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il cigno cade

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 3 mar 2024
  • Tempo di lettura: 24 min

Il cigno cade


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Episodio 1


Cieco, vedevo apparire nel mio spazio nero, stagliati sull’orizzonte senza contorni, i corpi alti in piedi, uguali uguali ai tronchi degli alberi, a essi coetanei, d’un qualche permiano fossile emerso da fanghiglie postbelliche. Sentii l’assordante stridio di strega lanciato dal volo di un uccello notturno uscito all’improvviso dalla chioma di un albero noto che fino a quel momento era stato silenziosamente abitato come un uovo di spettri, e tremai per i fantasmi e gli incanti di questo mondo, per un istante tremai felice.


Poche ore prima, nello stesso luogo, ero stato immobile su una sdraio, mentre agosto si scomponeva e strisciava ai lati delle mie orecchie assieme a una brezza, di tanto in tanto assumendo forme di uccelli dai colori esotici simili a coagulazioni senzienti del suo polline. Palle di suono. Un pianto umido tremolante dal loro centro di nervi, palle di piume e fremito. Impresso sopra al mio viso, come una mappa, s’apriva a ventaglio l’intreccio di rami rossicci e aghi verdi, punture per gli occhi come resinosi morsi di zanzara. Illusioni trasparenti di sagome di lamprede nuotavano tra i cunicoli formati tra i rami. Corteccia che incontra se stessa. Il legno si reincontra ovunque nel suo reame, specchiandosi da solo, equivalendosi così al mondo verderossiccio di acqua salmastra e limo che s’espande appena al di sotto della superficie grassa e scivolosa di uno stagno di queste parti, là dove la costa puzza di zolfo. Soglia vischiosa.

Questa è l’ora in cui senza annunciarsi scocca il crepuscolo e si sprigionano libellule del suo stesso colore, un’ora così, rosa di cielo che è un odore e si riscalda su un fornello e la brezza diventa più fresca e sei richiamato dentro dove la televisione è accesa su un quiz che viene trasmesso solo in vacanza e sai che dopo ritornerai là nel buio, nello stesso punto, su una sdraio o in piedi tra alberi neri che parlano, che sono uguali uguali lo giuro agli alberi neri fermi che non parlano. E t’indicano il cielo che hai visto prima, un po’ discosto da sotto l’alta chioma di aghi così che si possa vedere. Ti raccontano la mappa che sta lassù, un’altra vacanza lassù, tu sei dicembrino e non la sai, non la puoi leggere tutta, sei piccolo come un piccolo albero, tra i grandi alberi alti alti non saprai mai crescere a toccare con le punte delle tue dita lignee di pelle marroncina i punti dei chakra del cielo e della notte, hai radici in questa terra e in un pantano del sottosuolo che te le corrode, e hai le radici dell’altro albero nella tua testa ormai bruciate, per quanto tu possa staccare dal suolo quelle che porti per piedi; e sei una massa di frattali come il cavolfiore e le conchiglie, sei frattali e angoliciechi, tu non puoi vedere, no non sai leggere per intero il cielo di agosto.


Eppure quello lo vedi bene, quel coso che vola.


Bella croce in picchiata ti viene indicata mentre ti raccontano che la notte di lassù -anzi no, solo quella vista da qua nei campi tuoi in cui, colmo d’assoluto e di fuga, senti atterrare le astronavi-, ebbene questa cupola è il primo racconto mai scritto, pieno di pagine che ti sfuggiranno. Ospiti in piedi si sussurrano segreti regalati alle ore in cui s’è detto di esprimere desideri, tenendoli per sé. Chiacchiericcio ai lati dei campi notturni dove balena un soffio di brace di sigaretta, qualcuno rintanato in manto di tenebra che inspira fumo, gli altri che sono venuti ospiti a guardare nel telescopio questa notte diventano gruppetti separati e sparsi qua e là nella vastità del prato, ciascuno rinchiuso in cerchi di parole sussurrate e intime come giovani celti che si siano scelti amanti al culmine della danza di fertilità, ognuno privato, ognuno conserva nella sua personale cronologia una balla di fieno di questo pavimento di paglia ed erbe risvegliate nel buio, ognuno sarà cenere sotterranea tra le cui particelle serberà anche un solo granello del proprio tempo trascorso qui, a sentirsi piccolo, minuscolo assieme a tutti sotto le luci immutabili nell’unico momento in cui tutti proprio tutti, più o meno inclini, annualmente sentono lo stesso, fortemente, sopportandolo, vedendolo -o alcuni facendo finta di non vederlo, di vederne solo i lumicini tintinnanti, come fissare inespressivi e a testa vuota una cintura di lucette natalizie attorcigliata a una ringhiera desolata. Vederlo, non vederlo. Raccontandolo in racconti di sogno antico, è normale, sì, tutti ci sono ci siamo passati. Ma mi sembra di udire un eco di altro in questi mormorii e parole. Oltre a loro, proprio accanto, ci sono altri ospiti, qui: in vesti spettrali, scaglie dell’oscurità stessa e delle sue rugiade di microscopici scintillii, tutte le estati successive come fiotti di geyser antropomorfi s’ergono qui in piedi, riprodotte in ombre, s’intagliano nella consistenza dell’aria: ne appaiono ai margini del mio campo visivo, presenti, ogni volta che sento un bisbiglio propagarsi e scemare, una risatina e una cosa che è meglio non si senta, tra passi di animaletti notturni, soffi. E altre cose, impossibili da dire, e altre cose, che non saprò mai scorgere, punticiechi.


La croce sta cadendo incontro a una morte segnata, quando accadrà?, hai una breve vertigine nell’immaginare l’esistenza tua in un anno futuro che ormai è passato da quattro anni, e cerchi di ricordarti le occasioni in cui invece ti eri immaginato nell’anno corrente, e quelle in cui ti eri visto, in carne e ossa il te stesso incrociato per strada, sapendoti qua, sapendo già morto l’uccello crocifisso a testa in giù nel Cocito delle costellazioni d’agosto, e nascosto da qualche parte in quello stesso bestiario cosmico un leone ruggisce disperato nelle pianure di astri, per gli innumerevoli kalpa trascorsi e per il verbo d’uno che grida nel deserto. Tu, piccolo arbusto, sai solo che quel cigno morirà.


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Episodio 2


Sì, uno dei primi viaggi all’estero. Ma non ricordo il big ben. Né architetture simili, non più di pochi secondi, nessuno sguardo spettrale m’osserva dalla pietra, dicendomi “qui c’è un respiro del luogo che colonizza i tuoi polmoni, quelli di molle fragile carne rosa e quelli mentali, molli, fragili e rosa”.


Ricordo dal finestrino dell’atterraggio macchie nere di corvi mai visti sui riquadri erbosi in avvicinamento -fiori del cielo, neri fiori del cielo caduti in condivisione con il suolo: lo razzolano e attraversano con gli steli neri sottili delle zampe, spiegano ali, corolle di piume di metallo nero e torba e luce, e ritornano, cielo terra, su giù, movimento. Caduti fiori neri per donare occhi al verde aeroportuale, piste edificate su un’antica collina di conigli. Tumuli sotto di noi, pietre focaie e fischietti di pan ed effetti personali appartenuti a spiriti-lepre ammucchiati nell’oscurità sotto i piedi, sotto le ruote che cigolano; l’aereo uccello si è posato.


Ricordo la sensazione del primo passo: altra terra, staccato da quella di sempre, teletrasportato: c’è l’oceano di mezzo: terra cui sono unito attraverso il contatto custode della possibilità d’avere un margine in comune con me, suola-suolo: terra messa a bagno in acqua salata. Fa fermentare acidamente le scogliere della sua base, da cui una corrente s’irradia ovunque, sotterranea: una brezza, che s’affaccia sulla schiuma e su legni morti di relitti norreni e su branchi di foche suicide contro gli scogli, spira identica sotto il suolo sotto di noi. Sono in altra terra: alzo lo sguardo, il cielo cobaltogrigio sopra, e si staglia ad ali spiegate la sagoma gigante di un cigno: attraversa la volta in lontana caduta, precipita o si getta in picchiata a una distanza così elevata negli strati di cosmo sopra l’azzurrino del giorno sfinito da non far temere nessun impatto -non ancora-, da non far sentire l’ustione di quelle fiamme che balenano ai suoi fianchi, non ancora avvolgendolo per intero: distante, è un precipitare che corrisponde ancora a un normale volo, sta solo sorvolando la terra, molto velocemente, gigante, soltanto con le ali che già si sanno rotte, adagiate triangolari ai fianchi, il collo inarcuato in una tragica concezione di sé: e, simile ai meteoriti delle sue estati natali che fanno sentire lo sfrigolio della loro scia, sparisce presto: lo si rivede ogni tanto, a condizioni di luce ottimali e specifiche, il suo passaggio nel cosmo lontano, di distanze illeggibili, che da quaggiù appare sempre nello stesso punto. Finché non atterrerà, un giorno. Su altri aeroporti di fiori neri caduti.


Ricordo il tragitto dall’aeroporto alla capitale, nei vetri in corsa la proiezione di case irreali, prese dai film dei maghi che sono zolle d’atlantico tangibili a casa, nei discorsi, nella mente: case bianche coi quadrati reticolati neri; da un giardino l’ombra di un gatto a coda alzata, di una stirpe portata qua da romani, costruttori di muri, sasso dopo sasso, sterminatori, ratto dopo ratto, cadaveri sterminati di barbari di boscaglie, uccisi da strade e sampietrini. Rintanato nel sedile più a fondo nella grande vettura scura e blindata come un temporale, all’improvviso sento che una cornacchia tutta nera, corvo di carogne diverso dalle nostre grigie, adagia le ali su una gelida corrente discensionale proveniente dal nulla, un vento orfano di genealogie artiche; così cala pian piano, si posa su una croce celtica ritta pietrosa nel paesaggio come una lapide. Posata s’aggiusta le penne, disegnata sullo sfondo in cui da comignoli di mattoni rossi sboccano brodosi stufati di tuberi e acque di torbiera, e nel cielo uniformemente grigio di un mattino o di una sera tra loro indistinguibili piccole costellazioni arrugginite sono per qualche tratto tracciate da fili spinati di pollai e porcili dormienti, sonno della campagna, reso talvolta inquieto dal fulmineo apparire di un irrazionale rossore di volpe. E appare quel corvo, e io, il viso sferzato da riflessi interminabili di giardini e case e gattaiole, mi preoccupo, so già che non lo saprò mai dire, so già che sarà banale, che uscendomi dal cranio mio già sepolto non sarà che un materiale degradante per il contatto con l’aria, che nessuno lo vedrà mai, mai apparirà ciò che ho visto io; e nello stesso istante sento che appare un prato in cui danzano ombre di druidi senza forma, la terra spalanca occhi celesti d’oceano e fissità demoniaca da lepre, e pure quella danza pagana mi osserva, con quegli occhi, con corone di corno di cervo mi dice che esiste, che per un attimo sono esistito, anch’io, dentro il suo cerchio, burning ring of fire, druidi afferrano manciate di paglie della radura e le trasformano in incenso in omaggio a quello stesso cielo, fumo per l’altitudine, per il ponte terra-cielo, sopra-sotto.


Ricordo il treno iniettato in una vena marrone, d’aria e strutture, di vagone, vetro. La fabbrica di Animals, cercare maiali volanti tra ciminiere e guglie. Due ragazze incontrate all’aeroporto, amiche per un weekend alleato contro il mondo, conoscono la nostra città dicono non ci credo dicono piccolo il mondo o qualcosa del genere, ricordo me che nel momento in cui le guardo sto già guardando anche il me stesso nell’atto di ricordarle quando avrò la loro stessa età o anche più, in cui mi perdo osservatore nel profondo lago che mi viene mostrato da queste figure, e tutte le figure loro coetanee, per sempre di quell’età, e io per sempre più piccolo di loro, per quanto invecchi e le superi, per quanto spariscano entrambe le nostre generazioni, oscurate da uguale inconcludenza, da assenza di immagini -amiche, io non lo so descrivere il corvo della visione che mi appare, e voi sapreste riuscirci?

Le ricordo quando prima della partenza erano all’autogrill, o quello che era, che sicuramente era, perché nella mitologia di allora tutto il territorio senza nomi né giurisdizioni, tutti gli spazi aridi tra i roveti di periferie e superstrade di tumorale cemento erano costellati di autogrill, apparteneva agli autogrill, architetture dei nostri deserti, di flemmatico e peculiare stagliarsi, di respiro proveniente dai loro corridoi rosagialli stipati di peluche scadenti e kit-kat. Le ricordo quasi stanche nella parola e nel sospiro eppure presenti e reattive al nome della città brutta, stanche, loro, cristallizzate in quell’età, notti lunghe insonni, delusioni assestano crepe all’edificio ormai dismorfofobico dei sentimenti e degli affetti e di tutto ciò che esala un ultimo spettro quando finisce l’illusione d’infanzia. Ma davvero guardandole capisco tutto questo? Davvero dal privilegio della mia statura bassa le ho osservate senza che mi osservassero di rimando, senza che se ne accorgessero? Viaggiavo stanco, spettrale, nel loro stesso stanco viaggio, sapendo già le loro stesse delusioni; ho forse colto un disagio laterale, dal profilo dell’occhio, un attimo solo in cui s’è sentita scrutata? Avrà pensato a ormoni preadolescenti. Ma davvero ho capito tutto questo di loro, di me, dell’età loro? Stupido com’ero? L’ho capito e non ho fatto niente: tutto già come ora. Vedo un treno marrone nella fuliggine inglese, gettato in varicoso infarto marrone: da una periferia si scende infine in una capitale. Un attraversamento stradale esala lo stesso fiato rantolante che dalle suole mi sale fino alle ginocchia in un istante di smarrita ispirazione in un giorno lontano in cui arrivo a Termini da Via Marsala, alto il doppio, senz’altri ricordi che questi.


Ricordo la pioggia dalla finestra dell’albergo gestito da indiani, pareti di tweed verde, proboscidi nei pattern. Dalla finestra della camera, pioggia calma e incessante su grigio e marrone: reticolati intricati di strutture indecifrabili, codice complesso di rune sui tetti disinfettati del mondo: ospedale proprio nel civico accanto, e tutta la pioggia che accomuna ogni cosa toccata dalla sua caduta è un’unica minestra, somministrata alla convalescenza di chi vive. Rannicchiato ai piedi del letto ripenso alla sera di ieri, dell’arrivo, flash carnosi dei double decker bus apparsi rossi nelle strade nere, nero flusso, bianco d’occhi quadrangolari, flash di palazzi vitrei o di auto in corsa, penso ai rossi sangue loro, lisci metallici pesci rossi immersi in una boccia di Ok Computer, marca di vetro che ancora non conosco, che s’infrangerà nel mio orecchio frantumando la musica in una cameretta d’adolescenza, fiocamente accesa solo da uno schermo che come un falò è il solo segnale di un’anima che là cerca il calore, an airbag saved my life, e seduto nella polvere d’albergo londinese rivedo rivivo ripenso a questo incidente stradale mortale di passato presente futuro, di tangenziali e moquette.


Ricordo la sitcom inglese della sera prima, un everyman che scava trincee di assurdo nel quotidiano, ricordo commento di mio padre sull’accento spudoratamente cockney della moglie del protagonista, da intendersi come complimento; ricordo commento di mia madre qualche giorno dopo in una chiesa dove la statua di un personaggio ligneo della cristianità insulare, druido-rabbino barbuto, dorme coricato su un fianco, lei non conosce la lingua, chiede “who is?” indicandolo a una guardia, quello risponde, nome sconosciuto, in pronuncia sconosciuta, madre afferra me e sorella una mano per lato e sottovoce dice “via”, come se il fatto di non conoscere il personaggio motivasse a non restare un istante di più, per non cadere nella trappola del tempo perso a scoprirsi sprovvisti di nozioni, o scoprirsi stranieri. Ma che c’è di strano nell’essere stranieri? Alzo dubbioso un sopracciglio: travi incrociate di soffitto sono belle e geometriche e brune come buon calore d’autunno, ma sono tante e ostruiscono, non rivelano nessuna ala di cigno che precipita, nessuna morte pronta a schiantarsi, ma neanche nessun volo, eccetto quello di piccioni entrati di nascosto a fare i reclusi grigi e malaticci tra nidi sporchi: c’è da chiedersi se non sia stato sempre così, lo scenario sopra la testa.


Ricordo, del museo delle cere, due o tre cose. Corpulento voce aspra sangue finto, uno della sezione degli orrori dove ci sono quelli pagati per spaventare, prima di entrare spiega con linguaggio preciso e forte e chiaro che quanto si trova oltra la soglia è proibito a certuni malati, cioè ai cuori dentro le casse toraciche e ai feti dentro gli uteri. Qui vivono stereotipi viventi di wrestler-metallari che hanno a cuore il benessere delle gestanti e dei mortali, di chi nasce e chi crepa, di chi entra pagando e chi se ne va perché è finita la visita, è finita la festa. Demone di informazioni per l’uso. Dentro la galleria d’orrori, un labirinto di ragnatele e scheletri, io stupido in età stupida obbedisco a una legge non scritta per la quale di fronte a queste cose ci si deve mostrare divertiti, perché non ci si deve spaventare e altre stronzate, ricordo il riflesso roseo negli occhi sporgenti di un altro npc identico al wrestler di prima che spunta dall’ombra urlandomi in faccia per spaventarmi, il mio sorriso asservito a ignobili leggi farisee prepuberali riflesso dentro la sclera del suo volto cristologico, lunghi capelli unti coronati di spine. Difficile dire cosa sia la neutralità del suo sguardo: non impressionato dal mio non spaventarmi, non deluso dal mio non spaventarmi, non capace di soddisfarsi nel caso in cui riesca davvero a spaventare, forse non ignaro dell’atteggiamento cui sto sottomettendomi, ma non per questo critico, non gli importa niente di tutto questo, forse sta pensando che odia questo posto, qualunque cosa succeda, qualunque cosa scorga negli altri che passano e se ne vanno presto e vengono sostituiti. Tu l’hai detto. Ricordo, d’un breve tragitto che attraversava il museo in un carrello da minatore su binari, la sagoma di cera del bardo che scrive a ripetizione sempre la stessa frase di un suo dramma dell’essere -o non essere automi. Ricordo un diorama di medioevo nero, frati cantano una nenia di ossa in sincrono a un fatale rintocco di campana, effetto sonoro cortesemente offerto dal dolby surround, audiofilia del contemputs mundi. Squittendo peste, appare una torma di ratti neri in corsa su mucchi di teschi. Penso vividi tutti quei morti sui pavimenti di stracci e fluidi corporei nei granai, il rantolo esalato nel momento in cui appare chiaramente che l’esistenza non è altro che cranio, golgota, luogo del niente.


Non ricordo un ritorno. Il cigno cade, e non ci sono aeroporti per quando la sua carcassa bruciata infiammerà la terra d’origine.


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Episodio 3


-c’è poco da dire, è semplice, è deciso, è così com’è: non scrivo altre righe, niente melodie, niente scarabocchi che s’illudono di rappresentarmi il modo in cui guardo, come quelle immagini che facevo nei diari scolastici, quando le voci delle elementari, le voci dietro i banchi lucidi, che oscure immaginazioni viennesi chiamano perversi polimorfi e che io chiamo sanguisughe fameliche di futuri possibili, guardavano e dicevano: secondo me lui farà il fumettista!, sapete come la penso. Vi ho preso da parte, molte volte, nel giardino degli ulivi, confessandovi la mia notte, la mia insonnia, l’imminente uccisione della mia ispirazione.


Questo l’ho detto io ai miei uditori, deformi pastrocchi d’altri volti che hanno detto la loro sul mio stare qua: come un convegno di soliti fantasmi riuniti sempre alla solita ora del solito giorno della settimana, riempiono di voci la mia serata, solitaria e incompresa come un adolescente pietrificato nell’atto di struggersi. Parlano premettendo sempre al loro enunciato la chiusura di parentesi quadre.


[]-ma poi tornerai indietro, quando una musica, un’impressione veloce, ti scuoterà, ti riporterà in quelle campagne dove sei stato, desideroso d’esprimere, sempre in piedi tra le spighe con la schiena avvolta da un cielo immaginario. Ritornerai, avrai ricadute su ciò che dici d’aver lasciato, come hai fatto già altre volte. Incostante.


-mi accusate spesso dell’eccesso contrario.


[]-tu non capisci niente: elogi cose invisibili. Essenziali per te e per gli altri principini delle stelle, voi soli sui vostri solipstistici pianetoidi, non avete cure che per la casetta e lo stagnetto delle anatre nel giardino scarno. Elogi cose invisibili, prendendotele per te stesso solo, senza cederle mai, facendone una poesia che mormori, e che lustri per il suo non venire alla luce, come se l’assenza fosse il più nobile degli atti; e facendolo non ammetti che anche noi sappiamo che esistano, queste cose. E che sappiamo anche noi che per ciascun individuo esiste un se stesso che si forma altrove, fantasmatico, del tutto indipendente dai nostri giudizi su di lui, del tutto slegato da ogni parola che voglia contenere il suo mondo: un se stesso che continuerà a scivolare nella sua direzione di corridoi invisibili sotto le cose… ti stupisci, eh? Non ti aspetti di sentire da altre bocche le parole che tu stesso useresti, vero? Ebbene, non sei il solo custode della tolleranza inerte.


Ma c’è da dire che non sono veramente degli “altri”, che anche questo a cui alludono, questo riavvicinamento alla possibilità di comunicar e di capirsi, è un monologo. Rinunciando a comunicare, perfino scoprendoli immaginari, mi soffermo su un dettaglio del discorso, evadendo.


-ah, le anatre. Ecco dov’erano andate… le ho rubate io. Per portarmele nell’eremo.


[]-ma insomma, perché non ammetti il tuo smarrimento anche questa volta?


-ma se non faccio altro che ammettere. Non applicate a me, per favore, i parametri che applicate altrove.


Quello che mi ha parlato in coro di tutti, il portavoce, beve un sorso. Passa una carovana rosa carne e nero velluto, camerieri con vassoi: segnali di vetro a ogni sosta, intelligenze vispe di clienti ascoltando i boccali rispondono al codice sparpagliato tutt’attorno nel locale, in cui mi trovo anch’io per questa riunione coi miei interroganti, sono seduto, sono invitato. E le pareti che circondano le lunghe panche si stringono verso me, rinchiudendomi, ricordandomi la loro consistenza che di per sé non vuol essere riconosciuta, non far capire quale aspetto abbia assunto l’ambientazione di questa visione: forse il primo pub in cui metta piede da anni, puzzo d’alcol rimasto in fondo a una brocca, escreto da zucchero già volatilizzato; forse a casa di uno di loro che mi stanno attorno, parlandomi tutti con la stessa voce, inscenando un interrogatorio voluto dal caso; in una sala hobby sotto una casa di uno di loro, in cui non sono mai stato: una logica di sogno è penetrata nei muri e nelle cose, facendosi promiscua conferma della mia visione del reale: oltre i tavoli lunghi popolati da white noise antropomorfi in ciarliera indecifrabile comunione, oltre i televisori e gli scaffali di fumetti e gli arcade, stanno appesi in mostra i quadri degli schizofrenici, i Pollock delle bestie che coi tratti di colore dissezionano le geometrie del visibile, e le copertine degli album di Daniel Johnston, e le pagine gigantografate di un taccuino d’appunti, e i serpenti e le red rock del tempo del sogno pittogrammato dall’origine alla fine.


Intanto, l’esame di me stesso, il denudamento umiliante al centro di questa pubblica piazza prosegue, voci amiche ma ostili strappate da lembi di esperienza vissuta che continuano come si conviene per loro natura a vociare, senza curarsi di dove sono, del confine onirico-sabatoseraleimmaginario, della loro nascita e della loro morte.


(ma non vedete che sta morendo, lassù in cielo?, migrazione sconfitta? Muore in eterno, adesso. Il messaggero lacustre. Si è esaurita la sua sorgente vulcanica della partenza, o si è inabissata la scogliera carsica dell’arrivo? Sospeso in eterno in un’eterna morte nel cielo.), mormoro, o forse mi limito a pensarlo molto rumorosamente. In ogni caso non rispondono.


Il dialogo segue costanti. Pause, sottrazioni, nascondimenti. Dicevano: il suo problema è che non ha mai tentato di guardare in faccia qualcuno, la sua difficoltà è sentire veramente di star comunicando; avevano ragione? Ogni pausa, ogni momento calibrato dal loro potere di parola, in cui si divertono a stuzzicare i nondetti intessuti nelle ragnatele invisibili attorno a me e alla conversazione, è momento per me di tregua e riposo. Sgattaiolo segretamente nell’ombra che sotto di me proietto da un debole addome di topo, giocato da zampe di un sadico aspirante predatore. Da fuori, mi vedono con lo sguardo perso che ama il suo stesso smarrimento, concentrato in particolare nel ginocchio che trema sotto il tavolo trasmettendo un’ondulazione nervosa al legno di quelli seduti vicino, nelle dita delle mani intrecciate al di sopra, unghie che si grattano a vicenda come il gesto facilmente stanabile di uno che imbroglia al compito in classe;


(dentro, invece, rimpicciolito, cammino in un corridoio di pensieri mentre le voci aspettano di riprendere parola, e nel tunnel che attraverso, ancora una volta, quadri appesi: recano cose udite, domande scritte, immagazzinamenti su cui ritornare, da cui trarre iconoclasti collocamenti di cessi in museo: uno di questi è l’effige di una cosa udita poco fa, la domanda era, “avevano ragione?”. Eh, avevano ragione, loro, quando affermavano quelle cose? A me sembra -dico io in forma di topo toporagno ranocchia biscia appena sgusciata da un tuorlo di latte, mentre fisso assorto il quadro-, invece, che ci ho provato a guardare in faccia, che ho fatto uno sforzo, che… oh, ma insomma. Non è semplicemente ridicolo? Questo giustificarsi, riconoscere cosa si è fatto, metterlo in parole che lo rinsecchiscono. Anche se in una stanza privata, rimane di cattivo gusto. L’io-bestiolina si guarda attorno: nei corridoi, s’ode distante un gocciare la cui eco si sparpaglia in vibrazioni d’invisibile, che assediano il vuoto museale privo di visitatori attorniando le cornici delle opere, i cordoni rossi messi a cingere le statue affinché non vengano toccate, affinché gli spazi d’osservazioni vengano limitati anche qui. Non affinché l’arte e le rappresentazioni non si rovinino, forse, ma affinché, forse, queste non pungano, non ustionino: bestiola di sottobosco, fradicia olezzante di foglie bagnate, sta ferma davanti alle immagini che ella stessa ha fatto allestire nella sua privata esposizione: e ancora trema, come avrebbe fatto nei suoi giorni di ininterrotta fuga tra i cunicoli del fogliame e del terriccio, ancora gli esplodono torace e zampe per oscillazione intrinseca di ansie, trasmesse fino alle vibrisse e alle squame. È sufficiente, per sentirsi così, stare al cospetto di ciò che crede d’aver captato coi sensi, e che ciascun neurone-pittore-scultore ha riproposto lì: ogni parola, lì incorniciata o scolpita, ha sembianze che allarmano: di seguito un esempio.)


(esempio: descriva una sezione del quadro che la colpisce: una testa di bue su un torso umano bruno e ricciuto guarda dalla tela con pupille sbiancate, sfoggiando lo sguardo fisso compiaciuto di un voyeur che ha beccato il vulnerabile momento in cui parlo da solo a voce più alta di quanto convenga; un altro demone che ha l’aspetto di un fascio senziente di lucertole zampillanti, simile a una fontana verde, è ritratto lì accanto in tratti d’ombra di acquerelli dai colori limacciosi. Seppur statico nella staticità dell’arte figurativa sembra un vivo: frizione, udibile, viscido urtare di numeri, di corpi: reca in ogni cellula, in ciascuna atomistica lucertola, il terrore del potente tirannico pensiero di chi è collettività, cannibali sentimenti di torma, tribù, pensiero di quegli spaventosi esseri, forti di viscere e di morsi, capaci di sapersi gruppo, mai singolarità, capaci di dilaniare l’emarginato, issandolo ridicolo e sbudellato sulle picche o sugli artigli sauri innalzati al sole tremendo, gridando all’unisono: “guardatelo!, cosa credeva di fare?, assicuriamo che nessuno creda niente!”, e trema, il topo spettatore trema, là fermo, assistendo alla brutale mostra delle sue paure, sforzandosi di trovarvi una qualche bellezza esoterica, magari un gusto macabro tanatofilo)


ma ecco: un rumore, dal pub o dalla casa di gente che non esiste, o da altri spazi rinchiusi tra pareti del reale, lo tira su: l’io-bestiola viene trascinato verso l’alto, costretto a riemergere da quei luoghi profondi.


E ancora gli viene rivolta parola.


[]-perché vivi nella paura? Non ne hai motivo.


-se dicessi di non averne motivo, in un’altra situazione, in un altro tipo di processo alle intenzioni, mi direste invece che i motivi li ho tutti, che devo asserire, rivendicare, tutto il diritto, tu esisti e pertanto puoi, il resto scuse, il resto scuse. Ecco cosa c’è in comune, in ogni vostra… accusa: “tutto il resto scuse”. Finisce sempre così.


Che strazio. Tornare in un luogo in cui ogni affermazione perde significato, in cui si deve usare linguaggio decifrabile, insomma mentire, lasciare incompleto.


[]-ogni nostra “parola”. Tu dici “accusa”. Non ne hai motivo.


-siete costanti, in questo, sì… è importante, per voi, questa questione della costanza, quando si viene a processo.


(Quello che dicono mi fa venire in mente la premura spontanea ed effimera di una sconosciuta albergatrice di qualche anno fa, di quell’anno incastonato tra gli anni in cui si sono arrestati gli avvenimenti. Lei fu disponibile, domandatrice, ascoltatrice, per i pochi minuti di permanenza al tavolo della colazione di ciascun viaggiatore che si ferma al suo alloggio. Pause di silenzio. Pregne di consapevolezza della fine dell’interazione, del non rivedere mai più in questa vita; ciononostante, non c’è disdegno di quei minuti, di quei secondi nemmeno: c’è un ruolo, al loro interno. Te ne devi vivere tanti. Sembrava dire così, quando taceva, quando aspettava.)

(E mi aveva detto quasi le stesse parole, vedendomi la paura, seduta accanto a me, a spalmarsi la marmellata sulle fette biscottate, a macchiare la tovaglia a quadri d’appiccicume zuccherino che attira i moschini.)


Ma le voci che non sono lei parlano ancora in questo locale, tratto dai loro mondi.


[]-eppure ne parli ancora… che senso ha dichiarare? Non farai più queste cose, va bene, e allora?


-ma siete voi che l’avete chiesto. Non va bene se non dico, non va bene se dico. E…


[]-va bene. Ho capito. Allora dì quello che vuoi, quello che vuoi dire veramente. Scappa dove vuoi.


Annuisco, gonfiando leggermente una strisciolina di grasso sotto il collo, residuo di carnoso imbarazzo infantile comune a noi tutti. Obbedendo, bambino, all’altrui richiesta soltanto nel momento in cui si sovrappone al mio istinto di gettarmi in un vicolo da roditori, chiamarlo via di fuga e spuntare da qualche altra parte ove la città e la sua ombra di passato bucolico si popolano all’improvviso di magici presagi e scene danzanti in cerchi di solstizio. Ecco, solo quando s’incontrano l’io e l’altro in questo sottile e subdolo accomodarsi degli altri a un mio capriccio (dentro di me urlo più volte fino a confondermi io stesso: non è questo che voglio! Fate come se non ci fossi! Io sono sparito! Io cancello!): solo allora, solo per un istante, torniamo di colpo seduti ai banchi di scuola, compagni di classe:

si leva un frammentato odore di tempera, da astucci, dita, cestini, lame di temperino che in punta di lingua concentrano un puntiforme sapore di acuminata aria autunnale; raggi arancioni si triforcano perforando la finestra del rientro pomeridiano e scivolano dolcemente inclinandosi in direzione dei lavoretti di bricolage appesi, facendo oscillare le letargiche scimmie immaginarie della nostra stanchezza, code e braccia abbarbicate ai rami di luce pronta a tramontare, il pomeriggio di scimmie-traveggole s’addormenta su se stesso contando i minuti allungati prima della campanella, la sera attende fuori nel parcheggio e oltre il cortile la città intera si staglia specchiandoci, in ogni sua parte, traffico rumoroso sui dossi gialloneri e forni di pizzerie bruciaticce e gru dagli scheletri ramificanti nell’orizzonte e androni di condomini nuovi in cui una palla rimbalza e un triciclo di plastica arcobaleno rantola graffiando il mattonato, ogni cosa specchia il nostro rossore di tempie pulsanti, l’essere stati derubati del gioco postprandiale dalle ore supplementari d’attività didattica e dai portapranzo tutti diversi ammassati a lato della cattedra: vittime di una pennica stordente passata in veglia, ci accasceremo senza riposo sui letti delle nostre camerette. Sì, tutto sommato è proprio questo che sento per una frazione di secondo: siamo ancora tutti così: ma è stato solo un attimo, un delirio fugace, che nemmeno saprei descriver loro, e che non avrebbe alcun senso descrivere, e non ha senso scrivere, di nulla: non di questo, non di altro.


E allora, eletto all’improvviso irresponsabile leader temporaneo di questa fantasia di sera trascorsa al chiuso, li conduco, camminiamo per un corridoio tra i tavoli, superando i white noise seduti a consumare e limonare conducendo vite di rumore a noi sordo; facendo per uscire, fiancheggiamo un’ultima volta i quadri che decorano l’ambiente, opere realizzate dai pazzi col dono della visione, amate riproposizioni wharoliane quadripartite dell’esplosione di Fat Man su Nagasaki, cittadina portuale della cristianità spadaccina. Usciamo, ansimando li porto là fuori al parcheggio, asfalto fradicio di pioggia passata, di tutte le piogge, la somma di tutte le fioriture salate nell’asfalto, quella sporca fragranza d’acqua che sboccia, inebriandoci i giorni tediosi passati in questo buco e in tutti gli altri buchi d’urbanità provinciale disillusa, stanchezza senza speranza di alcuna poesia nelle cose, nei sensi, nelle associazioni, nell’idea fallimentare che quell’odore condiviso o quel languore di sentimenti possa tramutarsi in canzone, sperimentazione sonora o letteraria, espressione; ma tutto qui produce un tonfo. E resta soltanto la pioggia assorbita dal bitume nero, la pioggia in sé stessa, a brilluccicare in mille occhietti di fioco umidore guardandoci da sotto le scarpe, sporcandoci le suole di sottile schiumosa fanghiglia, rendendole cigolanti di squittii fastidiosi come babbucce di plastica negli spogliatoi d’una piscina, e improvvisamente tutto è cloro, rancida chimica.


E allora indico il cielo di notte, senza stelle, mi sforzo di indicare le stelle che non ci sono in quella lastra vuota di tiramisù allo smog:


-ma non vedete che sta morendo, lassù in cielo??


E cerco di indicare il cigno, cerco di indicare la fine. In silenzio, guardiamo tutti in su: il cigno sta combattendo invano, si dimena, tra essenze vampire, forse non i predatori che lo inseguivano nel vento, forse sono solo metafore, pezzi di se stesso distaccatisi dal cuore, per volare all’esterno e prendere sagome simboliche attorno a lui, mostrandogli la sua fine, come in uno specchio. Non lo sappiamo, possiamo solo guardare. Non siamo tutti di questa città, che la logica onirica del mio vivere in sopravvivenza ha trasformato in una confusa città dell’ovunque, la sua stazione è uguale a dieci stazioni in cui ho messo piede, cartello blu scritto di bianco con lettere mancanti appeso in una chiazza di sole spietato a mezzogiorno fissata in un cristallizzato istante di nulla e vento che sparpaglia volantini, chimera di arbusto spinoso e aiuola smorta e cimitero di ferraglie di vagoni morti, graffiti. Perciò riconoscono, anche quelli che vivono altrove, i segni dello star qua, di quello che ho cercato di dire, disperandomi del tonfo ininfluente delle mie parole e dello sforzo d’averle formate, per l’ennesima volta, per sempre, per sempre. Per sempre cadrà quel volatile di stelle che precipita nel cielo, e loro tutti, che hanno capito, si chiedono se l’indicare una “fine”, di qualcosa che in fondo è già scomparso senza per questo scuotere alcunché nel prosieguo ininfluente del tutto, non sia solo il disperato gesto di qualcuno che vuole indicare qualcosa, anche se non c’è.


[]-il cigno muore. E allora? Questo non dovrebbe avere niente a che fare con quel che dici o non dici di voler fare.


Sospiro, perché se dicono questo non ci possiamo proprio capire, perché nella sera terremotata dallo sfrecciare forsennato di macchine per le strade vicine che ci schiaccia in una morsa di rumore notturno e lampioni e stelle morte, non posso che guardare il volo mortale che non capiscono. Guardo, assente a me stesso, e a ognuno di quei momenti del presente in cui osservo, senza però sentire che potrò rielaborare quanto vedo; malato, vedendo che nulla accade, nemmeno lassù: il fuoco della morte delle ali ormai gremite, i morsi degli spettri lacerati fuori dal cuore per svolazzare attorno e assaltare la gola non lasciano segni di luce. Scarsamente visibili, attraversano un tratto malaticcio di volta torbida e poi spariscono, assieme a tutta la carcassa, non più d’un fenomeno astrale opaco osservato da un angolo di squallore del pianeta Terra, attraverso infiniti sovrapposti vetri di atavico sconforto.


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Episodio 4


-e allora cosa ti ferma?-, mi aveva chiesto la signora del b&b, o una domanda analoga. Non ricordo cosa ho risposto.


Il vento arrivava dal lato scoperto del porticato, infiltrandosi nella tovaglia bianca a quadri apparecchiata, spirando tra i vasi e le nostre gambe con la leggera e godevole flemma di ricordi d’altre estati, abituali visitatori della veranda. Gli ospiti degli altri alloggi erano scomparsi: nessuno era nel giardino o nell’orto a svolgere i lavori agricoli volontari, nessuna macchina eccetto la mia nel parcheggio accanto a pollaio e stalla; le tende di chi dormiva all’esterno stavano ferme, mettendo radici nell’erba. Ero da solo a versare succo di qualcosa, miele di qualcosa, zuccheri ribollenti di eccesso, energia, paura. Nel momento vulnerabile del nutrimento mi aveva visto, vulnerabile molle sporco appiccicoso, eppure non mi ero fermato. Parlava di oroscopi chiedendomi il segno, parlava di laboratori in cui certamente doveva esser stato distillato il covid da mani intriganti di alchimisti di Ordos. Ma non è una consumatrice di notizie d’ogni forma. Crede in queste cose solo perché deve crederlo in quanto sacerdotessa di campagna. Mi parla del lago.


Mi vede agitato, forse, mi vede attorno alla testa cose che non dico, che forse non vedo neanche io, per abitudine. Come non vedere le proprie mani. Non chiede da cosa sto scappando.


-ma no, provaci. Altrimenti per tutta la vita ti farai governare dalla paura.


Mi vede nervoso, agitato, sa che al lago vorrò andare, dice “le acque, il loro movimento…” come parlasse di un medicinale, e allora capisco la sua menzione di zodiaco, capisco che è perché crede negli elementi. Saluto e ringrazio. Non so perché era uscito fuori che mi piaceva scrivere di cose che ho passato, dei nulla dei miei non-avvenimenti. Partii poco dopo.

La strada si faceva palustre attorno, dita di salici, trampolieri; e anche dalla distanza, ritornando dal mio viaggio e in viaggio per un’ultima sosta d’acqua, mi sembrava di riuscire ancora a vederla: la signora sempre in parannanza rintanata in un angolo di cucina color orso marsicano a immergere voluminose braccia in una tapioca di interminabili colazioni di clienti, esce fuori in veranda accostandosi alla lunga tavolata dei pasti per vederli, individuarli in un attimo di chiacchiera, spiarli nel momento del singolare vento dei porticati, poi rientra, per continuare a impastare: la vedo ancora, le dita nella mistura granulosa di farina e acqua tracciano spirali d’elementi in sincretismo, quella poltiglia fragrante di grano urinoso è il suolo stesso, acqua terra, le sue sono braccia immerse in un orto.


In piedi a riva, acque, folaghe, una matrice patinosa d’alghe microscopiche a velare il primo confine sotto la superficie, acqua densa; verde riflesso di salici oppure di quei punti vivi, vite e morti istantanee di granelli verdi? Cosmi di muschio d’acqua. Chissà poi perché. A che scopo. E le uova di quelle folaghe in chissà quale nido introvabile di sterpi gialli, là dove ho camminato tra un ponticello di legno e spazi di vegetazione tra i canneti. E un cigno morto starà da qualche parte sul fondo del lago, a scomporsi in grassi geyser invisibili fino alla superficie, quest’acqua è il suo corpo. In cielo, invece, non lo vedo, non vedo il suo volo cadente: mattina di sole azzurro. Azione delle acque. A volte nemmeno la schiuma della vita sembra morire. A volte cellule e soli non esplodono in continuazione, e si riesce a credere che alcune cose non facciano rumore.

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