se volessi sentire ancora i canti degli uccelli e i fruscii tra i rami. Come se volessi vivere. Senza ascoltare l’invito delle lastre d’avorio.
Non esiste il posto di là del sole dove convergono, sì insomma, quelle cose che volano… molte cose volano da queste parti. Voleranno i petali di carta, i gambi di plastica, e soprattutto quelli di linfa e vera carne verde nata dalla terra. Teste gialle di fiori, le ho immaginate sballottarsi decapitate fuori dall’incarto di un bouquet di frusciante alluminio. Con estrema facilità si aprono i petali, si disintegrano. Non esiste il posto in cui si uniscano alla scia anche i loro profumi presto inesistenti. Esiste però un mondo diverso da quello di questi morti. In cui a ogni respiro, corrisponderà una voce, la voce critica che invade le lastre del pensiero, le graffia, con dita di spine selvatiche, intenzioni di piccoli demoni dentro le teste (mai viste, distolto lo sguardo per non impazzire) avvolte dal crine irsuto. Esiste che a ogni respiro oltre a voci di questo tipo corrisponde qualcos’altro, un’inspiegabile maledetta cosa che qualcuno ha ficcato in me, forse commettendo la nefandezza di farmi sentire una specie di amore per un istante, una cosa che fa sì che i respiri s’incatenino insieme in fila, e m’incatenino, nella loro volontà inestinguibile di non cessare. Questa roba, è colpa sua se non ho fatto un certo passo, se non mi sono sporto con la mano a toccare la lastra d’avorio dov’era il volto del giovane morto, e tirarla a me, e scoprire come una porta un buco nero e polveroso al cui interno di macerie e ragnatele decomposte qualcosa continuava a chiamarmi dicendo…………………
I respiri, stupido istinto di vivere, li vedo con l’occhio interno che palpitano nella pelle molle. Ballonzola tutta, gelatina d’addome, per i passi che continuano, peggio di un bocciolo che esplode di succo. I respiri mi hanno portato fuori di lì. Ho obbedito nonostante non sappia ancora giustificare l’autoconservazione, e ho provato rammarico per questa cedevolezza e ipocrisia. Anche il rammarico è effimero, perché la mente è distratta dal ricordo -fintantoché che continua a galleggiare- di uno scorcio, un pezzo del percorso dove le tombe di guerra si aprivano in una scalinata discendente verso il confine tra il cimitero e una tangenziale. L’ombra dei cipressi alti sui gradini era verde, c’erano uova di prossime cicale al suo interno. Veicoli senza senso sfrecciavano uno dopo l’altro in sospensione sulla città immensa di fili e cartelloni e sparpagliati arbusti con la stessa inutilità dei pensieri che non rimangono, ed ero stato un’ora a osservare rannicchiato.
I respiri che mi portavano via dai morti mi volevano far ricordare, chissà perché, quel momento di poco prima.
…
Quando me ne andavo, credevo di immaginare.
Credo di immaginare lei che si avvicina alla tomba di sua figlia come se stesse innaffiando le piante al davanzale di casa. Una fascia morbida e bianca d’un materiale simile a seta forma un triangolo dalla base del mento alla falda rigida del cappello di paglia, la ripara, fa un’ombra gentile sul volto. Innaffia le sue piante, è una signora che governa l’acqua. Viene qui camminando nella primavera, e sui suoi vestiti ariosi variopinti di frutta sembrano essersi impregnati un odore di apicoltura e vento, e una fragranza simile a crema solare che prelude l’estate ancora lontana.
-perché sorridi, spettro di una persona vivente? Sai, io guardando tutto questo, non ci posso credere a quella bugia che dicono.
Tutto questo cosa, ribatte lei, e offre un fascio di corti rami recisi al volto ridente della figlia, cristallizzato così. Sono rami verdi che s’incrociano tra loro, dentro la presa delle sue dita, aste estratte da un suolo che sembra toccare ogni giorno, con abitudine, amicizia: è un bestione umido e marrone che reagisce ai suoi massaggi mandando soffi odorosi di rugiada, è il suo animale domestico, e me la immagino su una balconata di casa. Tutto questo cosa, chiede, perché ormai non c’è niente di diverso, niente che si stagli all’interno del suo giorno. Ci sono solo i giorni così lontani da quelli dell’assenza, della disintegrazione sentita esplodere dentro subito dopo l’incidente e per secoli e millenni dopo questo. È forse lei un esemplare che è riuscito…..? Che abbia visto, anche solo da lontano e per un istante, quel posto? La vedo che procede, eppure la sento senza un arto. Nell’ombra proiettata sul lastricato del cimitero non si disegnano parti monche, solo la massa del vestito e il cappello di paglia in testa. Forse perché non le mostra mai.
-tutto questo…-, cerco di risponderle, -….il soldato per esempio, l’ha visto? Quello di 24. Sua figlia… lo sa, che anche io e mia sorella avevamo queste letterine sulla porta della nostra camera?
Ah sì…., dice lei. Prosegue con naturalezza di gesti, intenta alla sistemazione dei rami offerti sull’altarino del davanzale, la voce equanime che distribuisce stessa quantità d’acqua a ciascuna delle sue piante.
-io non ci credo a quella bugia.- provo a dire -Che è meglio aver vissuto. Che è meglio aver amato. Che è meglio averci provato. Che è meglio, e poi è meglio, che uno fa questo, e poi, e poi, e poi anche la vergogna, e la frustrazione, il dolore, anche loro, sì. Non ci credo. Chiedo scusa. So che lei difenderà sempre sua figlia, sua figlia che è esistita, e che quindi non può perdonare queste cose.
Sorride e non mi risponde. Non c’è niente in quel sorriso che si lasci vedere da me nel profondo: le labbra sottili, quasi grigie nell’ombra, serrano un mondo impenetrabile. Dico che mi sembra giocondo, e manca qualcosa, dico che è sereno in una profonda amarezza, e proviene un’eco di movimenti da un fondale, rivolgimento di titanici sentimenti che si risvegliano, molto più profondi, molto più ignoti. Vorrei esplorare in quella profondità, ma non ci posso nemmeno entrare. In questa signora riposano simili animali. Così grandi da far paura e d’aspetto mai visto, io non conosco questi animali.
Non fa niente, sembra dirmi. Puoi andare. Non so nemmeno se mi ha detto che quel posto c’è, o che devo per sempre abbandonare simili fantasie. Non ha strappato con un graffio -non ha unghie- lo strato superficiale della tela vitrea che porto con me. I suoi rumori non disturbano la mia quiete con lo stridere dei graffi, perché non ha rumore. Nel silenzio trascinato vibrano solo fantasmi di api, coi peli odorosi di polline. Il posto non c’è, ma c’è qualcosa, qualcosa di indefinibile che tuttavia in maniera equivocabile lei porta addosso, spontaneamente come ciò che indossa quando dona cura alle sue piante, alla sua figlioletta assente, alla sua bella e forte malinconia. La fa venir qua, forse ogni giorno, come se annaffiasse.
Quando lascio dietro di me -forse per sempre, chissà- quella tomba, mi sembra che una sensazione, d’ombra che mi sfiora le spalle, diventi quasi un tocco, una vibrazione rassicurante. Comunica che anche io, uscendo da qui, ho perso qualcosa, per sempre. Ma per un’inspiegabile differenza rispetto alla mia paura di sempre, non mi fa disperare. È una pacca leggera di più colpi, amicale. Una strana eccitazione, come se stessi in bilico su un ciglio del tempio solare, accompagna il mio allontanamento, la mia perdita di qualcosa.
Rifaccio la strada, camminando al centro, morti alla destra e alla sinistra. I soldati mi sfiorano le guance, e nessuno brings the boys back home. Li saluto così, senza guardarli, senza dir niente e nemmeno singhiozzare. Nella polvere fanno saluti stereotipi, pietrificati, disintegrati. Gli unici che conoscevano e conoscono. Comincio a sentire l’illusione d’un suono d’insetti, appartati tra i fili dell’erba costeggiante i muriccioli di pietra. Si schiuderanno cicale sulle fronde di questo posto.
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