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  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 31 lug 2023
  • Tempo di lettura: 15 min

Questo è l’inizio: frammenti rilucenti nobilitavano il pavimento. Assestati in mosaico di cui ciascuna tessera escogitava nuove maniere di costruire l’iride dentro sé, raccattando da chissà dove, da chissà quale integro vitreo spiraglio di finestra o balcone, la sua corpuscolare materia prima. L’istante precedente, in cui il bicchiere era ancora intatto, sembrava indugiare nel presente, e a un’espirazione ricacciata nelle narici per un ripensamento sarebbe potuta corrispondere una forza centripeta -d’un centro invisibile e perduto là tra tappeto e mattonelle- che avrebbe ricondotto tutte le scaglie di vetro attorno alla sagoma primigenia disassemblata dall’impatto, il bicchiere che pareva esser sempre esistito così, partorito da un vulcano o dalla notte dei tempi in cui tutti i bicchieri furono creati uguali. E al tempo stesso sembrava che quell’oggetto, il cui fantasma vivo e completo d’ogni sua parte ancora penetrava illusorio in un falso presente più vivido di qualsiasi presente reale -insomma quella conca ridotta a resti impossibili da ricomporre dava l’impressione d’aver trepidato in attesa della distruzione, fino al minimo istante che aveva preceduto la caduta e rottura. Esisteva dunque, sepolta nelle cose, una suicidaria intenzione, un anelito alla liberazione di tutti i blocchi della propria tessitura da ogni costrizione della forma e della singolarità? Come un impulso, affine a tutte le forze della fisica e delle scienze naturali, mondo plastico di nozioni e invisibili magie viste oltre la lente d’antichi microscopi e strumenti vittoriani. Aggregazione e disgregazione. Era stato solo un anonimo catalizzatore, quell’urto del gomito intorpidito nei primi sonnolenti minuti della mattinata ancora fioca, brumosa come una sera d’autunno protratta attraverso tutte le ore diurne del sole capitombolante verso l’inverno -forse erano il tempo e la luce più adatti perché si riuscisse a scorgere questo tipo di verità nelle cose frantumate. Ma un momento… la disgregazione, dal cielo crepitante di gassoso ghiaccio, è strisciata fin dentro le pareti, le tubature, le apparecchiature… no, la disgregazione viene dall’interno, come un brusco sovvertimento del proprio centro di gravità, oppure è influenzata da fattori esterni all’individuo e l’oggetto?... mah, entrambe, è sempre entrambe. Un centro soltanto di gravità, che azzera ogni differenza: in entrambi i casi può accadere da un momento all’altro, un infarto nelle viscere dell’essere oppure uno scontro con un veicolo assassino in corsa, un imbizzarrimento imprevisto di bisonte meccanico… e quindi, anche in questo caso, un problema individuale, dell’individuo coi suoi ingranaggi e ingegni inceppati. -Raccogliendo con la scopa i frammenti di vetro, simili pensieri vorticavano in traiettorie rampicanti, lucidati dai bagliori che, risalendo dalle forme concave dei vetri, dall’albeggiare vago e distante che essi raccoglievano, e dalla sovrastante intermittente luce elettrica rovinata, infine venivano lanciati negli occhi, e in tutto quello che celavano dietro le orbite.


La scopa! Quella lampadina logorata da ignoti morbi capaci d’affliggere l’elettricità e trascinarla in buia rovina non avrebbe retto che fosse attaccato un solo altro apparecchio all’impianto della casa. L’aspirapolvere avrebbe certo eliminato ogni traccia, anche quei frammenti troppo minuti per essere individuati dall’occhio nudo, quei pericolosi cristallini occhietti, osservanti non osservati del suolo, muta e inodore astuzia rettile. Protettori di tesori.


Ci furono rimproveri per il modo di spazzare, “pensa al gatto”. C’era un grosso rischio dovuto a un lavoro mal eseguito, dovuto alla pigrizia che intorpidiva interamente le membra davanti a un compito fondato su un oggetto da afferrare con entrambe le mani come la scopa. Già incombeva un risvolto da storia moralistica, le conseguenze catastrofiche della mancata precisione, dell’approssimazione, dell’accidia; ma l’aver paventato certe cose sembrava motivo sufficiente per convincersi che non si sarebbero mai sognate di accadere. Schiena, setole e plastica lorda di paletta si voltarono per dileguarsi altrove, in altri corridoi mal illuminati, nicchie catacombali e stantie, perché una casa è riproposizione continua del suo sgabuzzino, forma basilare dell’abitare; andarono via, lasciando cristalli, diamanti, occhi, denti di drago, interi microscopici mondi di vetro con le laceranti creste scheggiate a sferzare l’aria, i passi, o il nulla, per caso mai intercettati da nulla, per caso sopravvissuti alla futura inevitabile demolizione dell’edificio -per lavori pubblici, per terremoto, per ristrutturazione, per collasso e sprofondo delle terre emerse, per meteora, per gigante rossa.

E se effettivamente stesse verificandosi in quel momento?


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(L’esagono di vetro penetrò verticalmente da un cuscinetto del gatto. Fu molto facile. Conobbe lo schermo proteico marroncino-roseo e vi scorse una somiglianza con sé stesso; stessa cosa fecero nei confronti del forestiero le singole unità proteiche, molli, consistenza soffice: incontrando un oggetto duro, spigoloso, riflettente, si congelarono di fronte a un’immagine rifratta di sé, un’immagine capace di tanta lacerazione, lì specchiata, lì deformata dentro un volto che è come uno specchio… e rimanevano lì a interrogarsi -mentre sopra di loro il frammento già passato oltre risaliva per la zampa col favore d’una corrente ascensionale endovenale-, ma siamo davvero così? C’è davvero in noi, nella morbida compatta pelle che componiamo, una tale capacità di ferire? E per la prima volta forse i cuscinetti ebbero coscienza di far parte di qualcosa che da qualche parte teneva celati gli artigli, dormienti e ricurvi, mezze lune di dilaniamento nel loro sonno a spirale dentro una cesta. Tanto sconvolte riflettevano, le particelle, le unità minime, che alcune delle più vicine all’ingresso rimasero così, indefinitamente incantate da quella visione di cristallo: e avrebbero ricordato per sempre come un lampo di luce, incastonato da opalescenti sgorghi di fontana, l’apparizione di quella specie di unicorno esagonale, messia di disgregazione: e sarebbe rimasta, puntiforme, una feritina là al centro del cuscinetto, un buchino rosso così stretto da non far uscire nemmeno il sangue. Ma l’esagono saliva, saliva, arrampicandosi per la zampa, non distante dal femore, che pure non poteva vedere. E risalendo macchiava il sangue attraversato d’una sostanza, d’una forma di disgregazione che mai lì era entrata.)


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Il gatto s’impigrì. La cosa non fu giudicata degna d’eccessiva preoccupazione. Ma la definizione degli eccessi non era qualcosa su cui si potesse fare affidamento. E anche se fosse stato possibile, c’era forse da aspettarsi che all’interno di tutte le cose avrebbe continuato a insinuarsi, impertinente e recidivo, un qualche invisibile follettesco principio che avrebbe continuato a fregarsene. Conducendo questo o quell’oggetto al punto del loro click. Al loro scoppio vitreoatomico tra i funghi radioattivi del mondo calpestato. Boom. Ogni istante trascorso celava un’esplosione, un brillamento, un Uomo Grasso, un sole in miniatura.

Il gatto alzava il muso e intercettava i volti fluttuanti lassù, per lanciarvi miagolii. Suoni udibili che Il Gatto si è insegnato da solo per farsi sentire, farsi vedere, farsi amare, farsi nutrire, farsi abbandonare, farsi ricordare, percepire -dicono.


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(Ecco finalmente una visione d’ossa! Sopra di lui, come placche che formano una volta, scaglie di cupola d’auditorium, perché rimbombasse là in quel vasto flusso rosso e buio, attraverso i fluidi sgargianti e le acustiche trame del calcio, una rorida e palpitante sinfonia della vita, o un free jazz nelle camere di passaggio più anguste e nebbiose come sottoscala foschi dei nottambuli. L’esagono si ritrovava a fluttuare nella più magnifica aula di musica e percussione, tum tum, tum tum. Non era giunto al cuore, no, non poteva esistere al mondo una risalita così veloce, da una ferita così recente: si trovava da qualche parte nei fianchi, raggiunti imboccando qualche strada tra quelle incrociate tra arto e spalla. E lì nella volta gorgogliante d’infiniti quasi identici altri flussi ecco stagliarsi i calchi argentei, visibili anche attraverso i veli di tessuto, delle costole: come magnifiche costole da esposizione in un museo di cetacei, gli archi della cassa toracica d’un enorme megattera volante, al centro della sala di letargico e clorato colore d’acquario. E in questo acquario rosso volava altrettanto eburneo il cetaceo del petto, il centro del movimento del piccolo felide. Mammifero, prima di tutto.)


(L’esagono ruzzolò nel sangue, nell’ossigeno, in quegli intrugli che lo infradiciavano, o che avrebbero dovuto, ma che ormai erano come aria evanescente, patina dell’esistente, lordura del mondo respirata come abitudine, che non lascia segno; e facendosi sospingere dagli strattoni del pompaggio frastornante che fungeva da primo motore in qualche cripta o alta torre non vista e inaccessibile, l’esagono ammirava quegli arcuati pezzi di scheletro, così come era stato lui un pezzo di scheletro o di ciccia o di tegumento d’un bicchiere; così come esseri fatti di carbonio e altre schifezze avevano un tempo ammirato la volta notturna, riconoscendo nelle stelle -luccicanti incandescenti e freddi pezzi di chissà che- se stessi, come frammenti loro, come esito di precipitazioni e tempeste asteroidali dall’alto, come residuo d’un disgregarsi ramingo e immotivato da qualche parte nella periferia del cosmo.)


(L’esagono s’addormentò cullato dalle onde, sotto i bagliori ossei dell’intelaiatura tanto alta sopra di lui che gli raccontavano favole.)


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La zampa s’era paralizzata per prima. Escrescenze raccapriccianti simili a tuberi andavano moltiplicandosi, e sembrava che, man mano che comparivano, raggrumandosi dapprima in corrispondenza delle giunture, i respiri del gatto si facessero in accordo oppressi, gravati dai carichi di pus e sangue rugginoso che talvolta scoppiettavano, sembrava, in maniera indolore, tra i crateri della pelle gonfia.

Qualcosa di strano accadeva nel sottogola giallastro vibrante, nel suo volto peloso. Una rassegnazione che aveva qualcosa di santo.


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(Quante cose vide l’esagono, quando raggiunse i reni, gli intestini, la viva e ribollente muscolatura, dove dormiva, pronta a risvegliarsi, l’ira, e in camere, in tutto simili a quelle già visitate, ampie e risonanti e intelaiate d’ossa, eppure diverse, eppure nuove.)


(Nei reni vide mapparsi in globi perlacei l’acqua, ondeggiare col loro patinato e globulare accento da uova di batrace tra i carnosi stalattiti del sistema cunicolare interno a quegli organi d’afrore intenso. L’acqua, l’acqua che tu, gatto che m’ospiti, sei, l’acqua che dentro voi esseri si biforca in lucore e in putredine, l’acqua bifronte che eternamente siete -pareva perfino che in questa maniera pregasse, l’esagono, quando uno sconvolgimento simile all’aliena brutalità dell’emozione lo investiva pienamente da dietro per spingerlo ancora avanti nel flusso, nel traffico dei globuli, per mostrargli più da vicino, fin quasi a toccarli, quei gelatinosi soffitti; e le goccioline d’umidità lì inoculata che, sentendosi avvicinare, timide si sparpagliavano restando salde e appiccicose senza cadere, in fuga per i labirinti tra quelle flaccide conformazioni stalattitiche. Chissà dove cadevano quelle gocce, in quale fornace, in quale laboratorio di veleni? In che modo avveniva la creazione dello Stige verdeacido e degli inferi dentro i vivi, in che modo un fumo mefitico s’esalava dalle lacrime trasparenti degli elementi puri? L’esagono, ancora sospinto -infiniti strattoni, quasi il flusso avesse fretta di farlo muovere, quasi avesse fretta di condursi a una forma di disfatta o di morte causata da un corpo estraneo-, incamerava una curiosità mai sperimentata, che muovendosi dentro di sé, rimbalzando tra i sei lati e plasmandosi con le bisettrici, pareva ancora una volta ricamare quegli arcobaleni che già erano stati versati nella sua materia, quando era ancora bicchiere, quando era ancora parte di bicchiere. Forse ancora, in qualche modo, era un bicchiere, galleggiante nelle profondità di un sangue scuro, ombroso, veloce, pronto al balzo, sensibile, acuto di sensi, indipendente.)


(Negli intestini vide palpitare il Vermone del Centro dell’Essere e di tutti quelli come lui, una nuova fornace di contorcimenti e morsi draconici -il gran serpente il gran verme è rosa ed è nel tuo centro o appena al di sotto di esso, gatto, hai nell’addome un altro vivo, eternamente più lungo e tenace di quel che sei, come è sempre per tutti voi, tutti voi vivi, tutti voi di vertebre e scaglie e incessante tremore. Sì, sotto il centro, un mostro della specie dormiente, delle profondità, sotto, sotto, dove capitombolano i materiali di scarto, dove vengono relegati i sospiri e i gemiti ctoni esalati in fetido coro da una torma di demoni quando una luna di verde fosforescenza albeggia al primo volgere d’una notte sacrilega: ignora, gatto, d’avere dentro te siffatta serpe, lasciala riposare, svegliarsi, agire in autonomia: non vuoi sapere quel che fa. Così ancora cantilenava l’esagono. E in quelle nuove, più rosee e verminose caverne, vide pendere su di sé dai villi una sottilissima striatura strutturale capace di demolire la carne, e in ogni dove, quasi a dar corpo a una marea, una moltitudine batterica, un’intera fauna oceanica, d’abissi -sotto, sotto, ancora più sotto: quaggiù la flora sarà bioluminescente, e appendici s’aggetteranno da volti deformi per attrarre fantasmi mangiatori di luce ed elettricità. Un oceano dentro le cose viventi, un oceano dentro un vermeserpente dentro le cose viventi, un oceano che è una parte, un contenitore che ancora è una parte di qualcosa d’enorme e ignorato, e forse, nuota anch’esso in un ampio oceano… l’esagono, che dentro sé aveva assorbito ogni possibile flebile luce batterica, ogni possibile buio sconsacrato dei mondi visitati in quel suo viaggio, riusciva ora a immaginare: e immaginava d’un gatto con le sue zampette indaffarate una alla volta per calpestare il terreno, secondo turni scanditi, che senza mutare il collaudato movimento deambulatorio s’inoltrava nel mare, nelle onde, discendeva, verso l’abisso originale, in marcia sul fondale, verso l’esordio di un’altra stirpe di cui era parte, verso l’apneumonico pionierismo pluricellulare, parte d’altro, parte di terra, di Storia, parte di frammenti, parte di residui, immondizia cosmica.)


(E nella viva, ribollente muscolatura, vide, pronta a balzare, l’ira; i soffi del fogliame, dell’istinto, del pomeriggio che uccide. Dentro il gatto cresceva rigoglioso, come giungla, l’odore del fogliame inalato: non era mai solo, un gatto era sempre altro, era sempre giungla e savana e deserto introiettati, o codificati, tramandati. C’erano nel gatto le ombre del folto. Gli ormoni deposti a marchio del territorio, la terra arroventata dal giorno e impregnata di tracce che sembrava ribollire, prima del balzo, sotto l’agguato, come carboni ardenti a contatto coi cuscinetti e lo slancio digitigrado, e gli artigli, lì nascosti… nelle Linee di Nazca del muscolo, solcate uno squarcio dopo l’altro dall’acuminato esagono, apparve ruggente l’immagine del protofelide antico, Adamo di crine polveroso e implacabile giallo sabbioso nell’occhio: in cima a un promontorio di terre promesse, di rovi e rocce e rivoli di Storie sanguinarie, ruggiva la creatura, in cui s’incontravano tutti i suoi figli, la criniera la striatura le macchie le vibrisse, l’agguato, l’agguato, l’agguato; e sotto quel suolo di filamento magenta, sotto strati e strati dell’area muscolare, la sentiva aggirarsi e battere e colpire nervosa, quella belva rinchiusa, che in sé rinchiudeva il Codice, il volto e ogni parte del gatto miniaturizzata e ripetuta in ciascuna unità minima, come a formare una ghirlanda che s’immerge in una stanza degli specchi; e sentendola bussare, non liberata, quell’ira ferina rinchiusa laggiù nelle segrete con l’irrequietezza di una belva nelle gabbie d’un circo, e sentendosi il vetro del proprio corpo attraversato dal rimbombo della paura selvaggia, l’esagono capì che la belva stessa, frantumata in innumerevoli figli e sosia di se stessa come deiezioni di dna dall’ovoteca di una formica regina, era imprigionata in ogni cellula, ogni invisibile atomo del cosmo invaso, del sangue infetto. C’era disgregazione anche nel ruggito, nel grido e miagolio e soffio iracondo al centro della parte più intenzionata a vivere tra tutte le parti della cosa vivente, della cosa morente.)


(E ancora, in camere in tutto simili a quelle già viste, ampie e risonanti e intelaiate d’ossa, l’esagono poté rivedere -ma diverso in qualcosa, in atmosfera, in contenuto delle sue reazioni favolose- il cielo di costole oltre i veli di tessuto, e ancora l’ammirò, addormentandosi, prendendo un ultimo flusso d’una vena ascensionale mentre piombava in un sonno profondo, sognando nuovi archi che si dipingevano nella polvere d’ossa, le stelle cadenti della sua notte naufraga.)


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Il gatto si pisciava e cacava addosso di continuo. Pareva invecchiato di cent’anni in un attimo. E anche in maniere che non necessariamente avevano a che fare con queste e numerose altre forme di decadimento. Intanto seguitava a dormire, sedici ore al giorno o più -anzi, certamente di più, ma in maniera non così diversa da come aveva sempre fatto. Nelle ore dei suoi sicuri, soliti riposi, era sempre stato acquattato un principio di quella cosa che gli stava succedendo? Dormiva disgregato dentro sé un demone d’un sonno assieme migliore e peggiore del solito. C’era gran confusione, grandi contraddizioni, venivano fuori una dopo l’altra non più timorose di mostrarsi. Ma il gatto, eccolo là al fresco e tra le coperte morbide e immonde e fetide, eccolo là che se ne fregava.


Ecco cos’era: il gatto sembrava vagamente contento di morire. Ma non era possibile spiegare, no, bisognava cogliere quel fremito singolare nelle vibrisse, quell’incurvarsi delle labbra immutabile, come un tursiope coglione. C’era da invidiarlo? Da prendere esempio? Certo doveva essere una sofferenza atroce. Doveva trattarsi di una storia moralistica, sì, il singolo sottovalutato frammento di vetro, lasciato libero di ferire dall’indolenza e la trascuratezza, elargiva sofferenze così atroci, così brucianti al povero martoriato corpo del gatto che solo a guardarle ci si chiedeva che mondo mai potesse essere quello in cui la possibilità d’un simile dolore riesce a prender forma in maniera naturale. Che razza di mondo di casi intrecciati a formare illusioni di strutture? Che razza di costellazione in cui ogni puntolino è un coltello, conficcato nella carne di quella cosa chiamata “vita” saltata fuori da quale esperimento malato degli elementi? Senza scopo. Se non quello forse di soffrire in maniere simili, sempre diverse, irripetute, irripetibili, ma capaci di rassomigliare a una parvenza di schema. Un’avanguardia del patimento, per arabescare in maniera sempre più convoluta e sperimentale le morbose appendici della malattia del vivere. Sì. Ma no, neanche quello. Nessuno scopo. Nessuno scopo in queste cancrene.


Questi i pensieri nel raccogliere i frammenti del gatto, quel che si diceva “speriamo soffra il meno possibile”. Accudirlo, accompagnargli coi polpastrelli i respiri strozzati, esalati da quel sorriso perenne, quella serenità che fluttuava inalterata pure in mezzo a canyon tumefatti, capace di far diventare scemi. Un pezzetto minuscolo di vetro era stato l’artefice di tutto questo -o forse no, forse solo una malattia incurabile, apparsa all’improvviso, una disgregazione che non dipendeva affatto dai casini dell’esterno, un caso tumoralmente apparso a interrompere e frastagliare la retta indisturbata e inerte del cosmo interiore… ma c’era sempre l’altra possibilità. Esistenze bifronti. Due “-gregazioni”, “dis-”e “agg-”, sempre. Due impulsi. Il gatto a volte, nella sua cesta buia (la lampadina era saltata del tutto e il fatto era stato ritenuto provvidenziale, giacché l’animale in questi giorni finali aveva sempre rifuggito il disturbo della luce), starnutiva seccato -unici momenti di fastidio nel suo continuo riposo serafico. Avvertendo un calore di mano in avvicinamento, innescava subito le fusa. S’addormentava placido.


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(Nel mare un brusio, un magma di rumore, striato, una vibrazione, dormiente e sveglia assieme -bifronte, tutto è bifronte nel mondo strano dei vivi che l’esagono ha invaso e conosciuto e amato e odiato. L’esagono prese la corrente ascensionale, sveglio ormai, e vide, vide ciò che febbrile trascorreva in lampi rossi deformi man mano che la velocità lo risucchiava verso l’alto, verso un cielo incastrato di là da cunicoli secondari del cielo di stelle ossee e cetacee che aveva vissuto: slanciato corre assieme a quel nuovo ronzio che scuoteva ogni cosa, quella vibrazione di “amore”, sì, “amore” anche nei suoi confronti, il carnefice; un principio equanime rivolto a ogni cosa presente in quel momento, ogni componente, dentro, estranea, dovuta a eterotrofia, dovuta a Codice, dovuta a recidivo comportamento della malattia della vita, dovuta a stupide innumerevoli concause, dovuta a un’anima che sta là da qualche parte e s’affaccia sul burrone della disgregazione aspettandosi che questo rilanci uno sguardo d’abisso, e dica qualcosa, dica ciao, mandi un riflesso -come in specchio, come in vetro, eternamente e disperatamente ricercati.)


(Ed ecco l’esagono volare, ultima fornace: eccolo slanciato perché coi suoi spigoli lucenti, provvisti di vista, coi suoi spigoli di drago e unicorno cristallino veda brillare l’ultimo oceano di reazioni chimiche, l’ultima mappa di deliranti impulsi: là era dove le cose con la sua stessa sagoma si generavano, là si schiudevano le uova dei poligoni. Là nascosti nelle cavità del suolo lunare e verminoso riposavano frattali che, afferrando nuvole neuronali con le zampe prensili, svolgevano le loro spire e s’arrampicavano nell’atmosfera craniale, dispiegando in volo gli aurei nastri dei loro prodigiosi baffi algebrici. Saette fradice, ovunque, s’incrociavano a mezz’aria, crepitando. Esagono vede, esagono sente: un brillamento, un’ultima tempesta di luce prima che sia lui stesso, esagono solido tra esagoni di Codice insonne, a spegnere tutto: non appena avrà toccato l’argilla fragile e grigiastra di quella superficie di vermi attorcigliati, questo secondo intestino, secondo ovario, fucina di gameti elettrici, non appena avrà infranto tutto ciò col suo corpo che può solo ferire, tutto sarà blackout.)


(Copie del gatto, della sua bestia dell’ira, degli altri gatti, degli odori, degli infra e ultrasuoni recepiti che volteggiano sulle praterie di materia grigia spiegando nel vento le loro ali di gargolla e vesti di banshee, geometrie labirintiche del termosensibile captate dalle punte fibrillanti dei ricettori, volti d’umani, volti di topi, ferite, occhi minacciosi nell’erba verde, terremoti continui della percezione… tutto ciò frangendosi in fosforescenze simili a spettrali statue d’un diorama vivo e mutevole che andava componendosi lì, in gran finale di spettacolo, balzava dal cervello come spume di geyser. E fluttuante sopra il centro della calotta, vuoto, liscio, perfetto, vitreo, come la crisalide d’un cosmo ancora incerto se nascere o ritrarsi negli amniotici recessi d’un piano cartesiano ancora spoglio di forme, campeggiava un esagono: vide il frammento di vetro, ed esso vide lui. Ed entrambi si rispecchiarono nei reciproci riflessi, donati dall’incredibile trasparenza delle loro uniche, precise, mai vissute consistenze. Poi tutto sparì.)


(Il frammento era entrato. L’ultimo pensiero è come il primo. Un ovulo, una palla elettrica, una palla di codice. Il guizzo d’un girino, un verme di codice, un esagono di nulla. Un assorbimento. Una gestazione: si genera promiscuamente la vita, si genera promiscuamente la morte, entrambe ambigue, entrambe bicefale, entrambe casuali, innaturali.)


(Si guardano, vita e morte, in una superficie riflettente. Poi tornano ad accasciarsi per riprendere le forze. Tutt’attorno è buio profondo, un buio pittato qua e là d’argento, blu, rosso, come pancia d’una miniera. Ancora mezze addormentate, gambe intorpidite, tra gli scogli della spiaggia d’un mondo in costruzione, dove si sono risvegliate stordite, come uscendo da un lungo sogno tribolato di cui stentano a ricordare follie, traumi, illogici balzi narrativi. Alta nel cielo, la luce dell’astro di questo giovane sistema solare giunge a intermittenza: c’è un problema nell’impianto, forse d’elettricità, o qualunque sia la fonte energetica responsabile di “tutto questo”. Macchie solari, o chissà che altra catastrofe, che ci importa a noi -dicono queste due entità stranissime, assai simili, aliene sulla palla di roccia e brodo. Non siamo nate perché ci importasse, non più di quanto c’è possibile. Del resto non siamo nate perché qualcuno s’importasse di noi. E così dicendo si stendono coi dorsi contro le conformazioni silicee imperturbabili, roride, schiumanti come bocche di granchi. E con le dita disegnano, seguendo le sagome traballanti dei riflessi delle stelle lontane nella superficie del mare di brodo, le forme più incantevoli di cui le loro immaginazioni interconnesse sono capaci: alberi, felci, larve, alghe, felini, funghi, mostri, anfibi… finché non si stufano. Giocano a far rimbalzare i sassi sul fluido. Cerchi concentrici, belli a vedersi. Tonfi, soddisfacenti, nell’oscurità primordiale, propagati nell’atmosfera neonata. Tonfi umidi da qualche parte nella periferia d’una galassia periferica. Si stufano un’altra volta e passeggiano lungo la costa, gettando di quando in quando occhiate ai lattiginosi pianeti nell’orizzonte, agli accoppiamenti e gli sfiatatoi dei frattali a largo, coi loro canti ipnotici e le code maestose. Una nuova e strana sostanza friabile comincia ad assemblare impronte sotto i loro piedi mentre procedono un po’ nervosamente, quasi temano il sopraggiungere di qualcosa di spaventoso, senza perdersi mai di vista.)


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