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racconti delle cinque dita- "nessuno sapeva dove facessero i nidi" (pt.2)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 14 apr 2020
  • Tempo di lettura: 20 min

C’era un angelo del lago che si chiamava Ih. Aveva piroettato nel cielo, come al solito, era andato a rivolgere e ricevere i consueti saluti. Gli artigli di Fwò dovevano avergli lacerato fin sotto al fegato, questa volta. Discese verso il basso, pronto alla fase più importante della picchiata. Aspettò calmo che il sangue gocciolasse dalla ferita aperta, tintinnando sul lago, poi avvicinò gli artigli all’acqua e… niente. Non voleva, ma doveva riprovarci. Risalì su, per prepararsi a un’altra picchiata. Ih sapeva, come tanti altri, che esistevano alcuni esseri umani che li chiamavano “gli angeli del lago”. A lui però non importava molto. Credeva che fosse una cosa di poco conto, che non meritava di essere contestata né ricordata. Nonostante questo, mentre velocissimo si precipitava per la seconda volta in quella mattinata verso il limpido specchio che si stagliava -si sarebbe detto quasi all’infinito- sotto di lui, gli venne in mente un pensiero curioso. “ma perché”, -si chiedeva- “chiamano noi angeli, che di angelico non abbiamo niente, anche se non conoscono proprio l’unica cosa che ci rende simili agli angeli?”. Si riferiva al fatto che il piumaggio pastoso che li avvolgeva, non escludendo la zona delle orecchie, ostruiva la loro percezione uditiva (non abbastanza da renderla nulla, è chiaro) e gettava nella sfera sonora che questi riuscivano a captare un inarrestabile mormorio di sottofondo, che li accompagnava sempre. Tale mormorio assomigliava come all’eco lieve di un coro di vere voci, un’armonia eterea di gole prive di consistenza corporea unite nella stessa orchestra per erigere un muro di suono, da interporre tra il mondo con i suoi rumori e l’apparato uditivo che cercava di catturarli invano nella loro pienezza. E assomigliava, appunto, a voci di angeli, come un acufene proveniente dal cielo. Forse l’ostruzione causata dalle piume produceva questo effetto proprio perché erano le stesse piume a cantare, per redimersi così dal muco intrappolante della loro esiliata essenza di tenebra, grazie alla soave magia di un canto che sembrava mormorato da sopra le nuvole. Distratto com’era da queste cose, decise che non valeva la pena di portare a compimento quel secondo tentativo, dando per scontato che la natura di questi pensieri aveva ormai arrestato il massimo rendimento dei muscoli e dei movimenti necessari alla riuscita, e consumò quelle forze in una bruschissima virata, ovviamente di nuovo verso l’alto, di nuovo in postazione per riprovarci. In verità la distrazione e i pensieri di Ih erano piuttosto un espediente che una causa. Tra tutti i tentativi falliti, forse di proposito, non c’era più sangue a colare dalla ferita al fegato. Una cosa del genere sarebbe parsa a tutti un motivo legittimo per decidere di rinunciare. Non sapendo cosa gli passasse per la testa, il peggio che avrebbero potuto pensare era che semplicemente quella non fosse la sua giornata. Non è che gli altri facessero poi tanto caso ai comportamenti dei singoli, e di certo anche a pensarci avrebbero presto dimenticato la cosa -e come poteva essere diversamente, per delle creature che con quegli schiamazzi striduli e quella bocca iperattiva sembrava sempre che ridessero, come a prendersi gioco di tutto dal cielo?. Ma Ih era un tipo cauto. Arrivato a quello che stabilì essere il suo ultimo tentativo per la mattinata, sciaguattò le zampe (piedi, forse?) nell’acqua, di qua e di là, come per gioco; confermava al riflesso, il se stesso tremolante sulla superficie accidentata delle onde concentriche prodotte dai suoi movimenti caotici, l’importanza che questa sua indolenza aveva per il modo in cui si percepiva in rapporto alla questione della battuta di caccia mattutina. Si vedevano i pesci più usi a nuotare sotto il pelo dell’acqua scappare via terrorizzati non tanto dai mulinelli, quanto da quello che stavano a rappresentare gli artigli che li generavano, penetrando la membrana invalicabile che separava il mondo dove si respirava da quello in cui si soffocava. Bastava la vicinanza di una scaglia d’unghia, della fibra di una piuma, di una millilitrica goccia nera -insomma, di una qualsiasi delle singole cellule che componevano quegli incomprensibili uccelli per far sì che tutto il mondo subacqueo tremasse in preda al proverbiale timore atavico che intorpidisce i sensi, quali che fossero le reali intenzioni di chi, di quelle cellule, ne aveva tantissime. Ih rideva, e guardava sé stesso ridere nell’acqua, osservando quei pesci che erano spaventati da lui, come a prenderli in giro bonariamente in un gioco in cui era il solo consapevole della sua mancanza di intenzioni nocive. Avrebbe voluto dirgli, non senza continuare a ridere della loro paura, che in realtà gli stava salvando la vita. Nel far questo cominciava quasi a divertirsi sul serio, e percorse senza accorgersene un tratto piuttosto lungo -e inusuale per quelli come lui- senza rimuovere gli artigli da sotto l’acqua, come ad aprire una fenditura sul lago, attraverso la quale, magari, egli sarebbe potuto scender giù insieme ai pesci, o loro sarebbero potuti salir su, ognuno accantonando le reciproche incomprensioni per il tempo di questa visita diplomatica resa possibile da chi aveva squarciato il lago con tutti i suoi vecchi regolamenti. Poi gli venne in mente che ciò che si era detto tra sé, quella pretesa di “salvare la vita”, fosse una cosa molto idiota da pensare. Mescolare giochi cretini che uno faceva per ingannare il tempo e se stesso con un’idea nobile come quella della salvezza! Era quasi un pensiero irrispettoso, non sapeva bene nei confronti di chi. E poi, avesse avuto pure la presunzione di affermarlo dopo essersi reso conto di che volesse dire, il suo intento sarebbe stato presto vanificato, ridicolizzato: a che serve che uno salvi un pesce se, passato l’istante in cui decide di andarsene da un’altra parte a farsi i fatti propri, subito arriva in picchiata un altro che disintegra quello stesso pesce come un fragile ammasso di carni flaccide e molli? Questa “rivelazione” lo intristì, facendolo destare dal suo sogno ad occhi aperti; virò bruscamente via dal raggio che aveva tracciato sull’acqua, per andarsi ad appollaiare su di un promontorio che affacciava sul lago, dalla cui sommità si poteva vedere tutto il paesaggio, dai radi canneti della riva sottostante fino ai bordi sfumati delle geometrie più distanti che il canyon disegnava sull’orizzonte.

Per prima cosa salì direttamente sulla sommità, dando così le spalle al lago. Non era soddisfatto. Si rialzò in volo e tornò indietro, cercando una via alternativa. Si mise vicino alle pendici della rupe, in piedi su uno spicchietto di riva sabbiosa. Da lì dietro un piccolo sentiero si impennava e incurvava per portare al promontorio. Era improbabile che lo utilizzasse per arrivarci a piedi, ma poteva sfruttare il sentiero come una semplice indicazione disegnata sulla terra, seguendone la linea dall’alto con gli occhi mentre era in volo, così da arrivare sulla sporgenza in un’altra prospettiva, in modo tale da trovarsi il lago davanti. C’era un’altra tecnica di caccia (anzi, sarebbe stato corretto dire che quella della picchiata non lo fosse, e che questa invece sì) che prevedeva che il predatore si mettesse in uno qualsiasi di quei punti in cui l’acqua lambisce la roccia, la sabbia, i sassolini eccetera. Da qui si poteva servire della muscolatura delle gambe per immettere un’onda d’urto al di sotto del basso livello dell’acqua, così da far uscir fuori e al contempo stordire i pesci nascosti tra le insenature vicine alla riva, peraltro disorientati nel gran polverone di sabbia agitata dall’impatto. Ih dovette riconoscere a malincuore che questa tecnica gli riusciva ancora. Eppure, non portava forse allo stesso risultato? In fondo, cosa importava al pesce di morire così, preso ripetutamente a calci come un serpente stanato da un serpentario, oppure sfracellato in un battito di ciglia dallo schianto di un razzo inarrestabile? Anzi, era forse nel secondo caso che la sua sofferenza veniva meno. A Ih, però, quella tecnica aveva cominciato a dar la nausea già da un po’. Sempre più amareggiato si criticava, dicendosi che in fondo tutta questa cosa poteva ridursi a una questione di cosa piacesse a lui, e non di quello che piacesse ai pesci. Afferrato con gli artigli quello che assomigliava a un rombo d’acqua dolce, si diresse verso il pendio.

Era rimasto rannicchiato sul bordo estremo per tutto il pomeriggio. Le ginocchia puntavano in alto come spuntoni rachitici, più alte del torso, era buffo e inquietante. Teneva il rombo immobilizzato in mezzo agli artigli, sotto tutto il peso di una gamba che sporgeva un po’ più avanti. Se l’avesse levata, il rombo sarebbe caduto giù. Quello si agitava, ansimava sgradevolmente, insultava il suo carnefice. Non capiva che senso avesse tenerlo tutto il tempo così senza motivo, per giunta in bilico tra il sole cocente, artigli terribili e una caduta certamente fatale. In un caso o nell’altro la sua ora sarebbe arrivata, ma contrariamente a quanto avesse mai pensato il ritardo era addirittura insopportabile. Il tipo, la bestia alata, non sembrava un sadico, anzi, aveva quasi un’aria malinconica, mentre se ne stava pensoso a osservare il lago. Era come se si fosse dimenticato di aver preso un pesce, o se avesse smesso di importargli. In altre parole, un rincoglionito piumato di nero. Ma possibile che tra tutti quegli uccellacci proprio a lui doveva capitare il più imbecille?

-hey! Hey! Embè, che stamo a fa?

Ma quello non si smuoveva. Fissava il vuoto con una faccia ammusonita (cioè per quanto potesse essere ammusonita la faccia di uno di quelli). Con gli occhi sempre aperti e quelle smorfie, erano come degli emissari della risata e della spensieratezza. Non la spensieratezza di un cuor leggero, ma quella bestiale degli esseri più primitivi che meglio riescono ad accedere al piacere spontaneo di colpire, mutilare, distruggere, strappare un oggetto, confermando attraverso l’annientamento l’esistenza sua e quella propria, sentendosi per sempre grati così. Questo invece aveva la zona più settentrionale della fronte, quella sopra le orbite, addirittura protrusa in uno sforzo simile a un aggrottamento. Se avesse avuto le palpebre, le avrebbe tenute in quel momento come saracinesche abbassate per metà. Al pesce tutto questo dava sui nervi.

-ma che cazzo stai a fa… che c’hai, paura?

-senti, per caso hai freddo?- chiese il deforme uccello. Il timbro vocale, naturalmente simile all’intonazione di un ragazzino colpevole che si diverta a fingersi sempre innocente, si era riempito di uno strano piagnucolio, una smorfia sonora imbarazzante sia per il pesce che per lui (ma soprattutto per il pesce).

“Cosa?”, pensò il rombo. A quel punto non c’era più dubbio che fosse un autentico svitato. E quelli erano già svitati di loro, ci mancava solo questa.

-…che?

-se hai freddo, dico. Hai presente, no, quello che si dice di chi sta per morire? Ho pensato, voi state sempre nell’acqua fresca. A morire così invece il sole vi abbrustolisce la pelle. Mi chiedevo se…

-è per questo che non ti decidi ad ammazzarmi? Per questo tuo esperimento del cazzo?

-ma no, ma no, assolutamente…- quel coso addirittura arrossì di vergogna! Imbarazzato, mentre uno annaspava tra la vita e la morte! -è solo che, ecco, visto che ti trovi lì lì… insomma, capisci, no? Quel che è fatto è fatto, tanto vale approfittarne e chie…

-oddio, non ne posso più. Ho capito, ho capito, basta. Me vuoi fa sta così fino a sera. Almeno però statte zitto. Basta così.

Rimase imbarazzato ancora per un po’. Poi, senza comunque liberare questa scorbutica “preda a metà”, smise di farci caso. Nel frattempo, si stava proprio facendo tardi in rapporto alle consuete abitudini delle bestie alate, che cercavano sempre di rientrare prima di sera. Ce n’erano ancora in giro? Di quelle che non disdegnavano i raggi del tramonto, magari. Sospirò qualcosa, come una preghiera dimenticata pronunciata per sbaglio.

-e allora, vieni a liberarmi da questo schifo? Vieni dal cielo, come il tuono e il lampo!

Proprio come se si trattasse in fondo di una fata o di una ninfa ridente -l’emanazione genuina di uno spirito naturale, che si fa portatore di una vitalità presumibilmente intrinseca alla flora e la fauna di un posto-, giunse all’improvviso Hi, una carismatica “arpia” dal temperamento impetuoso(capitava che qualcuno chiamasse le femmine -o quelle che a rigor di logica e a beneficio degli articoli determinativi dovevano essere le femmine- di quella specie col nome di “arpie”. Non era facile distinguere, da una punto di vista umano, questi “maschi” da queste “femmine”, ma era chiaro che i due “generi” si trovassero in un rapporto di complementarietà ricercato a vicenda. Secondo gli esperti più autorevoli, se c’erano omosessuali tra gli angeli e le arpie, questi rimanevano reclusi sugli altopiani mai visti dove si favoleggiava che nidificassero. Poi alcuni di stampo reazionario si lamentavano di questa teoria, adducendo che stando l’altra -che abbiamo già visto errata- che vedeva il luogo della loro cova come il paradiso, era impensabile che ivi fossero ammessi degli omosessuali; ma questo, francamente, è tutto un altro paio di maniche). Come Ih, sebbene con rapidità molto maggiore, in un primo momento si era diretta frontalmente verso il promontorio che si inarcava in su per poi deviare a mezz’aria; in seguito volteggiò come pazza oscillando tra velocità sempre più vertiginose nel percorrere vie alternative, in un volo frenetico e scriteriato da farfalla accelerata, in cui le linee si intrecciavano in una matassa impossibile da sbrogliare. Non era certo per gli stessi dubbi che toccavano Ih che aveva mostrato scetticismo verso l’atterraggio intrapreso all’inizio: al contrario, lei non atterrava mai da nessuna parte senza prima aver deviato in tutte le direzioni, come se fosse sua preoccupazione quella di non lasciarsi sfuggire tutte le svariate possibilità che scaturivano dalla manifestazione di un fenomeno, quelle che si allontanavano da tutte le parti per andare a evaporare irreversibilmente nel nulla e che lei, forte del suo volo fulmineo, andava a inseguire come se ne fosse ghiotta, come se non potesse farne a meno. Tuttavia, anche lei arrivava a rendersi conto che si trattava di un languore che era impossibile soddisfare, ed era soltanto quando la sua mente iperattiva e sovraeccitata finiva per ricordare questo fatto (cui era bene rassegnarsi senza opporre resistenza) che finalmente riusciva ad arrestarsi, e così ad atterrare. Le sue gambe schioccarono un tonfo sul terreno della rupe, compatto e vuoto come un pavimento di sabbia indurita, e il suo collo si levò con aria quasi estatica verso l’alto, come se volgendo la sua regalità al cielo volesse indurre questo ad aprirsi in due e ad aspergere il mondo con la tempesta ancor prima della fine dei tempi; emise un grido che stravolse la quiete degli altri esseri. E un pescatore convinto di essere saggio per mezzo di una Carpa, che vicino alla riva protetta dal promontorio sbrigava le sue faccende, sobbalzò sorpreso. Per un breve, ma decisivo momento immediatamente represso, si preoccupò, “sono davvero scesi a terra quei cosi?”, e in tal caso c’era da sperare che non gridassero di nuovo, poiché quegli stridii erano capaci di tramortire anche uno stambecco. Si allontanò quanto bastava dalla parete, in modo da osservare cosa c’era sulla sommità. Ce n’erano due, uno seduto e l’altro più indietro in piedi, con la testa piegata all’indietro. Vedendoli, si convinse che fosse stupido lasciarsi spaventare da un gridolino, e che non valeva la pena di lasciar perdere le proprie attività per una simile sciocchezza. Fece per tornare alle sue reti già sbrogliate, le sbrogliò di nuovo e stette là a non curarsi ulteriormente del problema. Hi, dopo il suo richiamo liberatorio, convogliò tutte le sue restanti energie per salutare Ih che stava lì seduto. E come ci si comporta con uno che non dà segno di volersi voltare? Gli si graffia tutta la schiena, tre volte, sei volte, nove volte. Quando si ha energia da vendere, i graffi arrivano ancora più a fondo. E quando non si ha a portata d’artiglio il ventre molle che deve accoglierli, bisogna compensare questa cosa prodigandosi con ancor più foga nell’elargizione del saluto.

Ih pensò: “grazie a dio”.

Era come se qualcuno stesse scavando per il filone di un qualche minerale prezioso, di cui si era parlato nelle leggende, tra le articolazioni nascoste nella sua schiena. Lei graffiava come una bambina entusiasta e gigante, squartando senza freno le povere giunture che scoppiavano inermi lungo la colonna vertebrale, tante rocce prese a picconate e scoppi di tritolo.

-ciao Ih! Ciaociaociaociaociaociaociaociaociaociao!!! Cia-o-Ih-co-me-sta-i!-, esclamò scandendo gli ultimi fendenti, come a mettere una firma.

-ciao, Hi. Come mai ancora in giro?

-mmmhhh…-, fece con fare infantile, voleva sottolineare che quello era un interrogativo da non prendere sottogamba -sai che non ne ho idea? Non ci stavo a pensare. E poi che fa?

-ma come che fa? Pensavo che “voi” ancora ci teneste a queste cose.

-che cose, Ih caro?

-sai, queste cose… tipo che di notte non andiamo in giro. Queste cose che sì, insomma, dobbiamo fare, e…

-sono cose importanti, certo, ma secondo me ci sono cose più importanti nella vita.

Non riuscendo a star ferma, aveva preso a passeggiare, goffissima come tutti i discendenti della stessa stirpe, nei dintorni della salitella. Setacciava coi piedi le zolle di terra e la poca rada vegetazione che lì cresceva, strappava pavimentazione a mo’ di gallinaccio prepotente.

-già. Ci sono cose più importanti.-, ripeté con parole intorpidite, simili al formicolio nelle gambe addormentate.

-e tu, Ih, non ci tieni più a queste tradizioni?

-non so. Non tutte, di sicuro. Anzi, alcune per niente. Per caso si vede?

-in che senso, “si vede”??

Ih si voltò di tre quarti. Guardò lei che, non ricambiandogli lo sguardo, se ne stava con aria sognante a scavare, a meravigliarsi del suo operato in quanto fine a sé stesso. Era innocente anche nella colpevolezza di aver modificato per sempre l’ambiente circostante. E questo la rendeva ancora più bella. forse alcune di “quelle cose che dovevano fare” non gli piacevano più, ma tra queste non rientrava la complementarietà degli “angeli” e delle “arpie”. Le sue labbra si piegarono in un debolissimo sorriso.

-niente, lascia stare. Non importa.-, si limitò a mormorare, era un buon attore drammatico.

-hahahahaha, sei proprio strano, Ih!

Sorrise di nuovo, meglio di prima.

-già, forse hai ragione.

Il rombo diede uno strattone più forte da sotto gli artigli di Ih. Se ne ricordò, di nuovo balenarono i pensieri del mattino.

-senti, Hi… ma tu non pensi che faccia schifo quello che facciamo ai pesci?

-come, “fa schifo”?

-ascoltami, non pensi che sia assolutamente superfluo, ma soprattutto, sgradevole, ehm… “romperli” a quel modo?

“ma guarda te sto fijo de na mignotta”, pensò il rombo. “ne sparano di stronzate”, pensò il pescatore sputando per terra.

-mah, sgradevole, non so, forse, chi se ne importa?

-a me importa invece!- si voltò quasi completamente -a che serve, me lo spieghi?

-non serve a niente,- anche lei lo stava guardando, insolitamente ferma -niente serve a niente. E capisco pure che lo trovi brutto. E non voglio neanche dirti che “non puoi farci niente”. Tutti possono farci quello che vogliono, con tutte le cose. È più un fatto di “scegliere” che di “farci”. Io scelgo sempre di fare tutto quanto, sai? Almeno finché mi stanco.

-bene. Spero di riuscire a scegliere di non fare più quella cosa orribile e tutte le altre azioni che possono ricordarmela.

-eh sì, è proprio orribile. Però io sono bravissima.

“ma mo pure quest’altra mortacci sua!”, pensò il rombo. “A brutte merde!”, disse ad alta voce, sfinito. Hi si sedette al fianco di Ih, battendo freneticamente i piedi sul bordo della rupe.

-di un po’, Ih, ma non è che perché adesso non ti piace più la picchiata, non ti piaccio più neanche io che la faccio così bene? E anche tutti gli altri che non stanno a pensare a queste cose, anche se le capiscono. Non ti piace più nessuno?

-non è assolutamente così.

-allora dimmi, come fa a piacerti qualcuno? Non ti importa se è un bravo cacciatore; non ti importa quanto voli veloce, quanti pesci prenda, quanti riesca a mangiarne in una volta sola; non ti importa dei suoi richiami, ai quali non rispondi; e poi, dimmi quello che vuoi, ma quando infilo le unghie dentro di te lo sento, lo sento con le dita stesse, che preferiresti non salutare la gente. Non-co-mu-ni-chi.-, scandì di nuovo picchiettandolo appena sulla spalla col suo impercettibile e micidiale naso -Tu mi piaci, Ih, ma che deve fare uno per piacere a te? Per esserti complementare?

-non deve fare niente. È proprio questo il punto.

-ce l’avrai pure un criterio, o…

-il criterio è il lago.

-il lago?

-osserva.

Difficilmente le bestie alate volavano al tramonto. E si capisce, ancor più raramente lo osservavano da sedute o appollaiate mentre imbrattava coi suoi rossi acquosi tutto il paesaggio, infiltrandosi nei riflessi dell’acqua dolce, sulla roccia arancione dell’orizzonte, su una nuvola che si scompone stanca. Dopo chissà quanto tempo, le due creature che erano tornate a farlo si chiamavano Ih e Hi, un pazzo che aveva paura di sentirsi mancare alla vista del sangue e una pazza che a forza di dedicarsi a ogni attività conosciuta ne avrebbe certo dimenticata qualcuna.

-il lago è bello. O meglio, il lago è il lago e basta. Ma non ci metti niente a pensare che è bello. Sul suo fondo le cose si depositano. Se lanci un sasso quello affonda, piano piano… prima o poi finisce che la sabbia sul fondale lo inghiotte, e da quel punto in avanti non lo vedi mai più. E lo stesso vale anche per le povere membra dei pesci distrutti, per il sangue nostro, le alghe morte… tutto sparisce sotto la sabbia. Eppure, proprio perché tu puoi vederli scomparire così, con la convinzione che scendendo nelle profondità prima o poi si incontri la sabbia, arrivi a sentire con tutta l’energia che esiste al mondo che in verità scomparsi non sono. È tutto là! Il sangue dei nostri antenati, anche dei primi che sono comparsi sulla terra! E gli antenati dei pesci che hai ucciso oggi, e di questo pesce che ho qua- “li mortacci tua!”-, e delle montagne che stanno laggiù… e a forza di andare avanti così uno capisce pure che sul fondo del lago ci sono anche le stelle e il cielo intero. E quella cosa che chiamiamo tempo.

-anche quegli scemi di pescatori che vanno sulle barche?

-certo, anche loro. Ogni cosa.

-capisco. Certo, non mi importa niente di quelli, hahaha. Non sono così importanti come gli altri dicono, secondo me.

-comunque, capisci quello che voglio dire? Il lago è bello per questo. Invece, là dove viviamo noi, su quegli altopiani lontani…

si volse verso un punto nell’orizzonte inarrivabile. Il pescatore della Carpa Intelligente, suo malgrado, si sentì accapponare la pelle nell’ascoltare quelle parole, e d’istinto si voltò di scatto verso quel punto che il mostro indicava. Sempre di scatto tornò alle sue reti, le sue mani insolitamente impacciate e meno svelte nel districarle a causa di una strana nostalgia che si era impadronita di lui, portandogli alla mente quello strano ragazzo di città che tempo prima aveva fatto strane domande e che poi era scomparso… “dove sei finito?”, chiese sottovoce a un nodo che aveva reso particolarmente ostico. Continuò a fingere di non stare ad ascoltarli.

-su quegli altopiani dove è solo roccia resa gialla dal sole che assorbe tutto. Dove sorge sul nulla, e tramonta sul nulla… quelle tavole dure e, e deprimenti, dove, dove, dove non succede niente! E tutti sono felici, e tutti hanno questi occhi, che… quando siamo tutti là, vicino ai nostri nidi, le nostre case, a prepararci per la giornata e a riposarci dopo le cose che sono successe, tutti così dannatamente consapevoli delle cose che si vanno a fare e che si ripeteranno il giorno dopo… là i nostri occhi sembrano brutti. Penso questo, penso che se li guardi in mezzo a tutta quella luce così invasiva, i nostri occhi ti sembrano solo delle palle terribili create da uno stregone con un gusto raffinato per le cose più perverse. I nostri stessi occhi! E poi, quella musica che ci ronza nelle orecchie… ma sono solo io quello che la sente più forte là sopra? Mi fa diventare matto. Questo coro che soffia come un vento intrappolato dentro la testa, che sembra compiacersi quando sta così ad alta quota, così vicino a quella palla di fuoco infame. Diventa un baccano da trapanarti dentro il cervello, e ti senti scuotere dalla punta delle piume fino al midollo dentro le ossa, e tutto diventa ancora peggio quando guardi tutti gli altri e vedi che hanno questi sorrisi, come se a loro la musica piacesse. Poi scendi giù al lago, e la musica non è più così terribile.

-ma questo che c’entra con chi ti piace e chi non ti piace?

-a me piace chi nel cuore ha un lago e non un altopiano. Io voglio sentire il rumore dell’acqua nel petto degli altri. Voglio pensare al sangue di cui i nostri toraci sono gonfi non come a una cosa che si irradia, a una luce che esercita la sua dittatura su una spoglia tavola di roccia isolata nel cielo altissimo, ma come a una cosa inquieta, che fa rumore quando si infrange, che è umida come una lacrima, che accoglie nel suo abbraccio tutte le cose che finiscono col cadervi dentro. E anche se è un abbraccio mortale, questa sostanza se ne fa carico, accarezza quelle cose e le custodisce per sempre. Ed è come se dicesse “state tutti tranquilli e tranquille, che non siete andati perduti, non importa quanto male siano andate le cose per questa volta. Sarà uno scherzo ritornare, quando sarà giunto il tempo, perché mi sono presa cura di voi”… e, Hi, non importa se ammazzi i pesci brutalmente, non mi importa che questa cosa mi fa schifo. Io sento la sabbia diluita in fondo al tuo cuore, che si agita insieme a mille ricordi, a mille desideri, a mille altri laghi in miniatura, che giacciono in fondo al lago più grande, e…

Il fiume di parole che era sgorgato da quella bocca mutaforma ormai dimentica di ogni idea di compostezza si bloccò improvvisamente, come ostacolato da una scogliera. Restarono in silenzio per un po’, fino alla comparsa del primo riflesso bluastro che scintillava in lontananza, incombendo come un allarme. A quel punto Hi sorrise.

-dai, andiamocene a casa, Ih.

Si alzarono in piedi. Ih lasciò il rombo là sopra, dimenticandosene completamente. Quello si era ormai rassegnato, senza più forze o disprezzo da dispensare.

-in fondo, non può farti mica così schifo. Ci sono tanti cuori lassù, e ce ne sarà pur qualcuno in cui tu possa sentire il rumor…

Hi si bloccò di colpo, poi indicò qualcosa con l’ala alzata. Era il pescatore che aveva lasciato una barca legata a un palo, proprio sotto il promontorio. Si stava allontanando in salita, lontano dal lago per far ritorno al villaggio, portando delle cassette sottobraccio. Si accorse che lo stavano guardando e si girò verso di loro. Non c’era niente da fare: pareva sempre che ridessero prendendosi gioco di tutto. Stavano in piedi, altissimi, con il corpo che pareva venir consumato da una nerezza in espansione che si sarebbe arrestata solo dopo averli assorbiti completamente. Gli occhi gialli e spalancati costringevano lo sguardo di chi li guardava. Perché bastava guardarli e la distanza che li separava sembrava azzerarsi in un lampo, come se una forza maligna si impadronisse dell’osservatore lanciandolo a dirotto verso quel cerchio/pupilla che vi galleggiava al centro, ancor più vicino di quanto si potesse arrivare, fin nel profondo dove si generavano gli incubi di quelle creature da incubo. Un brivido rapidissimo. Il pescatore proseguì per la sua via.

-non ne ho mai visto uno così da vicino.

-neanche io. Strane creature.

-oh sì, davvero. Fortuna che a noi non può importare di meno.

Così dicevano le creature del cielo di una creatura della terra che in pubblico dissimulava l'indifferenza delle loro reciproche esistenze.

...

Se n’erano andati tutti. C’era solo la luna a far compagnia al rombo rimasto sul promontorio a ripensare ai suoi momenti migliori. Che storia, quella volta che era riuscito a cantare tutto l'alfabeto in bolle! Era appena un avannotto, c'erano tutti i parenti: i nonni, i fratelli della mamma che stavano dall'altro versante del lago, i fratelli di papà, tutti con quella strisciolina di scaglie argentee proprio come lui... perfino allora avrebbe sperato che se ne sarebbe ricordato in punto di morte, tanto straordinaria fu la sua performance. E poi, quante ne aveva viste anche dopo! Ne aveva visti, lui, di pesci che gli assomigliavano in tutto ma che a differenza sua erano stati spappolati da una picchiata… in fondo però, ora che non gli rimaneva altro da fare, pensava che non fossero scomparsi del tutto. Sarebbe stato solo lui a scomparire, ma una volta scomparso nessuno si sarebbe più posto il problema, e andava bene così. “Spero che la mia lisca si imprima su un sasso-fossile-fijodenamignotta". Poco prima del suo ultimo respiro, ripensò a quello che quel tale “Ih” aveva detto poco prima. Aveva detto chiaro e tondo che sentiva costantemente una musica dentro le orecchie, un “coro”. Ormai era confermato: quello là era proprio il più svitato della sua razza svitata.

La Carpa che stava nella vasca custodita nella capanna del pescatore aveva pensato per tutta la giornata a cose straordinarie. Curiosamente, i suoi escrementi si erano deposti sul fondo e in maniera del tutto casuale avevano composto un disegno somigliante in ogni sua curva a quella che poteva essere una rappresentazione dall’alto di tutto il paesaggio circondante il lago. C’era il villaggio, con il sentiero che si biforcava al limite nord, portando da una parte verso le foreste e dall’altra sul fondo dei colli, e che al limite ovest scendeva giù verso il lago; c’erano il canyon e i monti lontani, c’erano pure le caverne sotterranee dove stavano i graffiti che rappresentavano gli strani animali alati. Peccato che nessuno potesse ammirare quello straordinario risvolto del caso. Il pescatore si precipitò di corsa in casa, sbattendosi la porta dietro. Spense tutte le candele, ostruì le finestre come meglio poteva usando delle vecchie casse di legno marcio che giacevano alla rinfusa sul pavimento umido, si coprì il corpo con la mantellina antipioggia che indossava in barca, tirandosela sul volto così da nascondere gli occhi, e aprì la cassa piena d’acqua. La Carpa affiorò in superficie, la bocca pulsante. Il pescatore si inginocchiò, per udire e farsi udire, ma sembrava in preghiera.

-è vero! Loro vivono davvero sugli altopiani! In un punto oltre il canyon! Ce ne saranno centinaia, no, migliaia, oddio… devo assolutamente fare una cosa…

Guardava questo o quell'oggetto, guizzava lo sguardo sui vari generi di cose ammassate che ostruivano la capanna e prese ad ansimare con foga. Se lo ricordava adesso: gli veniva una strana asma che tuttavia non lo indeboliva, al contrario sembrava infondergli una sorta di foga incontrollabile in proporzione a quanto difficoltosa si faceva la respirazione. Voleva scattare, mettere in disordine quella roba, rimetterla in ordine, poi fracassare tutto, raccogliere i pezzi, ricominciare da capo. Forse negli episodi passati aveva usato qualche rimedio, un'acqua agrumata o certe preghiere particolari. Ma l'influsso della Carpa non sembrava coinvolgere la memoria.

Stringendo ancor di più la mantellina al suo corpo, riaprì la porta. Così imbacuccato sulla soglia si voltò a destra, poi a sinistra. Poi scomparve furtivo. Da bravo scemo custode di una Carpa Intelligente, aveva dimenticato aperte sia la porta della capanna che la cassa dell’acqua. La Carpa, essendo Intelligente, sommando queste due cose sapeva già che sarebbe morta presto. Sapeva anche dove sarebbe andata a finire, e, per l’ultima cazzo di volta, questo posto non era un paradiso. Era solo un posto in cui uno doveva sperare che ci fosse un po’ d’acqua. Dopo una vita con tutta quest’acqua, sarebbe un bell’affare doversi adattare a qualcosa di diverso dopo la morte. Per questo non c’è da sperare che il paradiso sia un altipiano brullo picchiato dal sole, dove fanno la cova degli umanoidi alati. Tra gli ultimi pensieri della Carpa, ce n’era uno così:

“uff, meno male che non mi ha chiesto che fine ha fatto il ricercatore che veniva dalla città, perché quello non lo so nemmeno io. Che bello poter morire sereni!”

(fine)


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